Il debito pubblico nasce nel XIV secolo a Genova e Venezia in concomitanza col sorgere del credito moderno come compromesso tra i ricchi e il sovrano bisognoso di mezzi monetari: ho bisogno dei vostri soldi, ma se me li prestate a condizioni, per me, più vantaggiose del credito bancario, evito di espropriarvene con una maggiore tassazione.

Perché il sovrano deve chiedere denaro ai privati e non emettere la sua moneta (con cui si dovranno pagare le tasse)?

Perché si trova in una situazione da non potere ulteriormente o adeguatamente esercitare il signoraggio: infatti, in condizioni diverse, i privati avrebbero portato oro e argento per ottenere denari a corso legale di valore facciale superiore a quello del metallo e pagando il servizio con una porzione del metallo stesso che il signore utilizzava per coniare altre monete (sempre di valore facciale superiore a quello della pregiata materia prima).

Facciamo un esempio: lo Stato riceve 10.000 fiorini d’oro in cambio di un titolo quinquennale che garantisce il 2% di interesse annuo (ovverossia 200 fiorini, in cinque anni 1.000 fiorini) e, a scadenza, la restituzione di 10.000 fiorini; ma non è detto che al valore nominale di questi ultimi corrisponda la quantità di oro (o di argento) iniziale.

Infatti, l’autorità potrebbe, ad esempio dopo due anni, ritirare i fiorini (del peso di 6 grammi ciascuno) e sostituirli coi “nuovi” fiorini aventi, ciascuno, un contenuto di 5 grammi di oro ma lo stesso valore facciale; a parità di tutto il resto, così, lo Stato avrà realizzato un guadagno del 12% corrispondente a un pari aumento della massa monetaria in circolazione.

Quindi, se l’inflazione risulta nulla in tutto il periodo, i possessori dei titoli non avranno perso potere di acquisto (al netto dell’interesse); se l’inflazione sarà stata superiore a 0, avranno subito una svalutazione pari alla differenza tra il tasso di inflazione e il 2%.

In ogni caso, i sottoscrittori dei titoli del debito avranno evitato un aumento della tassazione (espropriazione) dei loro risparmi: il debito pubblico, quindi, si rivela uno strumento di discriminazione tra le classi che limita la progressività dell’imposta (al contrario, la progressività dell’imposta – vedere, ad esempio, la nostra Costituzione del 1948 – è uno strumento a favore dei ceti meno abbienti).

Ai ricchi, dunque, il debito pubblico appare uno strumento utile di allocazione della loro ricchezza: il risparmio è garantito, mentre la sua redditività dipende dalla differenza tra tasso di inflazione e tasso di interesse nominale.

Quindi, il debito pubblico può essere anche definito uno strumento di drenaggio del risparmio in eccesso (che determina un ristagno della domanda): se la moneta è scarsa (perché legata all’oro), il risparmio rallenta la crescita dell’economia: non tanto perché servano i mezzi monetari all’economia (infatti, può sopperire a questa esigenza il credito bancario), ma in quanto sarà la maggiore spesa pubblica – dovuta alla partita di giro tra privati possessori di ricchezza e Stato – a determinare una crescita della domanda stessa.

Se il tasso di inflazione o quello di svalutazione della moneta (le due cose sono differenti, ma adesso ciò non è molto rilevante) erodono il risparmio, il debito pubblico risulta meno oneroso per lo Stato; l’inflazione aiuta i debitori e penalizza i creditori. Anch’essa, dunque, interviene nella lotta tra le classi perché, per definizione, i debitori rappresentano la parte più debole della società e viceversa.

Ma, in fondo, abbiamo già accennato a un altro elemento di riduzione del debito, ovverossia la cosiddetta monetizzazione di esso: vuol dire che, in un modo o nell’altro (nell’esempio precedente riducendo il tenore di metallo pregiato delle nuove emissioni con la messa fuori corso delle vecchie, aventi maggior valore intrinseco) il debitore emette la moneta con la quale rimborsa il titolo, a scadenza.

Queste due osservazioni (inflazione e monetizzazione del debito) sono molto importanti per capire cosa è successo al debito pubblico italiano negli ultimi, decisivi, quarant’anni circa.

Fino al febbraio del 1981, le cose andavano così: quando lo Stato doveva spendere più di quanto incassava con le tasse – invece di far crescere queste ultime – emetteva titoli per finanziare il suo fabbisogno di moneta. Il tasso di interesse era deciso dal ministero del Tesoro; se troppo basso per gli acquirenti (addirittura più basso del tasso di inflazione), la Banca d’Italia stampava mezzi di pagamento (ovverossia le banconote in lire) e acquistava la parte dell’offerta non assorbita da risparmiatori, operatori, “mercati”.

