Il conflitto tra Hamas e Israele costituisce uno dei nodi più complessi e controversi del diritto umanitario contemporaneo. Per comprenderne le dinamiche non basta guardare agli eventi militari o ai dati sulle vittime; occorre esaminare il quadro ideologico che guida le scelte tattiche di Hamas e il modo in cui tale quadro influenza la vita quotidiana della popolazione civile di Gaza. Due elementi emergono con forza: da un lato, la glorificazione esplicita della morte e del martirio come valori politici e religiosi; dall’altro, la sistematica collocazione di strutture e assetti militari all’interno di aree civili densamente popolate. Lungi dall’essere frutto di circostanze contingenti, queste scelte appaiono come componenti integrate di una strategia più ampia, volta a mantenere la capacità di combattimento, a influenzare la percezione internazionale e a consolidare l’egemonia ideologica sulla società locale.

Hamas e la dottrina del martirio

Sin dalla sua fondazione nel 1987, come ramo della Fratellanza Musulmana, Hamas ha definito la lotta contro Israele non solo in termini politici ma anche religiosi, presentandola come un dovere di fede. Lo statuto del 1988 afferma esplicitamente che non vi è “soluzione alla questione palestinese se non attraverso il “jihad”, rifiutando ogni processo negoziale che non porti alla liberazione completa della Palestina storica. In questo quadro, il martirio (istishhad) non rappresenta una tragedia da evitare, bensì un obiettivo onorevole. Morire combattendo Israele non è presentato come un sacrificio doloroso ma come un atto di fedeltà a Dio e alla comunità, premiato con la salvezza eterna.

La leadership di Hamas ha più volte ribadito questa visione in termini inequivocabili. Nel 2014 Ismail Haniyeh dichiarò pubblicamente: “Siamo un popolo che brama la morte come i nostri nemici bramano la vita”. Nel 2024, dopo la perdita di tre figli e di alcuni nipoti in un bombardamento israeliano, lo stesso Haniyeh ringraziò Dio “per l’onore di aver avuto tre figli e alcuni nipoti martirizzati”, aggiungendo che “attraverso questo dolore e questo sangue costruiamo speranza, futuro e libertà per il nostro popolo”. Yahya Sinwar, leader politico e militare di Hamas a Gaza, ha più volte definito le perdite civili palestinesi “sacrifici necessari”, descrivendo il martirio come fonte di “gloria e onore” per l’intera comunità. Queste dichiarazioni delineano un atteggiamento radicalmente diverso da quello delle dottrine militari convenzionali, che pongono la protezione della popolazione civile al centro delle priorità strategiche.

Indottrinamento e socializzazione della cultura del martirio

La centralità del martirio non è semplicemente il riflesso spontaneo di condizioni di oppressione o di disperazione. È il risultato di una precisa strategia di costruzione culturale e politica. Hamas gestisce un sistema informativo integrato che comprende scuole, moschee e mezzi di comunicazione controllati, come l’emittente Al-Aqsa TV. Attraverso questi canali vengono diffuse narrazioni che celebrano la morte in combattimento, rappresentata come via privilegiata alla redenzione individuale e alla liberazione collettiva.

Particolare attenzione è rivolta ai bambini. Programmi televisivi, canzoni, cartoni animati e persino spettacoli con pupazzi incoraggiano la violenza contro Israele e presentano il martirio come una scelta eroica. Nei curricula scolastici controllati da Hamas, le lezioni sulla storia e sulla religione tendono a esaltare la resistenza armata e a normalizzare il sacrificio della vita come esito naturale della lotta. Anche i rituali pubblici svolgono un ruolo fondamentale: i funerali dei combattenti vengono trasformati in eventi collettivi celebrativi, durante i quali bambini e adolescenti vengono spesso coinvolti in parate simboliche, vestiti con abiti paramilitari o con fasce che recano la scritta “Ya Shaheed” (“O martire”). Organizzazioni internazionali, tra cui l’UNICEF, hanno più volte segnalato l’impatto psicologico negativo di tale esposizione precoce alla violenza e alla glorificazione della morte, collegandola a traumi a lungo termine e alla normalizzazione del conflitto come condizione di vita.

