Nel cuore del Piemonte vitivinicolo la Valcerrina, compresa tra le province di Alessandria, Asti e Torino, è in continuità con il primo Urban Mab (Man and Biosphere) d’Italia, che, costituito dalla Riserva di Biosfera delle aree protette del Parco del Po e della Collina Torinese, ha ottenuto la prestigiosa riconoscenza Unesco nel 2016.
Padrone assoluto di questo lembo di Basso Monferrato è il paesaggio con le sue scoscese colline, da cui si gode una spettacolare vista sulle risaie e sui boschi ai bordi del Grande Fiume. Strade di cresta e “di costa”, fiancheggiate da un’ondulata distesa di vigne, disegnano una fitta rete di percorsi panoramici e rimandano alla geografia medievale. Oggi come un tempo collegano ridenti paeselli abbarbicati sul cucuzzolo di un poggio, isolate chiesette con l’alto campanile che svetta sui campi circostanti e minuscoli centri fortificati, probabili eredi di villaggi d’epoca romana sviluppatisi nei punti più elevati per motivi di sicurezza.
Porta della Valcerrina per chi proviene da Casale Monferrato è Serralunga di Crea. Arrivandovi il verde colle del Parco Naturale del Sacro Monte con il Santuario della Beata Vergine, riconosciuto nel 2003 Patrimonio dell’Umanità, si staglia all’orizzonte. Secondo la tradizione popolare il tempietto fu fondato da S. Eusebio, rifugiatosi qui nel IV secolo per sfuggire alle persecuzioni degli ariani. La prima notizia certa risale al 1152, quando il vescovo di Vercelli Uguccione concesse la chiesa ai monaci di Vezzolano, sostituiti nel 1478 dai Padri Serviti e nel 1483 dai Canonici Lateranensi, che nel 1608 ottennero l’erezione della chiesa in abbazia.
L’aspetto dell’edificio sacro è dovuto in buona parte ai rifacimenti, effettuati dal XV al XX secolo. Confermano l’esistenza di una fabbrica medievale, decorata da un notevole corredo plastico, scomparso nei rimaneggiamenti successivi, due fregi di sottogronda scolpiti tra il ’200 e il ‘300, e tre rilievi scultorei che, murati nei due pilastri della navata centrale, prossimi al presbiterio, riportano a possibili esperimenti classicisti tentati dai longobardi tra VII e VIII secolo.
Probabilmente le due cappelle, alle spalle dell’altare maggiore, sono state edificate in contemporanea come primo nucleo del tempio. Quella di sinistra è dedicata alla Vergine e custodisce la statua della Madonna, che la leggenda vuole portata a Crea da Sant’Eusebio. Quella di destra è titolata a Santa Margherita di Antiochia e conserva una preziosa reliquia della martire, donata dal marchese Ottone II del Monferrato (morto nel 1378).
Il ciclo a fresco che la orna, fornisce un prezioso tassello sulla pittura della seconda metà del Quattrocento. La scelta del tema principale, appunto le Storie di Santa Margherita, si collega al nome di Margherita di Savoia, che nel 1458 sposò il marchese Giovanni VII del Monferrato.
Un episodio a parte, sia dal punto di vista iconografico che stilistico, è costituito dalla decorazione con i Padri della Chiesa nelle vele della volta. Curiose le piccole figure di eremiti inserite nel paesaggio, dove sono ambientati i Padri della Chiesa. Tra loro c’è chi prega, chi medita, chi legge, chi intreccia vimini, chi taglia un arbusto, chi cammina reggendo una bisaccia. Alcune delle attività illustrate, nel panorama pittorico del ‘400 compaiono identiche soltanto nella Cappella Caracciolo della chiesa di San Giovanni a Carbonara, nel centro storico di Napoli, realizzate da Leonardo da Besozzo e da Perinetto da Benevento.
Dal momento che ambedue le chiese appartengono all’ordine dei Canonici Lateranensi, le analogie tra i due cicli assumono un significato preciso. Infatti la rievocazione della vita dei primi monaci-eremiti va messa in relazione alla riforma dell’ordine, avviata agli inizi del XIV secolo dai frati dell’Abbazia di Santa Maria di Fregionaia, vicino a Lucca. Incentrata sul ritorno alla Regola di Sant’Agostino, è nota anche come Regola Patrum, in quanto attribuita ai Padri della Chiesa.
Ma c’è dell’altro.
