A fine ‘800, l’obiettivo di Leone XIII fu quello di impedire il monopolio dei Socialisti e degli Anarchici in materia di contrasto agli eccessi capitalistici: nacque così la versione moderna di quella che chiamiamo “dottrina sociale della Chiesa”; più esattamente ancora, si potrebbe affermare che il suo obiettivo fosse quello di contrastare gli eccessi capitalistici.
Oggi tale impostazione è ancora attuale: si pensi, ad esempio, alla tutela della (piccola) proprietà privata che il mondo finanziario vicino al World Economic Forum (WEF) vorrebbe superare in nome di un non meglio definito Comunismo, da applicare ai poveracci, sopravvissuti ai tentativi di estinzione – almeno parziale - del genere umano che i più moderati seguaci del WEF stesso hanno più volte auspicato.
Ma c’è una grossa differenza con la Rerum Novarum originaria: allora il capitalismo era vincente e si è dimostrato tale fino all’attuale crisi della globalizzazione che ha incontrato i due fenomeni dei BRICS e della fine del mondo a guida unipolare americana; tra i due momenti ha avuto un peso determinante l’idea di un’alternativa al capitalismo medesimo per una società di tipo collettivistico che è tramontata (ma da cui la dottrina sociale aveva sempre saputo prendere le giuste distanze). Oggi il capitalismo non è più vincente e il problema consiste proprio nella difficoltà a indicare un nuovo percorso economico (e, prima di tutto, culturale, sociale e politico).
Adesso ci si limiterà ad accennare a tale cruciale aspetto. Per farlo, si tenterà di riassumere le ultime fasi del capitalismo stesso, dagli accordi di Bretton Woods del 1944 al presente.
Così, abbiamo avuto un capitalismo espansivo (detto anche keynesiano, ad “economia mista”) fino al G7 di Tokyo del 1979 che aveva avuto come sua caratteristica saliente l’obiettivo di massimizzare le vendite per le imprese: obiettivo che, rendendo compatibili – in qualche modo – aumenti dei profitti, dell’occupazione e dei salari, aveva dato un grande potere ai manager e ai sindacati (sottraendolo ai proprietari-capitalisti); a seguito di ciò, anzi, in reazione a ciò, si è sviluppato, nel decennio successivo, un capitalismo dagli alti tassi di interesse che ha cominciato a sbaraccare le grande conquiste del lavoro, restituendo potere e capacità di scelta ai capitalisti, grazie al recupero dei rendimenti finanziari; questa fase si è interrotta all’inizio degli anni ’90 quando è stato riscoperto il classico e insostenibile capitalismo finanziario, dove l’obiettivo è la massima (o adeguata) valorizzazione del titolo in borsa; anche tale capitalismo è insostenibile perché, nella maggior parte dei casi, ottiene tale risultato riducendo occupazione, salari e investimenti nell’economia reale di più di quanto non si riducano produzione e quote di mercato.
Tale capitalismo scarica sulla società e sullo Stato la sostenibilità sociale e lo si era già sperimentato con la crisi del 1929 e il decennio successivo, quindi esso era facile bersaglio per la dottrina sociale della Chiesa e per i sostenitori di soluzioni variamente etiche; andato in crisi anch’esso, è subentrato – a partire dal 2001 - il capitalismo “ultrafinanziario” in cui l’obiettivo principale diventa l’emissione di titoli finanziari di varia natura, decine di volte superiori – come valore teorico – al PIL mondiale, governato non più da riferimenti economici e di mercato, ma da algoritmi matematici e spericolatezze informatiche dietro le quali c’è di tutto – proprio di tutto – però niente di produttivo e di connesso alla realtà non prettamente finanziaria. Quest’ultima forma di capitalismo si regge sulla capacità di non far giungere all’economia reale la liquidità necessaria al suo funzionamento (infatti, l’economia reale sopperisce con monete complementari, credito fai da te e piattaforme finanziarie alternative).
Ma il grande problema non è dato tanto dallo squilibrio tra una liquidità spaventosa a supporto della finanza tossica e la sua insufficienza a supporto di quella reale; fenomeno che sembrerebbe richiedere solo, in termini di dottrina sociale, di schierarsi a favore dell’economia reale stigmatizzando quella finanziaria fine a sé stessa. Sono tre, invece, le novità che mettono fine al capitalismo, come l’abbiamo inteso finora, con la priorità assegnata al profitto:
L’insufficiente redditività degli investimenti necessari all’ambiente, ai servizi di cura delle persone e del patrimonio esistente.
La necessaria e prevedibile (ma non prevista dalle accademie e dai centri di ricerca, a parte pochissime eccezioni) crescita delle produzioni immateriali, mentre tutta l’attenzione è monopolizzate da quelle materiali (robotizzazione, intelligenza artificiale, meccanizzazioni varie).
Gli importantissimi cambiamenti geopolitici dai BRICS – con le loro problematiche – alle conseguenze del nuovo mondo multipolare non più a guida statunitense (di cui ci si cercherà di occupare in altre sedi).
La soluzione dei primi due punti passa per il superamento dell’economia del debito con cui l’umanità è stata dominata negli ultimi millenni; e della stessa moneta a debito (anche arbitrariamente scarsa solo per la gran parte degli esseri umani) che è la base del potere finanziario e bancario. Tale soluzione non è difficile da conseguire, ma comporterebbe lo spiazzamento di detti poteri finanziari e bancari (per non dire economici, politici e culturali): un bel da fare per la nuova Rerum Novarum!
Intanto, si potrebbe partire da un nuovo obiettivo per le imprese che passerebbe dal profitto (che dovrebbe cedere il passo) al prodotto: ciò è reso possibile, oggigiorno, dal ridimensionamento (che non significa scomparsa) della globalizzazione con riacquisita priorità (non esclusività, certo) della dimensione locale.
Dov’è il cambiamento: se la priorità sta nel commercio internazionale, la concorrenza è sul prezzo e l’obiettivo resta il profitto, con la conseguenza – come è successo nei decenni passati – che si premia il produttore peggiore (quello non sottoposto a vincoli ecologici e sanitari, che può non rispettare la sicurezza e le condizioni di lavoro, che sfrutta i minori e i carcerati); se, invece, la priorità è nella produzione, una volta saturato il mercato interno, si può esportare l’eccedenza ad un prezzo internazionale arbitrario (ovvero sarà il produttore ad adeguarsi ad esso per rifornirsi di valuta estera).
Ed ecco l’alternativa per una nuova enciclica: limitarsi alla eticità di chiedere il rispetto delle regole ambientali, lavoristiche e sanitarie sui beni di importazione; oppure entrare nel merito di un nuovo modello economico che sostituisce l’obiettivo del profitto con quello di massimizzare la produzione (con un occhio particolare ai servizi di cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente). La differenza tra le due opzioni, sarebbe, per la prima, di lasciare senza soluzione il tema del passaggio ad un’economia diversa e adeguata al cambiamento; nel secondo caso, invece, ci si avvierebbe verso la soluzione della piena centralità dell’essere umano, tanto auspicata nelle sacre scritture e dalla teologia cattolica.