Alla Casa Bianca, con una cerimonia dallo stile solenne, Donald Trump e Binyamin Netanyahu hanno presentato un piano articolato in 20 punti per mettere fine alla guerra che da due anni devasta la Striscia di Gaza. L’iniziativa, che prevede cessate il fuoco, scambio di prigionieri e una nuova architettura di governance internazionale, si inserisce in una fase critica del conflitto israelo-palestinese, con oltre 30.000 vittime palestinesi, centinaia di ostaggi ancora detenuti e un premier israeliano sotto pressione interna.
La proposta è ambiziosa ma controversa: chiede ad Hamas di disarmare e rinunciare al controllo della Striscia, apre a una transizione amministrativa sotto supervisione internazionale e lascia solo in appendice la prospettiva di un futuro Stato palestinese. L’annuncio ha suscitato entusiasmo a Washington, prudenza tra i governi arabi, e forti tensioni a Tel Aviv, dove l’ultradestra accusa Netanyahu di aver ceduto a pressioni americane.
Cosa prevede il piano in 20 punti
Il documento presentato da Trump e Netanyahu disegna una road map multilivello. Alcuni passaggi sono immediati, altri condizionati a sviluppi futuri:
Cessate il fuoco immediato tra Israele e Hamas.
Rilascio degli ostaggi israeliani entro 48-72 ore, in un’unica soluzione.
Liberazione di prigionieri palestinesi: circa 250 ergastolani e 1.700 detenuti dopo il 7 ottobre 2023.
Ritiro graduale delle truppe israeliane dalla Striscia.
Ingresso massiccio di aiuti umanitari, distribuiti da ONU, Mezzaluna Rossa e (forse) dalla controversa Gaza Humanitarian Foundation.
Disarmo totale di Hamas in cambio di amnistia per i miliziani ed esilio garantito per i leader politici.
Amministrazione tecnica ad interim, composta da tecnocrati palestinesi.
Supervisione da parte di un Board of Peace, guidato da Trump e dall’ex premier britannico Tony Blair.
Creazione della GITA (Gaza International Transitional Authority) con sede ad Al-Arish, in Egitto, sotto egida ONU.
Forza di sicurezza internazionale schierata a Gaza, con compiti di ordine pubblico, distribuzione aiuti e ricostruzione.
11-20. Punti più vaghi che riguardano la ricostruzione economica, la sicurezza regionale e un possibile avvio di un processo politico palestinese, subordinato a riforme interne dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). In sostanza, il piano congela il conflitto senza risolverne le radici. Non impone evacuazioni di massa, non menziona la Cisgiordania, ma apre spiragli per una discussione futura su un possibile Stato palestinese.
La posizione di Hamas: tra sospetto e tattica
Hamas ha reagito con cautela. Il movimento islamista, fiaccato da due anni di bombardamenti e isolamento politico, sa di non poter rifiutare platealmente un piano sostenuto da Stati Uniti, Russia, Cina e diversi Paesi arabi. Tuttavia, la dirigenza insiste su un punto: nessun disarmo senza fine dell’occupazione israeliana. Dietro le dichiarazioni ufficiali, il calcolo strategico è evidente:
Accettare il piano significherebbe perdere il controllo politico e militare di Gaza, riducendosi a forza marginale.
Rifiutarlo potrebbe fornire a Israele il pretesto per una nuova offensiva militare devastante, con il sostegno esplicito di Washington.
Hamas dunque prende tempo, lasciando intendere che risponderà solo attraverso la mediazione di Qatar ed Egitto.
Netanyahu tra due fuochi: coalizione divisa e famiglie degli ostaggi
Per il premier israeliano, l’accordo rappresenta un dilemma politico esistenziale. Da un lato, accettare il piano gli consente di alleggerire la pressione internazionale e ottenere la liberazione degli ostaggi, richiesta dalla società israeliana con forza crescente. Dall’altro, rischia di spaccare la sua fragile coalizione di governo.
