L’argomento che mi accingo a trattare riguarda in modo specifico la drammatica condizione del popolo palestinese, analizzata nel contesto di un conflitto che coinvolge dinamiche storiche, politiche e umane di estrema complessità. Per affrontarlo con il rispetto che merita, mi impegnerò a utilizzare fonti attendibili e a mantenere un linguaggio che favorisca la comprensione, il dialogo e la consapevolezza, evitando generalizzazioni o affermazioni che possano alimentare odio o polarizzazione.

Viviamo un’epoca di estrema instabilità, non solo in Israele e Palestina, dove la violenza ha raggiunto livelli drammatici, ma anche nel resto del Medio Oriente e del mondo.

In Cisgiordania, i coloni — spesso protetti dall’esercito — intensificano gli attacchi contro i palestinesi. Il governo israeliano ha superato i limiti precedenti nella repressione del dissenso, colpendo non solo i cittadini palestinesi, ma anche gli stessi ebrei israeliani che si oppongono alle sue politiche. Questa escalation riflette un crescente clima di razzismo e militarismo, un’occupazione sempre più radicata e una forma di apartheid ormai normalizzata, insieme all’assedio permanente della Striscia di Gaza. Le stragi in corso sollevano interrogativi sempre più pressanti sulla possibilità che si configuri un crimine di genocidio.

È doloroso constatare come, in nome della religione, si possano giustificare atti di estrema brutalità. Invocare Dio mentre si perpetuano massacri rappresenta una contraddizione profonda, che richiama alla mente altre tragiche espressioni di fanatismo religioso. In ogni caso, l’uso della fede per giustificare la disumanizzazione dell’altro costituisce una grave offesa ai valori spirituali che si pretende di difendere.

Il governo Netanyahu e i suoi alleati si rendono conto del danno irreparabile che stanno infliggendo non solo alla popolazione palestinese, ma anche all’immagine e alla memoria storica del popolo ebraico? La Shoà, simbolo universale del dolore e della resistenza alla barbarie, rischia di essere evocata oggi anche in relazione alle sofferenze inflitte ad altri.

Ora più che mai ci si interroga su come reagirà il mondo arabo e musulmano, già profondamente colpito. E come cresceranno giovani e bambini palestinesi che hanno visto morire i propri cari sotto le bombe? Porteranno con sé ferite profonde, rabbia e sfiducia. La storia ci insegna che la violenza genera altra violenza, e che la pace non si costruisce con la distruzione dell’altro.

Quale sicurezza potranno avere in futuro gli ebrei nel mondo, compresi coloro che oggi condannano apertamente queste azioni? È davvero questa la strada per costruire una pace duratura nella terra che un tempo si chiamava Palestina?

L’attacco all’Iran potrebbe non essere solo un’eco inquietante della storia, ma uno scenario concreto di escalation militare regionale, con il rischio reale che un conflitto locale si trasformi in una guerra generalizzata.

Alla luce del nuovo conflitto con l’Iran, è lecito chiedersi: qualcuno può davvero credere che tutto questo porterà pace e stabilità in Israele? O ci troviamo di fronte a una spirale fuori controllo che minaccia di trascinare l’intero pianeta verso il baratro?

Di seguito si tratterà esclusivamente dell’attuale situazione palestinese.

L’unanime condanna per la strage del 7 ottobre

Dopo il 7 ottobre, il mondo intero non ha avuto dubbi nel condannare l’atto terroristico di Hamas e nel sostenere Israele, giustificando la sua immediata reazione. Tuttavia, fin da subito sono emersi dubbi sul reale rapporto tra Hamas e Netanyahu, nonché sulla funzione che i servizi di sicurezza israeliani potrebbero aver avuto, soprattutto riguardo alla presunta mancata insistenza sul governo perché prendesse sul serio gli allarmi relativi a un potenziale attacco terroristico di Hamas.

