Da più di trent’anni trascorro le mie ferie a Bibione, località balneare dell’alto Adriatico a metà strada fra Venezia e Trieste. Posta sul Tagliamento, che fa da confine fra Veneto e Friuli, è quindi al centro dell’area che intendo descrivere in questo articolo.
Bibione è per lo più schifata dai ricchi, che trascorrono le proprie vacanze in Costa Smeralda o nei Caraibi, dagli intellettuali, che preferiscono Capalbio, Bocca di Magra o le masserie del Salento e dal turista che segue le mode e va a Formentera, Sharm el Sheikh, Dubai (Dubai!?!?) o alle Maldive. Ci va invece la gente “normale”, per lo più famiglie con bambini o allegre brigate di ragazzi, principalmente dall’entroterra veneto. Se un tempo era meta privilegiata di austriaci e tedeschi (ora spostatisi nella vicina Croazia), dopo la caduta del Muro, Bibione è diventata “la” spiaggia dell’Europa centro-orientale: cechi, slovacchi, ungheresi e polacchi vi giungono a frotte.
Chi la disdegna, non la conosce. Certo, la pur vastissima spiaggia è coperta da migliaia di ombrelloni e sdraio e l’alto Adriatico non è il mare della Grecia o della Sardegna, più che azzurro e cristallino è glauco e talvolta un po’ torbido, anche a causa delle lagune che lo affiancano. Ma proprio queste ultime ne costituiscono la maggiore attrattiva: un ambiente suggestivo di barene, isole, canneti, tamerici e salicornia, esclusivamente popolato da pesci (orate, sardine, anguille) e uccelli (falchi di palude, aironi, cormorani, poiane, folaghe, anatre e nibbi), e che si ammanta di nebbie nei mesi invernali.
A ridosso della laguna, pinete e una macchia intricata di ginepri, lentischi, e viburni, popolata da gazze, tortore, pernici e merli, e a ridosso di queste una campagna ubertosa e rorida d’acque. Sullo sfondo, nelle giornate terse, le cime innevate delle Alpi. Insomma, un paradiso, soprattutto se ci si va fuori stagione. Comunque non intendo parlare oltre di Bibione e della sua regione, se non tramite i suoi luoghi letterari, procedendo da ovest verso est e prendendo ad esempio due autori: Ippolito Nievo ed Ernest Hemingway.
Ippolito Nievo e Portogruaro
Di Ippolito Nievo conservavo vaghe memorie scolastiche, ma, trovandomi in zona, decisi di riprendere in mano il suo romanzo Le confessioni di un Italiano, scritto alla metà dell’Ottocento e pubblicato postumo nel 1867. Nel romanzo, com’è noto, Carlino Altoviti racconta le proprie memorie, le passioni, le esperienze della generazione risorgimentale, dalle invasioni napoleoniche alle prime guerre d’indipendenza. Il tema dominante del romanzo è l’amore fra il protagonista e la Pisana, una creatura affascinante, frivola e appassionata, ma vi si intrecciano conflitti esistenziali e avvenimenti politici di un’epoca che vede il tramonto dell’antica società settecentesca e l’avvio del moderno stato unitario.
Affrontai la lettura del “malloppone” (526 pagine nell’edizione Marsilio) con una certa titubanza, aspettandomi il consueto romanzone ottocentesco. Come mi sbagliavo!
Il romanzo conserva una straordinaria vitalità e freschezza, il suo linguaggio è semplice e diretto. Come disse l’autore stesso: “Farsi intendere da molti, oh non è forse meglio che farsi intendere da pochi?” Pur identificandosi col romanticismo (Nievo ammira Byron e Foscolo), lo scrittore non ne ha l’enfasi e le svenevolezze e guarda piuttosto al lato picaresco del Manzoni. Sfidando i gusti letterari dei suoi contemporanei influenzati dalla narrativa di consumo francese, Nievo propone una prosa nuova nel panorama letterario dell'Italia ottocentesca.
Le pagine più significative ed efficaci volte alla raffigurazione delle località e del paesaggio della “bassa” veneto-friulana si ritrovano nella prima parte del romanzo, dedicata alla rievocazione dell’infanzia e della giovinezza del protagonista nel castello di Fratta presso Portogruaro, e collocabili negli ultimi decenni del XVIII secolo.
