Io non vi sarò. Io mi alzerò e passerò. Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.
(Stephen Vincent Benét, poeta)
C'è un momento, nella seconda presidenza di Donald Trump, che segna una netta censura con il passato recente, quando, cercando di tradurre in termini comprensibili, per dirla come Mogol, le discese ardite e le risalite dei suoi soliloqui, il presidente ha detto che gli Stati Uniti devono guardare al loro passato senza cadere nell'errore di esserne spietati giudici.
Un modo come un altro per dire che, sotto il Trump II, l'America deve essere, ieri come oggi, sempre bella e pura. E, in un mondo bello e puro, non può trovare posto, ad esempio, come ha contestato allo Smithsonian, la pervicacia di dare troppa importanza alla schiavitù. Quasi che una delle pagine più controverse della storia americana sia un moscerino da scacciare con un gesto della mano.
Ma la Storia (con la maiuscola) non può essere relegata al ruolo di storiella, quella che si manipola e si impasta a seconda di chi in quel momento muove la cloche del potere.
Eppure resta sempre la tentazione di usare la Storia per affermare, come nel caso di Trump e del circo che lo circonda, la primazia di una parte del Paese, quella bianca e rurale, che ancora vive nel mito della frontiera, degli uomini che attraversarono le grandi pianure per affermare la loro civiltà, a dispetto di chi in quei luoghi viveva da secoli.
La cultura prevalente sino ai primi anni Quaranta del secolo scorso era intrisa di pionierismo e delle immagini gonfiate da una propaganda che cercava di marginalizzare la presenza dei nativi, considerati alla stregua di un piccolo problema da rimuovere piuttosto che risolverlo. Una propaganda che trovava linfa nella potente macchina del consenso del cinema, che solo negli anni Settanta cominciò a mutare registro. E proprio nel 1970 uscirono nelle sale americane due film come Piccolo grande uomo, di Arthur Penn (con Dustin Hoffman) e Blue soldi (con Candice Bergen e Peter Strauss) he ribaltarono la prospettiva, raccontando la storia di massacri nella prospettiva dei nativi.
Per celebrare le gesta dei bianchi, tutti erano d'accordo per raccontare una storia che mai o quasi mai coincideva con la realtà. Quindi, nella riserva indiana di Pine Ridge, nella località di Wounded Knee (nell'odierno South Dakota), nel 1890, il massacro di duecentocinquanta Sioux Lakota, in maggioranza donne e bambini, mentre gli uomini si erano praticamente già arresi, per mano dei cavalleggeri del 7° Reggimento (7th Cavalry Regiment), fu fatto passare per una eroica azione militare. Resa ancora più epica dal fatto che le Blue Jackets erano poche decine, al cospetto, si disse, di centinaia di selvaggi assetati di sangue dei bianchi.
Venti di quei cavalleggeri, per gli atti ''eroici'' compiuti a Woonded Keen, furono insigniti della Medal of Honor, una delle massime onorificenze degli Stati Uniti.
Ma quella narrazione, nel tempo, si è scolorita dei toni imposti dalla leadership politica bianca, anche sotto la spinta di scrittori e sceneggiatori che, come detto, hanno scavato nella storia, separando la verità dall'esaltazione farsesca dell'epopea dei pionieri, facendo emergere la realtà.
Come appunto per Wounded Knee, dove non ci fu impresa, ma solo un massacro.
L'ex segretario della difesa, Lloyd Austin, aveva ordinato una revisione delle medaglie assegnate in quel periodo storico dopo che, nel Congresso, si era levata forte la voce di chi chiedeva di cancellare l'obbrobrio di medaglie appuntate sul petto di massacratori, fatti passare per eroi, perché questo era quello che serviva in quel momento storico.
La revisione storica è stata spietata riportando alla realtà l'essenza di quella che fu fatta passare per una battaglia, ed invece fu altro: un episodio di una strategia di rimozione fisica, senza porsi alcun problema etico, dei nativi da territori ambiti e, quindi, da dovere bonificare dagli indiani.
Ma ora il segretario alla Guerra (nuova denominazione del dipartimento), Pete Hegseth ha messo la parola fine alla querelle, decidendo che per lui quei soldati ''meritano quelle medaglie" - anzi elevandoli nel suo pantheon degli eroi americani - poiché "il loro posto nella storia della nostra nazione non è più in discussione".
La battaglia/strage di Wounded Knee, per l'eco clamorosa che ebbe all'epoca, è diventata parte della storia del 7° Cavalleria, tanto che nel suo stemma c'è ancora la raffigurazione della testa di un capo nativo. Ma l'America sa anche essere strabica, perché quando nel 1990 il Congresso si scusò con i discendenti di coloro che furono uccisi a Wounded Knee, non ritenne (o ebbe il coraggio) di revocare le medaglie. Cioè, massacratori, ma non completamente.
D'altra parte cosa ci si poteva attendere da uno dei preferiti di Trump (Hegseth, fino a un istante prima di essere nominato segretario di Stato, era una star dell'intrattenimento televisivo, con la tendenza a non rispettare i rigidi criteri di sicurezza imposti dal suo ruolo al Pentagono) se non adeguarsi alle direttive del capo?
Perché Trump, a marzo, in uno degli ordini esecutivi che spara a raffica, in modo compulsivo, ha imposto alla macchina federale di "Ripristinare la verità e la sanità mentale nella storia americana", qualche sia il significato recondito di questa criptica affermazione.