Su questo attacco si sono susseguite speculazioni e dibattiti sul comportamento del governo guidato da Benjamin Netanyahu. Alcuni analisti hanno sollevato dubbi sul fatto che il Mossad, noto per la sua capacità di anticipare minacce, non abbia rilevato in tempo l'attacco di Hamas, mentre altri hanno evidenziato la scarsa attenzione data a eventuali avvertimenti forniti dai servizi segreti israeliani.1

Alcuni critici sostengono che Netanyahu abbia scelto di concentrarsi su una guerra permanente per evitare di rispondere alle domande riguardanti la sua personale sicurezza e la gestione della crisi, scrivendo che egli preferisce la guerra su più fronti anche per boicottare il lavoro della commissione d’inchiesta sul suo operato.2

Tuttavia, il governo israeliano ha sempre attribuito la responsabilità dell'attacco esclusivamente a Hamas.3

La situazione attuale

I fatti sono ormai noti a tutti: si sta attuando una distruzione di massa che coinvolge non solo vite umane, ma anche abitazioni, infrastrutture e servizi civili. Mi sono chiesto più volte perché bombardamenti avvengano in corrispondenza di scuole, ospedali o isolati abitati. Perché una distruzione così massiccia di persone e cose, senza che si tratti di una vera guerra? Perché massacrare tanta gente non armata che certamente non può mettere paura alle forze armate israeliane?

Un amico giornalista di fama internazionale mi ha inviato alcuni articoli di agenzie internazionali online, di indiscussa serietà, che mi hanno aperto gli occhi su un aspetto raccapricciante: la distruzione di massa viene condotta anche attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale in modi allucinanti.

Attualmente, quel che sta succedendo è sotto gli occhi di tutti. La situazione in Israele e nei Territori Palestinesi occupati è complessa e tragica. Si parla sempre più spesso di “apartheid” e “genocidio”, termini che indicano crimini distinti, ma entrambi estremamente gravi, usati insieme da osservatori internazionali, agenzie ONU e giuristi per descrivere la condotta israeliana, soprattutto negli ultimi anni.

Secondo molti esperti legali e rapporti indipendenti, il livello di violenza indiscriminata, le dichiarazioni ufficiali israeliane, l’uso della fame come arma di guerra e le tecnologie predittive impiegate a Gaza e in Cisgiordania costituiscono indizi molto forti di un crimine di genocidio in corso.

L’inquietante uso dell’intelligenza artificiale per il controllo sui palestinesi

In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale promette di migliorare la vita dell’umanità, assistiamo invece al suo impiego come strumento di sorveglianza, repressione e dominio. È quanto emerge da una serie di inchieste condotte da +972 Magazine, Local Call e The Guardian, che hanno rivelato l’esistenza di un sofisticato sistema di controllo esercitato da Israele sulla popolazione palestinese nei territori occupati.

Secondo fonti interne all’intelligence israeliana, questa sorveglianza tecnologica avanzata si traduce in una strategia sistematica di oppressione e, secondo alcuni analisti, in un possibile genocidio pianificato. Un approfondimento è disponibile nell’articolo Lavender: la macchina AI che dirige i bombardamenti israeliani a Gaza di Yuval Abraham, pubblicato il 3 aprile 2024 su +972 Magazine. 4

Un’intelligenza artificiale addestrata sulla vita dei palestinesi

Sotto la guida dell’Unità 82005, élite dell’intelligence militare israeliana, è in fase di sviluppo un modello linguistico di grandi dimensioni (LLM6), simile a ChatGPT, ma addestrato su milioni di conversazioni in arabo raccolte tramite sorveglianza di massa. Questo strumento, alimentato da dati altamente personali — spesso ottenuti da persone non sospettate di alcun reato — è progettato per rispondere a domande su individui specifici, prevedere comportamenti e generare liste di sospetti. Tutto ciò avviene all’insaputa dei soggetti monitorati.

Le fonti rivelano che l’obiettivo non è solo la prevenzione di attacchi armati, ma anche il monitoraggio degli attivisti, la sorveglianza delle costruzioni palestinesi e il controllo capillare della vita quotidiana. Prima dell’attuale drammatica situazione era estremamente difficile verificare come e per quali scopi questi dati venivano effettivamente utilizzati.