Portogruaro si è sviluppata urbanisticamente ed architettonicamente nei secoli XV° e XVI°, in pieno dominio veneziano. Le due strade urbane parallele al fiume Lemene, sono collegate da ponti ed affiancate da maestosi palazzi gotici e rinascimentali.
Come scrive Nievo nel romanzo:
Portogruaro non era l’ultima fra quelle piccole città di terraferma nelle quali il tipo della Serenissima Dominante era copiato e ricalcato con ogni possibile fedeltà. Le case grandi e spaziose col triplice finestrone nel mezzo, s’allineavano ai due lati delle contrade, in maniera che soltanto l’acqua mancava per completare la somiglianza con Venezia.
Il centro della cittadina non è quasi cambiato da quei tempi.
Quanto alla sua regione, valga la splendida descrizione che Nievo ne fa parlando della prima fuga del Carlino ragazzo dalle mura domestiche del castello di Fratta e della sua scoperta del mare (nella località della Brussa, attigua alla spiaggia di Bibione):
Scopersi un vastissimo spazio di pianure verdi e fiorite, intersecate da grandissimi canali simili a quello che aveva passato io ma assai più grandi ancora; e in fondo a questo sorgevano qua e là disseminati alcuni monticelli, coronati taluno da qualche campanile. Ma più in là ancora l'occhio mio non poteva indovinar cosa fosse quello spazio infinito d'azzurro, che mi pareva un pezzo di cielo caduto e schiacciatosi in terra: un azzurro trasparente, e svariato da striscie d'argento che si congiungeva lontano lontano coll'azzurro meno colorito dell'aria. Era l'ultima ora del giorno; da ciò m'accorsi che io doveva aver camminato assai assai. […] D'improvviso i canali, e il gran lago dove sboccavano, diventarono tutti di fuoco: e quel lontanissimo azzurro misterioso si mutò in un'iride immensa e guizzolante dei colori più diversi e vivaci.
Quante volte ho pensato a questa splendida (e modernissima) descrizione tornando a casa al tramonto dopo una giornata sulla spiaggia di Bibione!
Di Nievo, a Portogruaro resta un busto ai Giardini, ma il luogo più interessante legato allo scrittore è la vicina località di Fratta dove si trovano i resti del mitico castello. Edificato nel 1186 a difesa dagli invasori Ungari che irruppero fin dal IX secolo sulla pianura friulana e veneta, fu demolito nel 1798. L'unico edificio superstite del castello è la struttura rurale padronale denominata Cortino, che oggi è sede del Museo letterario Ippolito Nievo (contiene prime edizioni delle sue opere, antiche ceramiche del castello e il calamaio dello scrittore). Una visita commovente.
Il busto di Ippolito Nievo a e il castello di Fratta, Fossalta di Portogruaro.
Hemingway e le lagune di Caorle e Lignano
Un altro ospite illustre, Ernest Hemingway, fu a più riprese nella regione per andare a caccia e pesca nelle vicine “valli” (lagune) di Caorle e Lignano tra il '48 e il '54, dove fu ospite conteso di alcune famiglie aristocratiche. Un piovoso sabato pomeriggio del dicembre del ‘48, lo scrittore andò a caccia di anatre insieme al conte Carlo Kechler, e a un altro aristocratico Veneto, il barone Franchetti, in una riserva di caccia vicino a Caorle. Fu lì che Hemingway conobbe la ragazza diciannovenne di cui s’innamorò d’un amore platonico: la nobildonna Adriana Ivancich, meglio nota come Renata, l'ammaliante protagonista di Di là dal fiume e tra gli alberi (ne parliamo più avanti).
“Sono un vecchio patito del Veneto. Lo amo e lo conosco molto bene” disse lo scrittore in una lettera al critico d’arte Bernard Berenson. Nelle lagune di Caorle Hemingway carico di cartucce per la caccia, con stivaloni alti fino alle reni e una vecchia giacca militare si sentiva a casa. Dormiva nei “casoni” le secolari costruzioni lagunari che servivano da casa e da magazzino per la pesca, fatte di legno e giunco della laguna, col pavimento di fango e il focolare al centro, una lunga sala da pranzo al piano di sotto e camere da letto al piano di sopra. A cena, Hemingway andava pazzo per l'anguilla grigliata che mangiava con tutta la pelle.