L’uso delle infrastrutture civili per scopi militari

L’ideologia del martirio trova un’espressione concreta nella scelta di collocare strutture e assetti militari all’interno di aree civili. Ospedali, scuole, moschee e complessi residenziali sono stati ripetutamente segnalati come luoghi utilizzati per depositi di armi, lanciatori di razzi e centri di comando. Questo comportamento trasforma edifici che, secondo il diritto internazionale umanitario, dovrebbero essere protetti, in obiettivi militari legittimi una volta dimostrato il loro uso per scopi bellici.

Le ragioni di tale scelta sono molteplici. In primo luogo, la presenza di combattenti e armamenti in aree civili rende più complesso per Israele colpire tali obiettivi senza causare vittime collaterali, creando un “effetto scudo umano”. In secondo luogo, i danni derivanti da eventuali attacchi israeliani producono un vantaggio propagandistico immediato: le immagini di vittime civili e distruzione alimentano la percezione internazionale di una sproporzione nell’uso della forza, isolando diplomaticamente Israele e suscitando solidarietà verso la causa palestinese. In terzo luogo, l’assenza di basi militari convenzionali costringe Hamas a ricorrere a soluzioni tipiche della guerra irregolare, come l’inserimento nell’ambiente urbano, analogamente a quanto visto in altri conflitti asimmetrici. Infine, la sofferenza derivante da tali scontri viene utilizzata per mobilitare consenso interno e reclutare nuovi combattenti, rafforzando così la resilienza organizzativa di Hamas.

Le Forze di Difesa Israeliane hanno diffuso numerose prove fotografiche e di intelligence che documenterebbero queste pratiche. Nel 2014 l’UNRWA, agenzia delle Nazioni Unite, ammise pubblicamente che alcuni razzi erano stati immagazzinati all’interno delle proprie scuole. Nel 2023 l’IDF rese pubbliche informazioni sull’esistenza di strutture di comando sotterranee sotto l’ospedale Al-Shifa. Hamas ha sistematicamente negato queste accuse, definendole propaganda di guerra, ma organizzazioni indipendenti come Amnesty International e Human Rights Watch hanno confermato episodi di lanci di razzi da aree civili e la presenza di infrastrutture belliche integrate in contesti residenziali.

Implicazioni per il diritto internazionale umanitario

Il diritto internazionale umanitario, in particolare il Protocollo Aggiuntivo I alle Convenzioni di Ginevra, impone la distinzione tra combattenti e civili e la protezione di questi ultimi da attacchi diretti. L’uso di civili come scudi umani e la militarizzazione di siti protetti costituiscono violazioni gravi. Quando un’infrastruttura civile viene utilizzata per scopi militari, essa perde la propria immunità e diventa un obiettivo legittimo, purché l’attacco rispetti i principi di proporzionalità e precauzione.

La strategia di Hamas comporta quindi un doppio effetto: da un lato, espone la popolazione di Gaza a un rischio più elevato, trasformando le aree residenziali in potenziali bersagli; dall’altro, crea un dilemma operativo e morale per Israele, costretto a bilanciare l’obiettivo militare con l’obbligo di minimizzare le perdite civili. In termini giuridici, Hamas viola il divieto di utilizzare scudi umani e di trasformare beni civili in obiettivi militari; in termini politici, sfrutta proprio le conseguenze di queste violazioni per ottenere vantaggi di immagine.

Vittime civili come leva strategica

L’accettazione da parte di Hamas di un elevato numero di vittime civili non è un effetto collaterale accidentale ma un elemento integrato nella sua concezione della lotta. Le perdite vengono presentate come sacrifici necessari e, soprattutto, come strumenti di pressione. Ogni immagine di distruzione e ogni vittima civile diventano strumenti per mobilitare la comunità internazionale, generare indignazione contro Israele e consolidare l’ostilità verso lo Stato ebraico all’interno della popolazione palestinese. L’ideologia del martirio consente di rappresentare la morte non come una sconfitta ma come una vittoria morale e spirituale.