Un laboratorio di sorveglianza predittiva

I palestinesi sono diventati, di fatto, soggetti di un laboratorio tecnologico a cielo aperto, dove l’intelligenza artificiale viene trasformata in arma. Conversazioni quotidiane, anche le più banali, vengono impiegate per addestrare algoritmi in grado di determinare chi sarà arrestato, interrogato o addirittura bombardato.

Il programma Lavender, ad esempio, ha generato una kill list basata su caratteristiche associate all’appartenenza a gruppi militanti. Molti dei soggetti individuati sono stati uccisi nelle loro abitazioni, spesso in presenza di familiari, sulla base di algoritmi con un tasso di errore noto del 10%. In questi casi, l’intervento umano si è ridotto a un mero “timbro di approvazione” prima dell’esecuzione dell’attacco, che può colpire una singola casa, un intero isolato, scuole o ospedali.

Il potere algoritmico annulla la coscienza umana

L’uso di modelli linguistici per identificare “provocatori” o prevedere chi potrebbe lanciare pietre durante un’operazione militare rappresenta una deriva pericolosa: la giustizia viene sostituita dalla probabilità, e la responsabilità individuale è annullata da un algoritmo.

Testimonianze di ex soldati dell’Unità 8200 parlano di ricatti basati su informazioni personali raccolte tramite sorveglianza elettronica; di arresti motivati da quote mensili, come l’obiettivo di “100 arresti al mese”; di incursioni notturne nelle case palestinesi, spesso senza un obiettivo specifico, con lo scopo di intimidire la popolazione. Queste testimonianze sono state raccolte in vari rapporti e interviste, tra cui quella a Nadav Wael, vicedirettore di Breaking the Silence (BTS7), che ha raccontato come l’organizzazione sia nata per “rompere il silenzio” sull’occupazione israeliana.8

In questo contesto, la tecnologia smette di essere uno strumento neutrale e diventa un ingranaggio fondamentale in un sistema di apartheid e occupazione sistematica.

Una riflessione di Roberto Savio9

Su questo tema, desidero riportare le parole del mio caro amico Roberto Savio, giornalista che ha dedicato la sua vita alla promozione della convivenza pacifica tra i popoli:

Ecco perché si può parlare di genocidio… le morti sono programmate per produrre la rottura delle funzioni sociali centrali… La guerra, nell’era delle intelligenze artificiali, sarà sempre più assimilabile non alla sconfitta militare, ma alla distruzione totale dell’avversario. Forse siamo addirittura oltre gli orrori del ‘900, oltre i campi di sterminio, poiché oscurano i meccanismi alla base dell’ideologia dello sterminio dell’altro. Ora si comprendono meglio le uccisioni di giornalisti, medici, operatori sociali che non sono danni collaterali, ma la rottura della struttura sociale di un popolo che senza quel sistema nervoso è destinato alla scomparsa.

Un contesto di violenza sistemica e impunità

Dopo il 7 ottobre 2023, la situazione si è ulteriormente aggravata. Il governo israeliano — considerato da molti il più estremista nella storia del Paese — ha intensificato la repressione non solo contro i palestinesi, ma anche contro cittadini israeliani ebrei contrari alle sue politiche. In Cisgiordania, i coloni, spesso protetti dall’esercito, hanno moltiplicato gli attacchi contro la popolazione palestinese, approfittando del clima di guerra per agire impunemente.

Tecnologia e ideologia si fondono così in un disegno preciso: l’intelligenza artificiale diventa parte integrante di una strategia di controllo totale. Sorveglianza digitale, analisi predittiva e automazione della repressione costituiscono gli strumenti di un autoritarismo algoritmico che calpesta diritti umani e dignità.

Una riflessione conclusiva sull’uso improprio dell’intelligenza artificiale

Le preoccupazioni sull’uso di tecnologie avanzate, come l’intelligenza artificiale, per facilitare operazioni militari con conseguenze devastanti per la popolazione civile palestinese sono più che fondate.