Quanto alla penisola di Lignano, Hemingway la chiamava, per la sua forma e per il fatto di essere circondata da laguna e mare “la mia piccolo Florida”. E anche la città - più chic di Bibione, è la meta balneare della buona borghesia di Udine - , ricorda un po’ Miami con le sue ville e gli edifici color pastello. Fu progettata dal celebre architetto e urbanista friulano Marcello D'Olivo che, al posto della classica rete stradale a griglia, la realizzò a chiocciola, seguendo l’ondulazione delle dune. Vi è anche un «Parco Hemingway» di quattro ettari coltivato a pini, rose e orchidee, con un busto dello scrittore.
Ma torniamo a Di là dal fiume e tra gli alberi. Il romanzo è in gran parte ambientato in una Venezia invernale e funerea, e sulle rive del Piave, dove Hemingway fu ambulanziere nella Prima Guerra Mondiale, ma è la caccia alle anatre a Caorle che ne fa da cornice.
Tutto comincia con il cinquantenne ex ufficiale americano Cantwell che, durante una battuta di caccia «nelle paludi alla foce del Tagliamento», ripensa a quella che è stata la sua vita (Cantwell è chiaramente l’alter ego di Hemingway). Il cacciatore parte due ore prima dell'alba insieme a un barcaiolo sul canale ghiacciato, con i fucili e i richiami, per raggiungere la botte - un riparo fatto di doghe di quercia immerso nella laguna.
Quello che inizia come un racconto sulla caccia alle anatre nella laguna si trasforma però rapidamente in qualcosa di molto più ambizioso: la storia di un uomo di cinquant' anni (Hemingway) che rivisita i luoghi del Basso Piave in cui, diciottenne, era stato ferito, Ma ben presto si amplia fino a diventare un romanzo al cui centro vi è Adriana. La contessa Renata del libro (il suo cognome non viene mai rivelato) è molto più che un personaggio, è il simbolo di un amore tardivo e impossibile.
Di là dal fiume e tra gli alberi è un romanzo che è stato probabilmente frainteso e sottovalutato. Le prime critiche furono negative e persino gli appassionati di Hemingway si dissero delusi dall'andamento lento e autoindulgente della storia e da una trama inesistente. Hemingway, che pativa di stati depressivi e momenti di malinconia, soffrì molto per le critiche negative.
Io sono fra quelli che considerano Di là dal fiume e tra gli alberi un più che degno canto del cigno dello scrittore e credo che la sua scarsa fortuna sia frutto di un malinteso. Chi ha letto Hemingway superficialmente, o conosce lo scrittore solo di fama (una fama da lui stesso assiduamente coltivata), lo identifica con il macho che partecipa alle guerre dalla parte giusta, si appassiona per le corride, pratica la caccia grossa in Africa o la pesca d’alto mare ai Caraibi. Considera i suoi come romanzi realisti ed “impegnati”, composti di frasi brevi, semplici e concise, in uno stile “giornalistico”. Niente di più sbagliato.
Hemingway è un “modernista”, influenzato dal simbolismo francese e dalle avanguardie storiche del Novecento come i suoi contemporanei e amici Gertrude Stein, Ezra Pound e James Joyce. A lui interessa soprattutto lo stile, il linguaggio nel suo ritmo e la sua musicalità, non le trame o le psicologie dei personaggi.
Come disse in un’intervista alla Paris Review “Cerco sempre di scrivere secondo il principio dell'iceberg. Per ogni parte visibile ci sono sette ottavi nascosti sott'acqua”. Così, nel racconto il lettore percepisce spazi inespressi e incontaminati. L'ossatura dei suoi racconti sono i famosi dialoghi, ma anche questi sono tutt’altro che realistici: suvvia, nessuno nella vita reale parla come i personaggi di Hemingway!
La piazza principale di Caorle, VE.
In conclusione
Chi avrà avuto la pazienza di leggere questo pezzo si sarà reso conto del grande affetto che provo per questa regione fra Venezia e Trieste a cui mi legano i ricordi di tante estati felici trascorse con la famiglia. Ne avevo già scritto in un articolo dedicato a Duino (Meer edizione italiana del marzo 2024). Chissà che in futuro non completi la serie con un altro pezzo dedicato ad altre sue bellezze naturali, altri tesori artistici e scrittori.