Sopra l’altare, al centro, un artista dalla consumata capacità narrativa e compositiva ha affrescato il trittico dedicato alla Madonna col Bambino e Angeli musicanti tra i Santi Pietro e Margherita, a sinistra, e i Santi Eusebio e Paolo a destra. Ai lati del trittico, in una scena dal gusto squisitamente cortese, sono inginocchiati il committente Guglielmo VII marchese del Monferrato (1464-1483), alcuni suoi collaboratori, la moglie Giovanna Bernarda, sposata in terze nozze nel 1474, e le figlie Giovanna e Bianca, che il marchese aveva avuto da Maria di Foix e da Elisabetta Maria.
Nel rappresentare l’immagine il geniale artefice, preoccupato di accomunare in un’unica superficie personaggi umani e divini, inventa il motivo delle due aperture voltate, spalancate su un bellissimo paesaggio, in modo che la scena reale si svolga in uno spazio effettivamente calcolato, anche per quanto riguarda le proporzioni delle figure, che l’osservatore coglie come grandi al vero.
L’attribuzione di quest’opera costituisce uno fra i più intricati enigmi nella pittura settentrionale del Rinascimento. Forse l’autore è il cosiddetto Maestro di Crea o forse un maestro vetraio, data l’affinità con le vetrate della Certosa di Pavia e l’impostazione della rappresentazione sulla base di un cartone preparatorio assai dettagliato.
Ai piedi del Santuario di Crea c’è una bella casa dei primi del Novecento, chiamata “Villa Mario”, da cui si gode un incomparabile panorama sugli ondulati paesaggi monferrini. Era di proprietà di Cesarina Sini, zia di Cesare Pavese (1908-1950). Qui il celebre scrittore trascorse lunghi periodi durante la seconda guerra mondiale e concepì uno dei suoi capolavori più noti: La casa in collina.
Pochi chilometri separano Serralunga da Mombello, sin dal tardo XI secolo menzionato come locus “demaniale”, cioè sottoposto direttamente al marchese del Monferrato. Ad accoglierci è la chiesa di San Sebastiano, ricostruita nel ‘700 sulle rovine di un luogo di culto più antico, situato all’esterno della cinta fortificata.
Osservandone attentamente il fianco sinistro si notano quattro rilievi in arenaria murati nella parete. Considerati un unicum nel Monferrato, sono stati realizzati da una bottega di lapicidi pavesi agli inizi del XII secolo. Passeggiando nel grazioso abitato si vedono ancora i resti delle strutture difensive, che proteggevano lo stanziamento. Cattura l’attenzione il palazzo marchionale che, addossato alla porta orientale di accesso al borgo, sfrutta alcune architetture preesistenti del vecchio castello come sostruzioni.
Curva dopo curva scendiamo in valle e prendiamo la Statale n.590, denominata “della Valcerrina”, in direzione di Cavagnolo. Lungo il percorso, in prossimità del torrente Stura, incontriamo un solitario campanile romanico. Detto “Torre di S. Quirico” e datato alla fine del primo quarto del XII secolo, è quanto rimane della pieve di S. Quirico, compresa nel piviere di Castrum Turrise, censita nel 1298-99 col solo titolo e dal 1348 con la specificazione “de Valle Sturia”.
Un tempo qui c’era il villaggio di Odalengo distrutto o della valle (Odolengum destructum o de rocatum, Odolengum de Valle). Un antico cimitero rosicchiato dalle alluvioni della Stura e alcuni ritrovamenti di armi e monete, attestano la presenza del nucleo demico, presunto successore di un pago romano.
Giunti a Cavagnolo, una stradicciola sulla sinistra conduce all’abbazia di Santa Fede, dal 1912 monumento nazionale. Immersa nel verde, la chiesa per l’affascinante cromia ottenuta accostando conci di arenaria ben squadrati nella parte bassa a mattoni nella parte superiore, la varietà delle soluzioni decorative impiegate in capitelli, lesene, strombi e portali, e l’insolita articolazione della cornice ad archetti, è ritenuta uno degli edifici romanici più affascinanti del Piemonte.
Probabilmente costruita nel primo decennio del XII secolo, in origine apparteneva a un priorato benedettino dipendente da Sainte-Foy-de-Conques. Nella facciata si leggono varie iscrizioni. Una, in caratteri capitali del XII secolo, incisa prima del completamento dello straordinario portale riccamente scolpito, ricorda la morte del sacerdote Rolandus, che dovrebbe aver avuto un ruolo importante nell’erezione dell’edificio. Tra il 1577 e il 1584 il priorato fu abbandonato e gestito in commenda. Dal 1895 il complesso devozionale appartiene ai Maristi, che vi dirigono un “Centro di accoglienza e spiritualità”.
Un esuberante arredo scultoreo dalla forte connotazione archeologizzante, forse dovuta all’esistenza di un sostrato di classicismo longobardo con centro ad Asti, impreziosisce i pilastri quadrati e le semicolonne, che suddividono l’interno (m.21x10) in tre navate.