Da quanto descritto emerge un quadro in cui tecnologia, ideologia e violenza si fondono in un sistema che nega diritti, dignità e libertà a milioni di persone. L’intelligenza artificiale, in questo contesto, non è neutrale: è uno strumento di potere, che può essere usato tanto per proteggere quanto per opprimere.

Il vero pericolo non è solo l’errore tecnico, ma l’intenzionalità politica con cui questi strumenti vengono progettati e applicati. Quando la sorveglianza diventa totale, quando la repressione si fa algoritmica, quando la giustizia è ridotta a una percentuale di rischio, allora siamo di fronte a una nuova forma di autoritarismo digitale.

Su Apartheid e genocidio

Apartheid: un’accusa ormai consolidata

Il termine apartheid, originariamente associato al regime sudafricano di segregazione razziale, nel diritto internazionale indica una forma sistematica di oppressione e dominio esercitata da un gruppo razziale su un altro. Secondo la Convenzione internazionale per l’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid (1973) e lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (art. 7.2.h), si tratta di un crimine contro l’umanità.

Organizzazioni come Human Rights Watch, Amnesty International e B’Tselem hanno dichiarato che il sistema legale e politico imposto da Israele, sia all’interno dei suoi confini, sia nei territori occupati (Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza), costituisce una politica di apartheid. Questa si manifesta attraverso discriminazioni sistemiche, repressione e frammentazione del popolo palestinese.

In particolare, B’Tselem, la più autorevole organizzazione israeliana per i diritti umani, ha pubblicato il 12 gennaio 2021 un rapporto in cui afferma:

Il sistema della supremazia ebraica dal Giordano al Mediterraneo: questo è apartheid.10

Genocidio: l’accusa più grave, ora all’esame della giustizia internazionale

Il genocidio è definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 come:

“Atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.”

Questa è l’accusa più grave che possa essere rivolta a uno Stato o a un governo, e attualmente è oggetto di esame da parte della Corte Internazionale di Giustizia e di altri organismi internazionali. Diversi rapporti, tra cui quelli delle Nazioni Unite e di Amnesty International, hanno sollevato la possibilità che le azioni israeliane a Gaza possano configurarsi come atti di genocidio, in particolare per:

  • la distruzione sistematica di infrastrutture civili;

  • l’impedimento agli aiuti umanitari;

  • l’uccisione deliberata di civili;

  • l’uso della fame come arma di guerra.

Queste accuse sono ancora oggetto di indagine e dibattito, ma il loro peso giuridico e morale è tale da richiedere un’attenzione urgente e imparziale da parte della comunità internazionale.

La Corte Penale Internazionale e la situazione palestinese

La comunità internazionale non è rimasta del tutto inerte di fronte alla crisi in Palestina. Due importanti istituzioni giuridiche internazionali hanno avviato azioni significative:

  • La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha accolto una causa per genocidio presentata dal Sudafrica contro Israele.

  • La Corte Penale Internazionale (CPI) ha intrapreso un’indagine approfondita sulla situazione nei territori occupati e sul ruolo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Mandati d’arresto e accuse formali

Il 21 novembre 2024, la CPI ha emesso mandati d’arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi durante il conflitto a Gaza. Le accuse includono:

  • l’uso della fame come arma di guerra;

  • attacchi deliberati contro la popolazione civile.

Il 26 maggio 2025, la Corte ha emesso una sentenza storica, dichiarando Netanyahu colpevole di crimini di guerra e contro l’umanità. Le imputazioni riguardano, tra l’altro, l’ostacolo sistematico alla distribuzione degli aiuti umanitari e gli attacchi contro civili.11

Possibile estensione all’accusa di genocidio

Secondo fonti interne alla CPI, le indagini potrebbero estendersi in futuro anche al crimine di genocidio, benché tale accusa non sia stata ancora formalmente annunciata. La Corte ha dovuto affrontare pressioni politiche significative, in particolare dagli Stati Uniti, che hanno imposto sanzioni a funzionari della CPI, ostacolandone il lavoro investigativo.