Fino al febbraio del 1981, quindi, il debito pubblico italiano era offerto a e assorbito da operatori italiani (anche perché poco appetibile come remunerazione). In effetti, l’obiettivo della classe dei compratori era quello di difendere il proprio risparmio, situazione problematica con tassi di interesse negativi in termini reali (perché l’inflazione era più elevata dei tassi nominali); individualmente, si poteva investire negli immobili, nei beni rifugio o qualsiasi altra cosa. Ma, da un punto di vista macro e di classe, ciò consentiva di evitare l’esproprio dovuto a una maggiore pressione fiscale.

Nel febbraio del 1981, invece, le autorità decisero – senza minimante consultarsi con gli organi della democrazia parlamentare – che la Banca Centrale non dovesse più, necessariamente, assorbire i titoli che i risparmiatori (in realtà le grandi banche) non volessero sottoscrivere. In altre parole, il Tesoro perse il potere di decidere il tasso di interesse, lasciandolo alle valutazioni dei mercati.

Ciò spostò le prospettive dei sottoscrittori dall’ambito (di fatto), esclusivamente nazionale, della difesa dei propri risparmi in alternativa ad altre destinazioni, a quello degli obiettivi di remunerazione: insomma, il debito pubblico italiano si internazionalizzò e i possessori non furono più esclusivamente interni, ma esteri.

Il tasso di interesse, in balia dei mercati, salì talmente in alto da far sì che i titoli italiani diventassero il benchmark internazionale per gli speculatori e andassero a ruba presso Fondi Pensione, Fondi di investimento e investitori istituzionali (i “nuovi” capitalisti che soppiantarono le vecchie famiglie “patriarcali”).

Piccolo dettaglio: il debito pubblico italiano, pari al 50% del PIL nel 1980, crebbe fino a superare il 100% di esso prima della fine del decennio, proprio per via del finanziamento degli interessi. La spesa pubblica per investimenti si contrasse (perché gli investimenti stessi costavano troppo); quella sociale, assistenziale e istituzionale non crebbe in termini reali (depurata dall’inflazione) e, quindi, rimase stabile in termini di PIL (vedere gli studi di Giuseppe Alvaro); quella per interessi, cumulandosi, determinò un aumento pari al 50% del PIL reale in meno di sette anni!

La privatizzazione della Banca d’Italia (conseguenza, voluta, della fuoriuscita dall’IRI delle BIN, le grandi Banche di Interesse Nazionale) non migliorò la situazione; che ebbe il suo colpo finale con l’abbandono della moneta nazionale e l’adozione di una moneta unica straniera (l’euro).

Quei tassi di interesse così elevati contribuirono al raffreddamento dell’economia italiana – fino al 1980 effervescente e positiva – e, con la maggiore disoccupazione, anche i salari ne risentirono; il Paese cominciò a impoverirsi, le ricchezze finanziarie a concentrarsi (come in tutti gli altri PAI, Paesi di Antica Industrializzazione) e il conseguente depotenziamento della domanda interna e dei consumi privati, a fronte delle crescenti difficoltà per le pubbliche amministrazioni di reperire mezzi monetari a basso costo per lo sviluppo, determinarono una situazione di continuo rallentamento del PIL.

Nello stesso periodo – e in pochissimi anni – l’attacco ai sindacati e alla classe operaia in USA e Inghilterra, determinò il brusco calo, del 40%, del potere di acquisto da redditi di lavoro dipendente: in Italia, invece, lo strumento principe fu l’enorme innalzamento dei tassi di interesse che determinò una riduzione degli investimenti reali, dell’occupazione e dei salari stessi; un continuo vantaggio per i possessori di ricchezza finanziaria che tese sempre più a concentrarsi.

In alcuni casi, però, i possessori di titoli del debito (ad altissimo tasso di rendimento) furono le famiglie del ceto medio (più raramente operaie) col duplice risultato di: compensare la riduzione di salari e occupazione con rendita finanziaria ovvero una forma di cannibalismo – all’interno della propria classe sociale – inconsapevole. Ciò implicava anche un’altra forma di cannibalismo sociale, verso i propri figli: chi aveva risparmi – dopo il 1981 – riceveva un reddito (rendita finanziaria) aggiuntiva a scapito delle prospettive di inserimento lavorativo della generazione più giovane (il cui tasso di disoccupazione, infatti, crebbe al 56% alla fine del decennio).

In seguito agli anni ’80 e alla crisi del Sistema Monetario Europeo (settembre 1992), con bassa inflazione e bassa crescita, il debito accumulato crebbe ancor più in percentuale del PIL e cominciò a sembrare una minaccia insormontabile.