I ministri dell’ultradestra, come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, rifiutano qualsiasi ipotesi di Stato palestinese e chiedono l’annessione della Cisgiordania. Smotrich ha bollato il piano come “fallimento diplomatico clamoroso”.
Le famiglie degli ostaggi, invece, minacciano manifestazioni senza precedenti se Netanyahu non tornerà dagli Stati Uniti con un accordo concreto.
Alcuni esponenti moderati del centrodestra, come Gideon Sa’ar, si dicono pronti a sostenere il premier in parlamento pur di far passare il piano.
In questo equilibrio precario, Netanyahu deve decidere se salvaguardare la coesione del governo o rispondere alla domanda crescente di pace e sicurezza interna.
La strategia di Trump: mediatore o calcolatore elettorale?
Per Donald Trump, la presentazione del piano ha una duplice funzione. Sul piano internazionale, gli consente di presentarsi come pacificatore globale, capace di ottenere risultati dove i predecessori hanno fallito. Sul piano interno, in piena campagna elettorale, rafforza la sua immagine di leader forte e pragmatico, vicino a Israele ma aperto al dialogo con il mondo arabo.
Il riferimento a Tony Blair e la creazione di un Board of Peace sottolineano la volontà di dare alla proposta un respiro multilaterale. Tuttavia, la centralità della figura di Trump resta evidente: il piano porta il suo marchio e mira a inserirlo nella storia come il presidente che ha fermato la guerra di Gaza.
Le reazioni internazionali: tra sostegno e sospetto
Il piano ha ricevuto commenti differenti a livello globale:
Cina e Russia si sono dette favorevoli, interpretandolo come un modo per congelare il conflitto e ridurre l’influenza regionale di Hamas.
I Paesi arabi moderati (Egitto, Giordania, Emirati) guardano con interesse alla possibilità di stabilizzare Gaza, ma restano scettici sul ruolo di Israele e sulla marginalizzazione dell’ANP.
In Europa, le capitali hanno espresso sostegno prudente, pur criticando la vaghezza del documento sulla questione di Gerusalemme e dello Stato palestinese.
All’interno di Israele, invece, il piano ha scatenato polemiche furiose, segno che la vera sfida non è tra Israele e Hamas, ma dentro la politica israeliana.
Pace o illusione?
Il grande limite della proposta Trump-Netanyahu è la sua natura temporanea. Ogni punto chiave – cessate il fuoco, governance, aiuti umanitari – è condizionato da passaggi successivi, affidati a soggetti internazionali con interessi divergenti.
Gli analisti sottolineano che:
senza un accordo politico più ampio, la tregua rischia di essere fragile e reversibile;
la questione dello Stato palestinese rimane irrisolta, e l’assenza di riferimenti alla Cisgiordania rende il piano parziale;
la dipendenza dal sostegno esterno (forze internazionali, board multilaterale, aiuti finanziari) può generare nuovi attriti.
In definitiva, la proposta appare più come una gestione dell’emergenza che come una vera soluzione di lungo termine.
Conclusione
Il piano in 20 punti per Gaza rappresenta un tentativo ambizioso di fermare il conflitto più sanguinoso della storia recente israelo-palestinese. Offre a Israele la possibilità di recuperare gli ostaggi, a Hamas una via d’uscita dignitosa, e ai palestinesi di Gaza un sollievo umanitario immediato.
Eppure, dietro la retorica ottimista, restano nodi insoluti: il futuro politico della Striscia, il ruolo dell’ANP, l’ombra della Cisgiordania e la capacità della leadership israeliana di resistere alle pressioni interne. Come ha scritto un analista dell’ISPI:
Finché c’è guerra, c’è speranza – per Hamas di sopravvivere, per Netanyahu di governare, per Trump di imporsi come uomo della pace. È questo il paradosso che rischia di condannare anche l’ennesimo piano di pace all’ennesimo fallimento.