A una decina di chilometri da Cavagnolo si erge maestoso il castello di Gabiano, uno dei manieri più belli del Monferrato. Concesso nel XIII secolo al potente consortile dei de Gabiano, nel 1531 passò all’illustre famiglia dei Montiglio. Nel Medioevo il fortilizio, protetto da cortine murarie dotate di torri, era il fulcro di un più articolato complesso difensivo, definito negli statuti comunali del 1422 villa vel receptum forte. Adesso le sovrapposizioni neogotiche, realizzate negli anni 1908-1935, rendono difficile valutare la consistenza del nucleo fortificato e il suo rapporto con le difese del borgo.
Il complesso benedettino di Santa Maria di Pulcherada (= “bella rada” o “spianata”) a San Mauro Torinese, è la nostra ultima tappa. Nel 991 l’abbazia, segnalata tra i beni donati da Anselmo, uno dei marchesi “aleramici”, nell’atto di fondazione del monastero di San Quintino di Spigno, versava in grave crisi. Custode delle spoglie di San Mauro, discepolo di San Benedetto, impegnato in Gallia nella diffusione della Regola, doveva riprendere la sua assistenza a fedeli e pellegrini. “Uomini malvagi”, forse truppe dei marchesi “arduinici” di Torino, nella cui marca era compresa Pulcherada, in competizione con gli Aleramici per il controllo delle arterie stradali ai piedi delle colline e fluviali lungo la Stura di Lanzo e il Po, l’avevano distrutta.
Le cospicue rendite dell’insediamento religioso, al centro di una curtis, sviluppatasi sulla strada che in età romana collegava Augusta Taurinorum (Torino) con Industria (presso Monteu da Po), l’importante città romana decaduta nel IV secolo d. C. e precocemente abbandonata, dovette attrarre l’attenzione dei laici, prima usurpatori, poi protettori interessati. Alcuni scavi hanno consentito di trovare i resti dell’abside di un primo edificio di culto, collocabile nel V-VII secolo, con annesso un cimitero in cui erano stati sepolti una decina di membri di una comunità monastica maschile, e una cripta, che, posta sotto al presbiterio, doveva custodire le spoglie di San Mauro, rimosse fra Quattro e Cinquecento. Con ogni probabilità i lavori di ricostruzione furono eseguiti nell’ultimo decennio del X secolo.
Tra il XI e il XII secolo attorno al potente e florido monastero di Santa Maria di Pulcherada, gravitava una realtà politica e culturale non solo locale. A confermarlo concorrono l’ampiezza, la raffinatezza, la qualità pittorica e l’eccezionale iconografia di una splendida serie di affreschi romanici, recuperata nel 2010 nell’abside della chiesa. Ritenuta una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni in Italia settentrionale, come ambito culturale e datazione si collega ai cicli lombardi di Civate e Acquanegra, realizzati a cavallo del XI e XII secolo.
Una grandiosa visione celeste con Cristo in trono, circondato da angeli e arcangeli e affiancato dalla Vergine e dal Battista, risplende nella conca absidale. Nell’intradosso compare l’offerta di Abele e Caino, mentre nella parte alta del cilindro si stagliano le figure dei santi Pietro e Paolo e di quattro misteriosi personaggi aureolati, forse i Patriarchi, che reggono un globo con tre figurette a mezzo busto, personificazione delle anime. Sotto una Crocifissione e una lacera Adorazione dei Magi sono tutto ciò che rimane di un ciclo cristologico. Quale poteva essere l’impianto iconografico generale della chiesa? Semplicemente narrativo, legato alle vicende di San Mauro, o più intellettuale e dotto, come quello dell’abside?
L’accertato uso di materiali preziosi: blu di lapislazzuli e lamina di metallo dorato applicata all’aureola in stucco di Cristo, sono indicativi della rilevanza dell’impresa, voluta da un finanziatore ricco e colto, che poteva permettersi una committenza di così alto livello. I restauri e le trasformazioni subite in età barocca hanno occultato con stucchi e rivestimenti il corpo longitudinale della fabbrica, mentre le parti più antiche sono ancora visibili all’esterno della zona absidale, senza dubbio l’elemento architettonico più interessante della struttura religiosa.
Grandi monofore a spalle rette, molto diverse da quelle strette a doppio strombo caratteristiche della prima età romanica, e un’arcaica teoria di fornici a nicchia, privi di archetti pensili, entrambi retaggio di pratiche costruttive altomedievali ancora in uso quando la nuova architettura romanica cominciava a imporsi su un paesaggio segnato da edifici in rovina e permanenze del passato, abbelliscono la terrigna abside semicircolare, affiancata da due absidi minori a terminazione piatta all’esterno e curvilinea all’interno.