Anche se c’è davvero l’imbarazzo della scelta, parlare dei misteri d’Italia non è facile.

La prima domanda che sorge spontanea è la seguente: da dove iniziare?

Dato che ho approfondito questi temi nel mio lavoro “Storia della Prima Repubblica” che sto ultimando in queste settimane, in attesa di un editore che me lo pubblichi e mi aiuti a diffonderlo, preferisco lasciare da parte i misteri del periodo monarchico e quelli più recenti, legati alla c.d. “Seconda Repubblica”.

In questo articolo mi limiterò ad alcuni riferimenti al periodo che ho vissuto come testimone, dotato di un minimo di consapevolezza, concedendomi qualche flashback e qualche fuga in avanti.

Inizierò così la mia storia partendo dagli anni Settanta.

Nei primi anni Settanta hanno luogo avvenimenti cruciali nella storia recente della Repubblica Italiana. Ancora non si sono spenti gli echi della bomba di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), che si viene a sapere di un colpo di stato programmato (e poi revocato) dal principe Junio Valerio Borghese (nomen omen, scriverà qualche ideologo di sinistra, all’epoca), figura di spicco della Repubblica di Salò, in combutta con la loggia massonica P2 di Licio Gelli, per sovvertire le istituzioni repubblicane.

Nel 1964 c’era già stato un primo tentativo di colpo di stato, mai chiarito e mai compreso a fondo. Pietro Nenni parlò di un "tintinnar di sciabole” e tale tentativo è noto come Il Piano Solo. Venne ordito dal generale De Lorenzo e prevedeva la presa del potere da parte dei carabinieri e l'arresto di comunisti e socialisti.

Il piano prevedeva infatti che se la sinistra comunista fosse scesa in piazza, organizzando scioperi e manifestazioni, i Carabinieri, sarebbero intervenuti e avrebbero assunto il potere per mantenere l’ordine e la democrazia, in opposizione a questa deriva reazionaria di stampo comunista. Della polizia e di altre forze era meglio non fidarsi. Solo i carabinieri erano sicuri. Per questo venne definito il Piano solo. Ma torniamo al tentato colpo di stato del dicembre 1970.

Il golpe ideato da Borghese arriva a un soffio dal compimento, tanto che il “principe nero” ha già pronto il proclama da leggere in televisione con cui avvisa gli italiani che nel Paese c’è stato un cambio di regime. Nel piano dei congiurati, tutte le persone “scomode” sarebbero state arrestate e deportate in luoghi dove non avrebbero creato problemi ai golpisti (parte in Sardegna e parte nell’isola di Ponza). Oltre ai politici della sinistra, definiti “scomodi”, sarebbero stati arrestati i più noti sindacalisti e il Capo dello Stato, mentre il capo della Polizia, Angelo Vicari, sarebbe stato ucciso. Tutto è stato pensato nei minimi dettagli, facendo convergere i congiurati verso la capitale, per occupare diversi posti strategici.

Alle ore 20.30 del 7 dicembre 1970, si dà il via alle operazioni e alle 23:00 circa, molti luoghi prestabiliti sono occupati, al largo di Civitavecchia si muovono delle navi provenienti dalla Sardegna, con l’intento di caricare oppositori e sindacalisti (l’elenco è da tempo stilato) e condurli tra l’isola di Ponza e la Sardegna. Al Viminale sono prese le armi e le munizioni, al Ministero della Difesa ci sono il colonnello Giuseppe Lo Vecchio e i suoi uomini, mentre i forestali si muovono, guidati dal maggiore Luciano Berti, in direzione della RAI.

I punti nevralgici del piano, nella Capitale, sono diversi: un cantiere del costruttore edile Remo Orlandini, nel quartiere Montesacro, zona nord est della città; la palestra di via Eleniana, sede dell’AssoParacadutisti dell’ex tenente dei paracadutisti Sandro Saccucci; la sede romana di Avanguardia Nazionale di via Arco della Ciambella (vicino al Pantheon).

Il comando “politico” delle operazioni è presso l’ufficio di Mario Rosa, un ex maggiore dell’esercito e segretario organizzativo del Fronte nazionale, in via Sant’Angela Merici, nei pressi di via Nomentana. A capo del settore “politico” ci sono Borghese, Rosa, il generale dell’Aeronautica in pensione Giuseppe Casero, il colonnello dell’Aeronautica Giuseppe Lo Vecchio e il capitano dei Carabinieri Salvatore Pecorella. Poi intorno alle 01:30 (siamo già nel giorno dell’Immacolata del fatidico 1970), tutto si ferma, c’è un contrordine e il golpe non si attua.

