Per i circa diecimila anni che hanno preceduto le rivoluzioni industriali, la società umana veniva descritta come principalmente agricola; ad indicare che oltre il 95% della popolazione attiva si trovava impegnata nell’agricoltura e dintorni. Non mancavano professioni intellettuali, artigianato, industrie che precedettero la meccanizzazione vera e propria di fine XVIII – inizio XIX secolo d.C.; ma si dovette aspettare l’evoluzione delle fonti energetiche (vapore prima, elettricità poco dopo) per iniziare a chiamare “industriale” una società e intendere, così, che la crescita del lavoro domandato dalle imprese riguardava l’industria stessa (mentre continuava il crollo dell’occupazione agricola finalizzato a provvedere più braccia di quelle che servivano al “progresso”).
La società industriale finì meno di duecento anni dopo la prima rivoluzione industriale, a seguito del G7 di Tokyo del 1979 - quando l’occupazione dei comparti manifatturiero ed energetico toccò il suo picco nei Paesi di più antica industrializzazione (PAI); dopo di che, si cominciò a parlare di “postindustriale” per intendere che la domanda di lavoro risultava crescente solo nel comparto dei servizi.
Passati altri trenta-trentacinque anni circa, sempre concentrando la nostra attenzione prevalente sui PAI, anche la società postindustriale sembra sostituita da una nuova situazione (che potremmo definire postcapitalistica per la sopraggiunta maggiore insostenibilità – come si cercherà di approfondire tra poco – dei relativi paradigmi): la domanda di lavoro è decrescente anche nei servizi.
Tutte e tre queste situazioni – industriale, postindustriale e postcapitalistica – sono accomunate dai moventi ad introdurre innovazione tecnologica. Infatti, si tratta di questo: sostituzione di risorse - scarse, divenute pregiate, non rinnovabili - grazie a cambiamenti che le sostituiscano nei processi produttivi ovvero ne riducano la quantità per unità di prodotto. Qui si sta dando maggior risalto alla “innovazione di processo”, perché l’introduzione di nuovi beni e servizi, non in mera sostituzione di quelli precedenti, determina una dinamica – solo all’inizio – diversa; ma che, nel tempo, si adatterà a quella di processo (man mano che la domanda di nuovi prodotti vada a regime).
Il motore dell’innovazione è, quindi, la convenienza, per l’impresa, cui costerà di meno il prodotto contenente meno risorse ovvero un mix di risorse (finanziarie, umane, ecc.) che determinino un risparmio – calcolato in termini di profitto - rispetto alla situazione precedente.
Durante i 150 anni circa (pur con alti e bassi) dell’epopea dei movimenti operai e sindacali, quando questi ultimi avevano successo e riuscivano a far crescere le paghe ovvero creavano una efficace resistenza alla loro riduzione, risultava più conveniente sostituire lavoro vivo con tecnologia. Parimenti, i Paesi dove il movimento operaio e i sindacati non si svilupparono registrarono ritardi nella innovazione tecnologica perché, come si è accennato, la convenienza a sostituire il lavoro vivo si riduceva.
Il capitalismo ha sempre sostenuto la sua duplice eticità e funzione sociale perché, alla sostituzione di lavoro vivo con tecnologia, ovvero di aumento dei salari con riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto, ha sempre corrisposto o un rafforzamento della domanda e del mercato o la introduzione di nuovi prodotti che hanno spinto i livelli occupazionali a non ridursi. Il tutto è stato condito con spesa pubblica – soprattutto in disavanzo – che consentiva alla domanda aggregata di spingere o trainare un reddito complessivo crescente.
Ma, attualmente, molti fenomeni hanno turbato tale dinamica:
Con la società postcapitalistica (di qui la sua “definizione”) la domanda di lavoro è decrescente nell’insieme dei comparti che producono beni materiali.
Laddove l’occupazione sarebbe (e sarebbe dovuta) aumentare – vale a dire nei servizi di cura delle persone e dell’ambiente, di recupero del patrimonio esistente e, in genere, nelle attività immateriali – il fatturato risulta più basso del costo e, quindi, le imprese capitalistiche non sono disponibili all’investimento.
