Sfogliare un fumetto è un gesto semplice, quasi leggero. Eppure, dietro ogni tavola si nasconde un atto di partecipazione culturale profondo, un dialogo silenzioso tra chi disegna e chi legge. Non è solo una questione di parole e immagini: è una lente diversa sul mondo, una narrazione che, pagina dopo pagina, ci accompagna in territori spesso inesplorati.

Negli ultimi anni, questo linguaggio sta vivendo una trasformazione importante. Le librerie si stanno popolando di titoli firmati da autrici italiane, voci nuove e coraggiose che stanno riscrivendo i confini dell’immaginario collettivo. Non è una semplice questione di numeri, né una battaglia per conquistare uno spazio. È un arricchimento, una moltiplicazione di prospettive che riflette un cambiamento più ampio: quello di una cultura che, finalmente, comincia a riconoscere la pluralità dei suoi protagonisti. Il fumetto, da sempre percepito come linguaggio popolare, trova oggi una nuova profondità. Non solo nelle tematiche, ma anche nella sua capacità di rompere le gerarchie tradizionali tra arte alta e arte bassa, tra parola scritta e immagine, tra intimo e politico. Non esiste più solo l’intrattenimento, la saga o l’avventura. C’è spazio per la memoria, per la rabbia, per l’ironia, per il corpo e per la fragilità.

Una rivoluzione silenziosa

Non tutte le rivoluzioni si fanno con le piazze o con i proclami. Alcune scelgono strade più sottili, ma non per questo meno incisive. Il fumetto, con la sua forza narrativa e visiva, è uno di questi strumenti: una forma di resistenza che non passa dalla violenza, ma dal racconto.

In un presente segnato da conflitti, derive autoritarie e dibattiti ridotti a slogan, il fumetto riesce a insinuarsi tra le pieghe della retorica. Non impone, non urla, ma suggerisce. E nella sua apparente leggerezza, scava. Racconta un mondo che cambia, lo mette in discussione, lo reinventa.

Viviamo un tempo in cui la paura viene spesso istituzionalizzata, i diritti trattati come favori temporanei e l’identità come una bandiera da sventolare solo quando serve. In questo scenario, il fumetto diventa un gesto politico: non per la sua immediatezza, ma per la capacità di smontare la realtà e ricostruirla attraverso simboli, immagini, emozioni. Le sue tavole sono spazi liberi, flessibili, difficili da controllare. Ed è proprio in questa libertà che risiede la sua forza.

Il fumetto non è solo una forma espressiva. È un campo di battaglia culturale in cui si incontrano la memoria, il desiderio e l’immaginazione. È un mezzo accessibile ma sofisticato, capace di toccare corde profonde senza bisogno di grandi mezzi, bastano una matita, della carta e una voce che ha qualcosa da dire. Forse per questo è così potente: perché non ha bisogno di chiedere il permesso.

Fumettibrutti: un tratto che spacca il cuore

A questo punto, lascio per un attimo da parte l’analisi e parlo da lettrice. Perché io, di Fumettibrutti, sono una vera fan. Le sue opere non sono semplici letture: sono esperienze. Mi hanno cambiata, mi hanno aperto gli occhi. Mi hanno insegnato a sentire storie che, fino a quel momento, mi erano sembrate lontane.

Il tratto di Josephine Yole Signorelli è crudo, diretto, mai addolcito. Non cerca di rendere le cose più facili o accettabili. Le mette lì, in faccia al lettore, senza filtri. Le sue storie non rassicurano: spaccano. Alternano momenti durissimi a passaggi simbolici, quasi astratti, ma sempre carichi di una sincerità disarmante. Il dolore, l’identità, la trasformazione del corpo: tutto è raccontato senza paura, con un’urgenza comunicativa che rende ogni vignetta un frammento vivo, un pezzo di realtà che sfugge alle semplificazioni. Non c’è autocommiserazione, né voglia di provocare. Solo il bisogno – urgente e necessario – di raccontare ciò su cui troppo spesso si abbassa il volume, come una stazione radio disturbata che nessuno vuole davvero ascoltare.

Quello di Fumettibrutti è un atto di ribellione, sì. Ma è una ribellione intima, quotidiana. È la voce di chi lotta per esistere, per essere riconosciuta, per non essere schiacciata dallo sguardo degli altri. Le sue tavole non cercano approvazione, non chiedono permesso.

Si affermano, semplicemente. Grazie, Yole, per averci ricordato che semplicemente essere non ha bisogno di alcun permesso.

Tra significato e significante

Ed è proprio in questa varietà di voci – individuali, collettive, artistiche – che il fumetto si fa linguaggio del presente. C’è chi usa la tavola per raccontare la Storia, chi per elaborare traumi personali, chi per costruire mondi alternativi. E in ciascuna di queste modalità, il fumetto continua a fare ciò che fa da sempre: aprire spazi, lasciare tracce, disegnare visioni.

Non è solo un mezzo di espressione, ma uno strumento per pensare, per riscrivere ciò che ci sta intorno. Più che mai oggi, il fumetto dimostra che si può fare cultura anche partendo da una matita e un foglio bianco. Che si può costruire senso anche nei margini, nei dettagli, nei silenzi tra una vignetta e l’altra. È un’arte ibrida e permeabile, che non teme di contaminarsi con altri linguaggi – dalla musica al teatro, dal web alla realtà aumentata – e che proprio in questa sua porosità trova una forza narrativa unica.

E così, il fumetto ci mette di fronte a ciò che siamo e a ciò che potremmo ancora diventare.

Perché il futuro, dopotutto, è ancora da disegnare.