Al Quirinale, con i voti del Movimento Sociale Italiano, capeggiato da Giorgio Almirante, era stato eletto il democristiano Giovanni Leone, destinato a non completare il settennato a causa di un processo in materia di tangenti che lo vide coinvolto, antesignano dei grandi processi di Tangentopoli che, venti anni dopo, affosseranno ingloriosamente la Prima Repubblica.

Nel frattempo le indagini per la strage di Piazza Fontana imboccano stranamente e misteriosamente la pista anarchica, portando all’arresto di un ballerino dalla vita sciroppata, un certo Pietro Valpreda, il capro espiatorio ideale per un’opinione pubblica impaurita e benpensante, preoccupata di tutto e di tutti (degli studenti capelloni, delle droghe, della musica psichedelica, degli estremisti di destra e di sinistra, degli anarchici, del caro-dollaro e del collegato caro-petrolio, della guerra fredda, di quella del Vietnam, dell’avanzata delle donne che rivendicano la loro libertà sessuale, del risveglio del movimento degli omosessuali, degli scioperi, dell’inflazione e persino degli UFO).

La stampa si butta a pesce sul mostro Valpreda: ballerino, separato e anarchico.

Quali altri prove si aspettano per fare giustizia del responsabile della strage di Piazza Fontana? La controinformazione di sinistra si scatena sul fronte opposto, dopo che un altro anarchico, Giuseppe Pinelli, amico di Valpreda, vola misteriosamente dal quarto piano della questura milanese, nel corso di un drammatico interrogatorio, teso probabilmente a fargli ammettere delle colpe non sue.

Il commissario Luigi Calabresi viene additato come il responsabile di quella morte truce e inspiegabile. Il 17 maggio 1972 anche la vita del commissario Calabresi viene crudelmente spenta, come quella di Pinelli, come quella delle 17 vittime di Piazza Fontana; e come i morti delle stragi che seguiranno nel 1974: quelli sul treno Italicus a Milano e quelli di Piazza della Loggia a Brescia. Tutte vittime innocenti e inconsapevoli di un periodo oscuro, in cui forze occulte e tenebrose hanno tramato per fini politici contro l’Italia, fragile crocevia di uno scacchiere politico internazionale, che vedeva contrapposti cinici imperialismi atlantici e orientali, capaci di muovere le loro pedine in maniera spericolata, in una lotta spietata, all’ultimo sangue, la cui posta in gioco era il potere e la supremazia in Europa e nel mondo intero.

Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro (marzo-maggio 1978), vanno letti in questa ottica. Altrimenti resteranno per sempre retaggio di quel groviglio di trame inestricabili e di disegni, tanto temerari quanto inconfessabili, arditi e illeciti, che hanno visto coinvolti pezzi deviati dei servizi segreti italiani, gruppuscoli terroristici di destra e di sinistra, servizi segreti americani e sovietici, spie venute dal freddo e teste calde arroventate al sole di casa nostra, o magari venute da lontano.

Il tutto in nome del potere, mascherato dall’ipocrisia della giustizia, dalla retorica comunista che voleva il riscatto delle masse popolari, oppresse dall’imperialismo borghese; ma anche dal maccartismo cieco e barbaro, che vedeva nel diverso, nel comunista, nell’anarchico, nell’omosessuale, nell’artista eccentrico e anti-borghese, il nemico da battere (e da abbattere).

Nascono ballate, canzoni, pièce teatrali per celebrare la vittima dell’arroganza borghese, Giuseppe Pinelli, colpevole, prima di tutto, di essere un anarchico.

Non saprei dire perché non siano nate canzoni anche per Luigi Calabresi, per le guardie del corpo di Aldo Moro e per lo stesso onorevole democristiano, vittima di un sistema democristiano che non volle e non seppe accettare e rischiare per un’alternativa che aprisse la società italiana verso il futuro. Il sangue di Aldo Moro (e delle altre vittime innocenti) è ricaduto su di noi, come il sangue innocente di Cristo, in un contesto universale e perpetuo, ricadde sui figli dei responsabili. E gli innocenti, come Cristo in Croce, continuano a piangere per il male perpetrato dai malvagi.