Nonostante l’assenza, per ora, di un’accusa formale di genocidio, la gravità delle imputazioni già riconosciute rappresenta un precedente storico nella responsabilizzazione di leader politici per crimini commessi nei territori occupati.

Un momento cruciale nella lotta contro l’impunità

La CPI sta valutando l’estensione delle indagini anche ad altri alti funzionari israeliani. Il dibattito giuridico e politico sull’eventuale configurazione del genocidio è oggi al centro dell’attenzione di giuristi, attivisti e osservatori internazionali.

L’emissione dei mandati d’arresto, pur non costituendo ancora una condanna definitiva, indica che esistono prove sufficienti per avviare un processo. Si tratta di un passaggio fondamentale nella lotta contro l’impunità per crimini gravi e un segnale forte verso la giustizia internazionale.

L’abilità indiscussa di Netanyahu

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è coinvolto in diversi procedimenti giudiziari per corruzione, frode e abuso di fiducia. Per cercare di sottrarsi a queste accuse, ha promosso una controversa riforma del sistema giudiziario, volta a limitare l’indipendenza dei giudici, ottenere l’immunità parlamentare e introdurre protezioni legali speciali.12

Molti analisti interpretano queste mosse non come riforme genuine, ma come tentativi di preservare il potere personale e di evitare il processo. Nel frattempo, Netanyahu è riuscito a spostare l’attenzione pubblica internazionale dalle accuse a suo carico, rinviando elezioni e rafforzando la narrativa secondo cui il suo governo avrebbe un diritto assoluto — fondato su una presunta sacralità storica e religiosa — di esercitare il controllo totale sui territori palestinesi.

Sulle notizie distorte o non veritiere

A giustificare e sostenere le recenti operazioni militari israeliane contribuisce anche la diffusione di notizie distorte o fuorvianti, tra cui l’uso sistematico dell’accusa di antisemitismo per delegittimare le critiche a Israele. Diversa è la situazione sulle diffuse voci dell’armamento nucleare iraniano.

Antisemitismo e libertà di critica

Sempre più spesso il termine 'antisemitismo' viene strumentalizzato per zittire le critiche legittime a Israele. Organizzazioni come l’Anti-Defamation League (ADL13) sono accusate di alimentare questa ambiguità, equiparando la condanna dell’occupazione della Cisgiordania o dei bombardamenti su Gaza all’odio antiebraico.

Questo fenomeno è particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove alcune organizzazioni esercitano una forte influenza sulla politica interna ed estera. In alcuni Stati, come l’Arizona, sono state approvate leggi che limitano la libertà di espressione nelle università e negli spazi pubblici, rendendo difficile criticare apertamente le politiche israeliane.

La questione nucleare iraniana

La minaccia nucleare iraniana è da anni al centro della retorica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che accusa Teheran di voler sviluppare armi atomiche. Per lungo tempo queste accuse sono state considerate prive di prove concrete, ma nel 2025 l’AIEA14 ha denunciato gravi violazioni da parte dell’Iran, tra cui l’arricchimento di uranio a livelli prossimi a quelli necessari per un’arma nucleare. In risposta, Israele ha lanciato un attacco militare contro siti nucleari iraniani, sostenendo di voler prevenire una minaccia esistenziale.

Tuttavia, Israele rimane l’unico Paese della regione a possedere un arsenale nucleare, sebbene non lo abbia mai ufficialmente confermato. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), Israele dispone di circa 90 testate nucleari, mentre altre stime parlano di un potenziale fino a 270.15

Questo doppio standard solleva interrogativi etici e politici: se da un lato Israele considera il proprio arsenale una necessità strategica per la deterrenza, dall’altro la sua esistenza mina gli sforzi di non proliferazione e alimenta tensioni regionali. La situazione nucleare israeliana è vista da alcuni come una garanzia di sicurezza in un contesto ostile, ma da altri come un fattore di instabilità che legittima la corsa agli armamenti in Medio Oriente.

L’indifferenza del mondo

Oggi si fa sempre più strada il dubbio che alcune ipotesi, un tempo considerate fantasiose o affrettate, potessero invece avere un fondamento reale.

