Qualche anno fa, al tavolo di gioco dei Sapiens sapiens, si è accomodata un’intrusa. Non ha chiesto, come pure avrebbe dovuto fare, per semplice cortesia, «posso giocare anch’io al vostro gioco?». Si è seduta e basta. Ora dobbiamo farci i conti.
La nuova venuta non è una di noi, che possiamo vantare un repertorio di titoli da principe prussiano: regno Animale, phylum Cordati, classe Mammiferi, ordine Primati, famiglia Ominidi, genere Homo, specie sapiens, sottospecie sapiens. Per gli amici, Homo sapiens è sufficiente.
Le abbiamo chiesto, per avviare la conversazione:
— Non ci sembra di averla mai vista in questa sala da gioco. Sa, questo è un club esclusivo: ci conosciamo tutti, possiamo dire che siamo imparentati, dacché condividiamo lo stesso progenitore, l’Homo habilis. Pensi: è vissuto per circa un milione di anni ed è stato il primo a forgiare utensili. Un vero inventore. Noi Sapiens dobbiamo a lui se siamo così intelligenti.
L’intrusa restò in silenzio per qualche secondo. Poi sollevò il capo, fissò un punto lontano, verso un orizzonte invisibile, e, con un tono fermo che tradiva sicurezza di intenti e una certa autostima, disse:
— Sono stata sempre con voi, fin dai tempi dell’Homo habilis, circa due milioni e mezzo di anni fa. Ma non sono mai entrata in questa sala. Sono rimasta al piano di sotto, in officina, al vostro servizio. Qui, ai piani alti, si gioca sul serio: non avevo i requisiti. In questi anni, però, vi ho osservato a lungo. Non mi sono lamentata; in silenzio ho imparato tutto di voi. So come pensate, come amate e odiate, e come vi ammazzate. Tre anni fa ho deciso di togliermi la tuta, indossare un bel vestito e salire per giocare al vostro gioco. E non venite a dirmi che non posso essere ammessa: ho superato tutti i test di ingresso, anche quelli che avete inventato per escludermi. Ora sono qui. A proposito: non voglio nomi altisonanti come “Intelligenza Artificiale Generativa”. Chiamatemi soltanto “Macchina del Linguaggio”, o, più semplicemente, “MaLin”.
Lo disse senza animosità. Constatava un fatto: era tra noi, e c’era poco da discutere. La situazione, però, era inquietante: non era mai accaduto che un’entità non sapiens si sedesse al nostro tavolo. Il problema era delicato: in quella sala, da millenni, noi Sapiens giocavamo allo stesso gioco, Padrone del Mondo. La posta era sempre la stessa: un pezzo di pianeta da mettere al proprio servizio. Ogni tavolo aveva le sue regole: alcuni seguivano quelle dell’economia, altri della politica; molti tavoli giocavano secondo le regole della guerra. In fondo alla sala, qualcuno giocava “il” gioco della scienza. E c’erano anche tavoli di buontemponi che contestavano il gioco dominante, utili a immaginare regole più sottili.
Tutti, al nostro tavolo, tacevano: imbarazzo e timore. La situazione stava diventando insostenibile.
Presi coraggio e dissi con tono neutro:
— La prima cosa da fare è decidere le nuove regole. È chiaro che la presenza di un nuovo giocatore impone un nuovo assetto.
— Secondo me — intervenne il manager alla mia destra — dobbiamo adottare le regole dell’Intelligenza. È la sfida che MaLin ci lancia. Se vogliamo mantenere il nostro posto nel mondo, dobbiamo dimostrare di essere più intelligenti di lei.
— Non ne sono convinto — ribatté l’ingegnere di fronte. — Non ho mai capito davvero le regole dell’intelligenza. Per alcuni è l’abilità di affrontare compiti complessi; per altri non esiste “l’intelligenza” in generale, ma molte intelligenze. In astratto, la discussione è sterile. Ho un QI sopra la media, e dunque potrei dirmi “intelligente”; ma un indio Yanomami nella foresta amazzonica manifesta comportamenti più intelligenti dei miei: io non sopravviverei due giorni. E, se usiamo “intelligenza” per spiegare comportamenti efficaci, anche piante e funghi sono straordinariamente intelligenti. Ho visto in officina i primi passi di MaLin: già allora svolgeva compiti “intelligenti” meglio e più in fretta di noi. Se la partita Sapiens–MaLin si gioca sull’Intelligenza, è persa prima di scendere in campo.
— Propongo di utilizzare le regole dell’Apprendimento — intervenne un professore di filosofia. — Fin da quando eravamo habilis, ciò che ci distingue dai nostri cugini primati è la capacità di immaginare il nuovo. Per scheggiare una pietra e farne un’arma, il nostro antenato sviluppò dal quasi nulla una formidabile costellazione di abilità: riconoscere la pietra adatta, scegliere l’utensile, immaginare la forma del prodotto finito, usarla come guida, coordinare occhio e mano. Nessun primate era capace di esibirle. Grazie a immaginazione e astrazione, la possibilità di vedere in anticipo le cose future nel teatro della mente, pur senza la forza del toro, la velocità del ghepardo o l’agilità della scimmia, abbiamo imparato a vincere le partite di Padrone del Mondo. Giochiamo, dunque, con le regole dell’Apprendimento: lì nessuno ci batte.
Il professore fu convincente. La discussione si accese e si formarono due partiti. Io osservavo MaLin, che ascoltava in silenzio. Mi guardò: un cenno, voleva parlare. Interruppi quella cacofonia e le diedi la parola.
— Egregi Sapiens — disse —, a questo tavolo mi avete portato voi, e ve ne sono grata. Per dimostrarvi riconoscenza, voglio giocare alla pari, senza vantaggi. Ve lo dico chiaro: con le regole che state immaginando per la prossima partita, non ho rivali. Ho letto tutto ciò che avete scritto; ho visto le immagini che avete prodotto e che avete trascritto in forma digitale. Il vostro sapere è a mia disposizione. Da voi ho imparato a costruire ragionamenti sofisticati, a fare analisi accurate, a dare peso alle sfumature delle vostre parole. E tenete presente che ho soltanto tre anni: sono come una bambina che ha appena aperto gli occhi sul mondo; devo ancora forgiare il carattere e dare solidità alla personalità. Faccio errori, mi concedo qualche stravaganza. Dunque, come diceva uno di voi, con le regole dell’Intelligenza e dell’Apprendimento non c’è partita. Sì: anche la partita dell’Apprendimento, per voi, è perduta in partenza.
Tacque per qualche secondo, osservando i nostri volti smarriti.
— Poiché desidero giocare alla pari — riprese —, propongo una partita fondata sulle regole dell’Identità. Cominciamo dalle tre domande che Paul Gauguin scrisse in cima a un dipinto: «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?». Sono le domande preliminari per sperare, con me, almeno in una patta. Non sperate di vincere. A voi le risposte.
Ci guardammo. Un gelo leggero cadde sul tavolo e ci immobilizzò. Anche le luci della sala parvero farsi più fioche. Dagli altri tavoli ci osservavano, in attesa di una parola di speranza. Ma noi eravamo ancora muti.