La domanda di lavoro da parte dello Stato si è contratta perché quest’ultimo è stato assimilato a qualunque operatore che abbia bisogno di soldi e li vada a chiedere al sistema bancario (se il tasso di interesse è più elevato di quello di crescita del PIL, l’operazione dell’investimento pubblico costa di tasse ai cittadini di più di quanto non renda in termini occupazionali).
Nella società postindustriale, la domanda di lavoro nei comparti manifatturiero ed energetico era decrescente, ma cresceva in quello dei servizi. Nella società postcapitalistica, l’aumento dei profitti risulta, in valore assoluto, maggiore della diminuzione di reddito dei lavoratori (calo occupazionale e di retribuzioni): quindi, l’effetto degli investimenti sul PIL è negativo perché – si ripete – la crescita del reddito-profitti non compensa la riduzione del reddito-lavoro. La cura sarebbe la riduzione di orario a parità di salario, ma i percettori di profitti si oppongono. Poi bisognerebbe valutare meglio il costo della sostituzione del lavoro (con ulteriore tecnologia) che si apprezzerebbe proporzionalmente al calo di ore lavorate dal singolo.
Nei comparti non destinati alla decrescita (produzione di beni immateriali, soprattutto servizi di cura ed attività creative), il fatturato è basso a volere soddisfare tutti i bisogni della società senza intervento pubblico per le ragioni esposte al punto 3); questo apre a prospettive di lavoro non remunerato o gestito dalle imprese del Terzo Settore con paghe di molto inferiori al minimo di sopravvivenza (un alloggio seppure modestissimo, cibo, vestiario, cure mediche, ecc.). Nel passato era un cavallo di battaglia delle idee cosiddette tradizionali proporre la riduzione dei salari per abbassare i prezzi: ma oggi le spese delle famiglie dipendono da voci che sarebbero comprimibili se e solo se lo Stato garantisse case, assistenza sanitaria, trasporti, ecc. gratuiti per tutti a standards accettabili.
Lo Stato potrebbe spendere senza indebitarsi emettendo ed immettendo moneta non a debito, a corso legale solo sul suo territorio (diversamente sarebbe in contrasto con gli accordi internazionali, ad esempio, il Trattato di Lisbona), non convertibile in valuta.
Senza quest’ultimo cambiamento, la società postindustriale è destinata ad implodere. Un’altra strada sarebbe quella della modificazione della contabilità bancaria per puntare a tassi di interesse fortemente negativi perché, quando la banca effettua un prestito crea moneta (che iscrive sia all’attivo – credito da clienti – sia al passivo, ovvero i depositi dei clienti che essa accredita ai clienti stessi che hanno preso il prestito); quindi, in una nuova contabilità, la banca, una volta calcolati i propri costi di produzione, realizza un guadagno pari al flusso di reddito che i prenditori le rimettono. La sofferenza sarebbe solo quando tale flusso fosse inferiore ai costi della banca (come per una normale azienda); mentre le altre situazioni comporterebbero solo un minore arricchimento, non una perdita.
Fatte tutte queste doverose premesse, vediamo cosa accade nelle attività produttive esposte alla robotizzazione, all’industria 4.0 eccetera.
La domanda di lavoro ha cominciato a cambiare prima della fine del modello industriale quando si è passati dal 95% di essa riguardante qualifiche semplici o specializzate (per cui bastava e avanzava la terza media), al 45% di esse – fin dai tempi dell’introduzione di macchinari a controllo numerico - contro un 55% circa di lavoratori qualificati, addetti alle attività commerciali, capaci di risolvere problemi per cui non erano stati preventivamente addestrati, propensi a gestire il rapporto con la clientela interpretando o condizionando le esigenze di essa.
Già negli anni ’90, l’industria automobilistica doveva i suoi profitti non alla vendita delle automobili (perché occorreva comprimere il prezzo di vendita sul costo di produzione allo scopo di difendere la competitività del prodotto), ma ai pezzi di ricambio, alla manutenzione, agli optionals, ad attività e servizi connessi, fino a cartolarizzare gli effetti finanziari che avevano spiazzato i classici acquisti senza indebitamento del cliente.
Tale importante trasformazione ha incontrato il suo limite nella obsolescenza dei titoli di studio richiesti (scuola media superiore e corsi universitari) più rapida di quella delle tecnologie oggetto della istruzione scolastica e universitaria stessa. Ciò ha favorito lo sviluppo di una formazione altrettanto inutile (nella gran parte dei casi) perché, comunque, lontana dalle reali esigenze delle imprese.