Poiché l’Occidente e il mondo arabo sembrano ora uscire da una lunga fase di indifferenza o cautela, sorge spontanea una domanda: perché alle ipotesi sul coinvolgimento di Hamas negli attacchi del 7 ottobre non sono seguite, fin da subito, risposte chiare e condivise?

Le reazioni all’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas sono state complesse e differenziate. Molti governi occidentali hanno inizialmente espresso solidarietà a Israele, condannando l’attacco come un atto terroristico.16

Nel mondo arabo, la risposta è stata più articolata: alcuni governi hanno condannato la violenza, mentre altri hanno preferito richiamare le cause profonde del conflitto israelo-palestinese, evitando di attribuire immediatamente tutta la responsabilità a Hamas.17

Uno dei motivi per cui le reazioni non sono state immediate o unanimi risiede nella complessità geopolitica della regione. Alcuni Paesi arabi intrattengono relazioni diplomatiche con Israele e hanno cercato di mantenere un equilibrio tra il sostegno alla causa palestinese e la stabilità regionale.18

Dopo il recente attacco all’Iran Corrado Augias19, in una recente intervista del 4/06/202520, ha sollevato un interrogativo inquietante:

come ha fatto il Mossad a individuare e colpire con precisione i suoi obiettivi in Iran, mentre il 7 ottobre 2023 si è lasciato sorprendere dall’attacco di Hamas?

Una riflessione che alimenta i sospetti già ampiamente diffusi su quella giornata, lasciando aperte domande che meritano risposte.

Come fanno gli israeliani a vivere in pace di fronte a tali crimini?

Il giornalista israeliano Gideon Levy21, noto per le sue posizioni critiche nei confronti dell’occupazione, ha affrontato questo tema in un discorso che vi invito ad ascoltare22.

Nel suo intervento, Levy afferma:

Ci sono state nella storia occupazioni più brutali della nostra, ma mai un’occupazione in cui l’occupante si presentasse come la vittima. Da anni il popolo israeliano assiste alla deumanizzazione dei palestinesi.

Secondo Levy, molti israeliani riescono a convivere con l’occupazione grazie a un processo di deumanizzazione sistematica del popolo palestinese, che consente di giustificare la violenza come necessaria o inevitabile. A ciò si aggiunge, secondo il giornalista, una diffusa convinzione di appartenenza a un “popolo eletto”, che alimenta l’idea di una legittimità morale superiore.

Sono affermazioni gravi, ma anche profondamente tristi, che dovrebbero far riflettere chi ancora oggi ha dubbi sulla natura e sulle conseguenze delle recenti azioni contro i palestinesi.

Esiste davvero una complicità degli Stati Uniti?

È una domanda che molti si pongono nel mondo occidentale, e la risposta sembra tutt’altro che complessa. Nonostante le gravi violazioni dei diritti umani attribuite a Israele, i presidenti statunitensi — da Trump a Biden, e nuovamente Trump — hanno continuato a offrire un sostegno quasi incondizionato allo Stato ebraico. Emblematico è stato il recente veto degli Stati Uniti a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza.

Washington, così facendo, rischia di apparire non solo complice, ma corresponsabile delle sofferenze inflitte alla popolazione palestinese.

Alla luce:

  • Di una crescente manipolazione delle statistiche sull’antisemitismo per silenziare le critiche a Israele;

  • dell’influenza significativa delle lobby filo-israeliane sulla politica americana;

  • dell’impunità storica di Israele nell’occupazione dei territori palestinesi;

  • della tendenza a privilegiare interessi geopolitici rispetto alla giustizia e alla pace;

diventa urgente che gli Stati Uniti riconsiderino il proprio ruolo. Continuare a finanziare e proteggere Israele senza condizioni rischia di compromettere la loro credibilità morale agli occhi del mondo.

Gli Accordi di Abramo: una promessa mancata

Ho sempre sostenuto l’importanza del riconoscimento dello Stato d’Israele, così come la necessità della nascita di uno Stato palestinese. Per questo, accolsi con favore gli “Accordi di Abramo” promossi da Trump, che segnarono un’apertura storica tra Israele e alcuni Paesi arabi.