In quegli anni frequentavo l’istituto Tecnico per Ragionieri “Leonardo da Vinci” di Cagliari.

Noi studenti, testimoni e vittime di quegli inganni del potere, non volevamo essere complici passivi e partecipi inconsapevoli di quelle manovre, di quelle stragi; e a modo nostro ci ribellammo.

Da parte mia (come di tanti altri), fu una ribellione pacifica; rumorosa ma non violenta; scomposta e confusa ma sincera; dietro il pretesto della guerra del Vietnam e delle altre guerre imperialiste (come in effetti furono l’invasione dell’Ungheria prima e quella della Cecoslovacchia poi).

Dietro gli slogan apparentemente vuoti e di facciata, si celava il nostro desiderio di capire cosa stesse succedendo veramente nel mondo; la nostra voglia di libertà; l’ambizione di poter contare e di potere incidere su una realtà più grande di noi. Altri ci provarono invece con la forza armata, con la violenza. Ma il nemico, palese oppure occulto che fosse, era più forte di loro e li ha sconfitti.

Anche noi siamo stati sconfitti, ma almeno non ci siamo macchiati le mani di sangue innocente.

E forse ha ragione il poeta quando scrive che i migliori della nostra generazione, quelli che hanno rifiutato la violenza e propugnavano solo la pace, l’amore e la musica, sono morti nelle spirali di morte della droga oppure affogati nei fumi dell’alcool.

Noi siamo i superstiti di quella stagione e abbiamo il dovere di raccontare ciò che abbiamo visto e vissuto: senza falsità, senza alibi, senza scuse, senza nostalgie, senza sensi di colpa, senza vanagloria, senza mitizzare un passato che va soltanto raccontato e, tutt’al più, analizzato. Non certo mitizzato. Oggi capisco perché i nostri governanti non vollero intervenire contro di noi in maniera frontale e diretta, preferendo controllarci e tenerci a bada da lontano.

In alto si giocava una partita più grande e più importante.

Per i nostri governanti era fondamentale poterla giocare sino in fondo. Una rivolta interna, o peggio, una rivoluzione, non rientrava nei loro piani. Qualche schedatura alla DiGos e qualche colpo di manganello potevano bastare.

C’è veramente tanto da dire su questi argomenti che, in parte, sono ancora avvolti nel mistero. La storia è davvero una materia affascinante.

C’è chi dice che c’è sempre una causa, dietro ogni evento. E c’è anche chi ha detto il contrario, sostenendo che la storia è dotata di una vita propria e si evolve come ogni organismo vivente, con la sua nascita, il suo sviluppo e il suo tramonto. Forse hanno ragioni entrambi. I grandi eventi, probabilmente, osservano una traiettoria esistenziale che, in una certa misura, esula dalla volontà dei personaggi storici che pur agiscono in quel determinato contesto storico. E non di meno, all’interno di queste vicende esistenziali, l’interprete può scorgere molteplici, singoli eventi, caratterizzati dal meccanismo consequenziale della “causa-effetto”.

Nella storia d’Italia, analizzando i fatti salienti di questi oltre centosessanta anni di unità politica, mi sembra di scorgere un filo comune (un fil rouge, per dirla alla francese), che lega gli eventi tra di loro: la paura del comunismo.

A ben vedere, anche il liberale Cavour, prima della stessa unità italiana, sembra spinto dal desiderio di affermare le sue idee, a discapito di quelle rivoluzionarie di Mazzini e dello stesso Garibaldi (parlerei qui del terrore di un comunismo ante-litteram, ovvero di terrore di un proto comunismo).

Nel 1922 chi spiana la strada agli squadristi che marciano su Roma è il terrore, nutrito dallo stesso Vittorio Emanuele III, che l’occupazione delle fabbriche del triennio precedente, sia un preludio a un movimento rivoluzionario di stampo comunista (su imitazione dei rivoluzionari del Palazzo d’Inverno in Russia).

E anche la formazione di Gladio è istituita in chiave anticomunista e sarà la matrice su cui si innesteranno la strategia della tensione e i due tentativi di golpe che abbiamo ricordato nell’articolo. Anche l’uccisione di Aldo Moro è legata in maniera indissolubile al terrore che procuravano i comunisti a certi potentati di stampo capitalistico. E senza quella paura, l’ultimo statista della prima Repubblica, non avrebbe pagato con la vita, il suo tentativo di aprire la via del governo ai comunisti.

Ma questo fa già parte di un’altra storia.