In realtà, il debito di cui parlare non può essere solo quello pubblico, ma il cumulato con quello privato (famiglie e imprese; quello bancario lo reputo una partita di giro, ma potrebbe venir aggiunto anch’esso). Orbene, è prassi consolidata che un operatore (un operatore qualsiasi, non parliamo dello Stato che, però, deprivato di sovranità monetaria perde molto del suo potenziale) possa permettersi uno stock di debito pari a cinque volte (il 500%) del suo flusso di reddito.

Quindi, l’allarmismo sul debito pubblico – tutto riposto nell’errore metodologico di paragonare uno stock a un flusso – appare oggettivamente infondato anche quando esso sia assunto in valuta straniera.

Quest’ultima, come accade con l’euro, può essere solo acquisita in due modi: con ulteriore indebitamento; con avanzi commerciali che, però, non è detto vadano a riversarsi nella gestione del debito stesso.

Oggi il debito sarebbe ridimensionato da:

  • Aumento dell’inflazione.

  • Un accorciamento dei tempi delle scadenze (perché i tassi a lungo termine salgono molto e quelli a breve termine arrivano anche ad annullarsi per le esigenze di gestione delle liquidità da parte delle grandi banche).

  • La crescita del PIL che, però, è contrastata dalle politiche deflattive (su occupazione e salari) dell’UE e dalle stesse difficoltà a fornire i mezzi monetari necessari al governo dei comparti con possibilità di crescita che sono quelli dell’ambiente, della cura delle persone, del recupero del patrimonio esistente.

  • La emissione di moneta nazionale ovvero il recupero della funzione di partita di giro – a livello macroeconomico – tra debito e risparmiatori, corrispondente alla possibilità di far crescere i disavanzi pubblici che determinano un arricchimento dei cittadini.

Una moneta nazionale parallela all’euro, peraltro non considerata, né impedita dai Trattati Europei che si occupano solo di banconote a corso legale in tutta l’Unione – non di statonote a circolazione interna e non convertibili in valuta internazionale – sarebbe non a debito; vale a dire con lo stesso segno algebrico delle tasse: in questo modo se, ad esempio, avessi entrate tributarie per 800 e volessi spendere 1.000, basterebbe emettere 200 di moneta non a debito per ottenere il pareggio di bilancio.

Per concludere, oggi, si parla molto di spread (che si forma sul mercato “secondario” quando i possessori vogliono liberarsi dei titoli a scadenza decennale prima del tempo); ma il vero problema è il rating.

Vediamo un po’:

  • Se lo spread aumenta (perché cresce la massa dei titoli decennali che si riversano sul mercato anticipatamente) non è detto che il tasso di interesse sulle nuove emissioni debba necessariamente crescere, visto che la domanda di nuovi titoli supera di molto l’offerta (chissà come, ma le regole del mercato non vengono mai prese in considerazione quando esse non favoriscono i più abbienti).

  • Lo spread è stato tenuto basso – in tempi recenti – dalla BCE che ha acquistato, col cosiddetto quantitative easing, i titoli sul mercato secondario (la BCE non può agire sul primario tranne in un caso che, appunto, riguarda il rating e che si vedrà tra poco).

  • Due sono le componenti dello spread, una razionale (quanti possessori, per le ragioni della vita, necessitano della liquidità) e una irrazionale dovuta ai comportamenti, alle paure, alle sciocchezze degli speculatori di professione…quelle razionali sono prevedibili, le altre sfuggono a valutazioni precise.

  • Non si capisce (o, se preferite, si capisce benissimo) perché le autorità politiche e amministrative debbano sottostare al ricatto – mai esclusivamente razionale – degli speculatori di professione, spesso collusi con le mafie e la malavita organizzata.

Il rating, invece, è questione molto più delicata perché, sotto un certo livello, esso può determinare l’impossibilità per le banche dealer – principali se non esclusivi operatori in titoli sul primario – di mantenerli nell’attivo dei loro bilanci; in tal caso, la BCE potrebbe intervenire (si chiamano Outright Monetary Transactions), ma solo se il Paese beneficiario (si fa per dire) finisce sotto il pieno controllo della “troika” (BCE, Commissione UE, FMI).

Per evitare tale scenario occorrerebbe dotarsi – prima di subito – di un’agenzia di rating autonoma e seria (vale a dire con criteri di valutazione trasparenti e comprensibili) a cui fosse demandata, per Legge, la valutazione ufficiale dell’emettitore. Tutto ciò, beninteso, se l’obiettivo delle autorità stesse è il bene pubblico e non il commissariamento del Belpaese.