Inizialmente, questi accordi sembravano offrire una speranza: Israele sospese temporaneamente parte dei piani di annessione della Cisgiordania, evitando un’escalation immediata. Tuttavia, col tempo è emerso che il beneficio per i palestinesi è stato minimo, se non nullo. Anzi, secondo molti analisti, gli Accordi hanno contribuito a marginalizzare ulteriormente la questione palestinese nel dibattito regionale.

Oggi, alla luce delle azioni del governo Netanyahu — definite da alcune organizzazioni internazionali come atti di genocidio — la validità politica di quegli accordi appare profondamente compromessa. Non solo non sono stati firmati nuovi trattati, ma quelli esistenti sembrano aver perso ogni forza simbolica e diplomatica. Quando i patti non vengono rispettati, è legittimo chiedersi se abbiano ancora valore.

Considerazioni finali

Il rischio di nuove tensioni globali

Il governo Netanyahu sembra determinato a proseguire una politica che molti osservatori internazionali definiscono sempre più aggressiva e isolante. È difficile credere che non sia consapevole delle gravi conseguenze che queste azioni stanno provocando, non solo per Israele, ma anche per la percezione globale del popolo ebraico.

Se non si pone un freno a questa spirale di violenza, si rischia di scrivere una nuova pagina oscura della storia, che un giorno potrebbe essere ricordata accanto alle più grandi tragedie dell’umanità. In questo clima, cresce il timore che nuove forme di estremismo possano emergere, anche in contesti occidentali, alimentate da un profondo senso di ingiustizia e frustrazione. È fondamentale che le istituzioni internazionali agiscano con coerenza, evitando ambiguità tra dichiarazioni di condanna e sostegno materiale a una delle parti in conflitto.

Un risveglio delle coscienze

Dopo anni di silenzio e inazione, la comunità internazionale sembra finalmente reagire. Anche all’interno della diaspora ebraica si levano voci critiche — spesso dolorose, ma necessarie. La solidarietà verso il popolo palestinese non è più confinata a pochi attivisti: sta diventando una questione di coscienza globale.

Nel mondo arabo, un rinnovato senso di identità e responsabilità sembra emergere, superando interessi geopolitici e rivalità religiose. Forse, finalmente, si sta comprendendo che la causa palestinese è una questione di giustizia universale.

Un appello alla coscienza collettiva

Ciò che accade nei territori occupati non è solo una crisi politica: è una crisi morale. Quando la tecnologia viene usata per opprimere, quando la giustizia è delegata a un algoritmo, quando la vita umana è ridotta a una statistica, allora è nostro dovere alzare la voce.

Denunciare queste pratiche non è solo un atto di solidarietà: è un gesto di difesa della nostra comune umanità. È un monito contro una nuova forma di autoritarismo digitale che potrebbe estendersi ben oltre Gaza.

Chiodo schiaccia chiodo

L’attacco all’Iran, come recita il detto “chiodo schiaccia chiodo”, potrebbe rappresentare una nuova minaccia globale, utile anche a distogliere l’attenzione dal genocidio palestinese che continua inesorabile.

Mentre il mondo si concentra sulla possibilità di un conflitto su scala mondiale, l’eccidio prosegue, alimentato dall’indifferenza e dall’assuefazione alla tragedia. Se non apriamo gli occhi ora, forse sarà troppo tardi. Non sarà solo la libertà di un popolo a scomparire, ma il concetto stesso di umanità.

L’attacco diretto di Israele contro l’Iran potrebbe segnare una deriva potenzialmente devastante per l’intera umanità.

La pace è ancora possibile

Nonostante tutto, la pace tra Israele e Palestina è ancora possibile. La soluzione dei due Stati rimane l’unica via percorribile, ma richiede coraggio, volontà politica e una visione internazionale condivisa.

In questo contesto, la proposta di una Repubblica della Città Vecchia di Gerusalemme, posta sotto garanzia internazionale, potrebbe rappresentare un simbolo concreto di convivenza e rispetto reciproco.