Questa impostazione non è comune neppure tra altri movimenti insurrezionali, che tendono a considerare le perdite civili proprie come un rischio da ridurre, pur accettandole quando inevitabili. Hamas, al contrario, sembra mostrare un grado di tolleranza ideologica verso tali perdite molto più elevato, come dimostrano le dichiarazioni dei suoi leader che celebrano pubblicamente anche la morte di familiari stretti in quanto “onore” e “fonte di speranza”.

Dissenso interno e limiti alla cultura del martirio

Sebbene Hamas cerchi di presentarsi come portavoce dell’intero popolo palestinese, esistono voci critiche all’interno della società di Gaza e della Cisgiordania. Sondaggi condotti da istituti di ricerca palestinesi mostrano come il sostegno a Hamas non sia costante e tenda a diminuire dopo conflitti particolarmente sanguinosi. Fazioni rivali come Fatah e numerosi attivisti della società civile hanno denunciato l’indottrinamento dei bambini e l’uso politico della sofferenza. Tuttavia, la capacità di queste voci di incidere sul dibattito pubblico è limitata dalla repressione politica interna e dalle condizioni di vita in un territorio sottoposto a blocco economico e militare.

Questi elementi indicano che la cultura del martirio non è un dato naturale e condiviso da tutta la popolazione, ma un prodotto della pressione ideologica esercitata da un movimento armato che controlla le istituzioni e lo spazio mediatico.

Un confronto storico

L’uso di infrastrutture civili per scopi militari non è un fenomeno esclusivo di Hamas. Movimenti insurrezionali in altri contesti, come il Viet Cong in Vietnam, l’IRA in Irlanda del Nord o Hezbollah in Libano, hanno adottato strategie simili per sopravvivere contro avversari tecnologicamente e numericamente superiori. Ciò che differenzia Hamas è l’esplicita celebrazione del martirio, compreso quello dei civili, come elemento strategico e non semplicemente come costo inevitabile. Questa sovrastruttura ideologica amplifica le conseguenze umanitarie e pone questioni etiche di particolare gravità.

Effetti a lungo termine sulla società palestinese

L’indottrinamento sistematico alla cultura del martirio produce conseguenze profonde. Dal punto di vista psicologico, bambini e adolescenti esposti a immagini di morte e a messaggi che glorificano il sacrificio sviluppano livelli più alti di stress post-traumatico e una visione del mondo segnata dalla violenza come normalità. Dal punto di vista culturale, la celebrazione pubblica dei martiri e l’integrazione di questi valori nei rituali collettivi consolidano un’identità basata sulla disponibilità al sacrificio estremo. La progressiva inclusione di donne e bambini tra i potenziali “martiri” amplia il raggio di questa ideologia, rendendola parte della vita quotidiana e delle aspirazioni sociali di un’intera generazione.

A lungo termine, tale impostazione rischia di rendere più difficile qualsiasi percorso di riconciliazione o di costruzione di istituzioni civili stabili. Anche se Hamas dovesse perdere la propria leadership, l’eredità culturale del martirio, radicata nelle nuove generazioni, potrebbe perpetuare la disponibilità alla violenza e alla perdita come strumenti politici.

Conclusione

L’abbraccio ideologico di Hamas al martirio e la scelta di integrare infrastrutture militari nelle aree civili non sono reazioni occasionali a condizioni di emergenza, ma parti di una strategia calcolata. Questa strategia considera la morte, anche quella di civili, come una risorsa politica e propagandistica. Utilizza le perdite civili come strumento per influenzare l’opinione pubblica internazionale, consolidare il consenso interno e delegittimare Israele. Allo stesso tempo, viola principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, in particolare il divieto di usare scudi umani e di trasformare beni civili in obiettivi militari.

Il risultato è un conflitto in cui la popolazione di Gaza sopporta il peso congiunto delle azioni militari israeliane e delle scelte strategiche di Hamas. La sofferenza dei civili diventa non solo una conseguenza, ma un elemento centrale della dinamica del conflitto, trasformando la tragedia in un messaggio politico. Questo aspetto, più di ogni altro, evidenzia come il problema non sia soltanto la violenza esterna, ma anche una cultura ideologica che considera la perdita di vite come mezzo legittimo di lotta.