Tale proposta è illustrata nell’articolo dal titolo: La Repubblica della Città Santa 23, che esplora in dettaglio i fondamenti giuridici, storici e spirituali dell'iniziativa.

Nihil est tertium: non esiste una terza via. O si sceglie la pace, o si accetta il disastro.

Note

1 Da L'Unità: Netanyahu sapeva dell’attacco di Hamas: non fermarli ha autorizzato la guerra in Medio Oriente.
2 Da Globalist: Per non rispondere su chi è responsabile della tragedia del 7 ottobre Netanyahu ha scelto la guerra permanente.
3 Da un articolo de Il Post del 2023: Le cose da sapere sull’attacco di Hamas e sulla risposta di Israele.
4 Per approfondire: ‘Lavender’: The AI machine directing Israel’s bombing spree in Gaza.
5 L'unità 8200 è tra i corpi di élite dell'esercito israeliano creata per condurre operazioni militari specializzate in guerra cibernetica a guardia dei confini invisibili dello stato ebraico.
6 L'unità 8200 è tra i corpi di élite dell'esercito israeliano creata per condurre operazioni militari specializzate in guerra cibernetica a guardia dei confini invisibili dello stato ebraico.
7 "Breaking the Silence" (BTS) è un'organizzazione non governativa israeliana fondata da ex soldati dell'esercito israeliano (IDF). L'organizzazione si dedica a raccogliere e diffondere testimonianze di militari che hanno prestato servizio nei territori occupati, come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, con l'obiettivo di sensibilizzare l'opinione pubblica israeliana e internazionale sulle realtà dell'occupazione.
8 Un approfondimento da Altreconomia: Gli ex soldati israeliani che vogliono rompere il silenzio sull’occupazione.
9 Ulteriori informazioni su Roberto Savio e i suoi lavori.
10B’Tselem. Un’apartheid “su tutto il territorio posto sotto l’autorità dello stato di Israele”.
11 Da Avvenire: L'avvocato. «La Corte dell'Aja allargherà le indagini su Netanyahu. E su altri».
12 Per approfondire da Euronews: Israele, la Corte suprema boccia la riforma della Giustizia del governo Netanyahu.
13 L'Anti-Defamation League (ADL) è un'organizzazione internazionale, che sostiene lo stato ebraico, con sede negli Stati Uniti e si occupa di combattere l'antisemitismo e la diffamazione, opponendosi in modo vigoroso a qualsiasi tentativo di equiparare il sionismo al razzismo.
14 L’Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) è l’agenzia specializzata dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per la promozione dell'energia nucleare a scopi pacifici.
15 Da un articolo del 2013 su Infopal: Israele ha 80 bombe atomiche, e può triplicarle.
16 Per approfondire leggere: Attacco di Hamas a Israele del 2023.
17 Da Il Riformista: Il 7 ottobre è servito solo ai terroristi palestinesi per riportare Gaza al centro: il massacro, il conflitto dormiente e il tema Palestina.
18 Per approfondire MedOr Italian Foundation: 7 Ottobre un anno dopo. Il forum di Med-Or.
19 Scrittore, giornalista e conduttore di diversi programmi televisivi italiani.
20 Intervista a Corrado Augias per Repubblica: RepIdee25, Augias: "Perché il 7 ottobre '23 i servizi segreti israeliani non hanno scoperto nulla?".
21 Giornalista israeliano che dal 1982 scrive per il quotidiano israeliano Haaretz e dal 2010 anche per il settimanale italiano Internazionale. Nella sua attività giornalistica è sempre stato molto critico sulla politica israeliana di occupazione dei territori dello Stato di Palestina ed ha più volte criticato in modo aspro le politiche di Benjamin Netanyahu e del Likud.
22 Intervista a Gideon Levy da Il Giornale d'Italia: Gaza, giornalista Gideon Levy: "Israeliani convivono con idea di una occupazione brutale perché deumanizzano i palestinesi".
23 Per approfondire leggere l'articolo del mese di giugno 2024 pubblicato su Meer: La Repubblica della Città Santa.