Queste ultime consistevano e consistono non nell’apprendimento di nozioni specifiche (che è necessario, ma può avvenire direttamente in azienda) bensì di capacità intellettive e pratiche di carattere generale, veramente formative, in grado di mettere il collaboratore in grado di risolvere problematiche anche nuove, soprattutto dialogando con la clientela.
La scarsa consapevolezza di tale evoluzione da parte delle aziende e la crisi del sistema scolastico-universitario che ha creduto – con risorse umane e finanziarie decrescenti – di impattare utilmente le grandi trasformazioni economiche, spesso solo paventate e mitizzate, ha completato il quadro delle difficoltà correnti.
Difficoltà destinate ad incancrenirsi quando la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto è stata sostituita dalla riduzione dei salari per sostenere la fortissima concorrenza internazionale. Così, la necessaria flessibilizzazione del lavoro – che doveva essere solo strumentale ai cambiamenti in corso – è divenuta obiettivo precipuo, quindi massimizzata e ha prodotto il mostro: la precarizzazione.
Quest’ultima è stata negativa non solo per i diretti interessati, ma anche per le imprese ed i loro clienti: servizi di qualità scadente, tecnologie avanzate affidate a dilettanti sottopagati, impossibilità di portare le paghe a livello della concorrenza internazionale.
Le prossime ondate di innovazione tecnologica – soprattutto quanto connesso alla intelligenza artificiale – condurranno a cambiamenti veramente drammatici se non si modificheranno le prospettive dell’azione industriale, sociale, economica.
In primo luogo, occorrerebbe accettare una diversa divisione internazionale del lavoro determinata – anche – da due importanti fattori: a) i Paesi emergenti di più recente industrializzazione (PERI) stanno attraversando la loro fase di industrializzazione; è quindi logico che prodotti di largo consumo, semilavorati, materie prime, ecc. siano loro lasciati, mentre i PAI dovranno puntare su “specialties”, servizi ad alto valore aggiunto (in Italia turismo di qualità, soprattutto culturale); b) i PERI hanno costi più bassi per introdurre tecnologie salvambiente che, oggi, sono ostacolate – per loro – dalla necessità di tenere bassi i costi, quando, invece, sarebbe meglio far leva su accordi internazionali di divisione del lavoro finalizzati a liberare i Paesi emergenti dalla necessità di ignorare gli impegni ambientalistici.
Nei PAI, invece, occorrerà coordinare la formazione scolastica alle esigenze del futuro che riguardano la necessità di capire, adattarsi, trovare soluzioni nuove sulla base di una cultura che stimoli sensibilità, intelligenza e talento. Tutto il contrario, insomma, di quanto comunemente ci si aspetta quando ci si attende una tremenda meccanizzazione che estrometta gli umani dalle attività produttive o – peggio – che li sottometta a macchine pensanti e spietate (dove i livelli di coscienza sono scissi dal corpo e dai sentimenti).
Ma occorre anche rivisitare il ruolo dello Stato, adesso che la globalizzazione e il Nuovo Ordine Mondiale liberista a guida USA ha mostrato tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni; rivisitare la contabilità bancaria; accogliere le nuove forme monetarie distinguendone le varie tipologie anche in base ai proponenti senza dimenticare che dobbiamo sostenere la crescita dei redditi, non accontentarci di ulteriori distribuzioni dell’esistente che non darebbero impulso all’economia.
Solo così supereremo i paradigmi capitalistici: nei comparti ad elevata redditività dove l’occupazione è destinata a ridursi, ma anche i costi e i profitti fino al punto di richiedere strumenti imprenditivi di utilità sociale, visto che la lucratività è destinata a lasciare il passo ad un’abbondanza di fonti energetiche a costo zero e di risorse di ogni genere; nei comparti a bassa redditività perché si tratterà di dare risposte adeguate ai bisogni della comunità facendo leva su strumenti diversi dalle imprese come finora le abbiamo considerate.
L’evoluzione tecnologica ci porta a quel superamento della scarsità che richiede una situazione simmetrica per la moneta (non a debito, non riserva del valore, non più pregiata dei beni prodotti dal lavoro); diversamente, il conflitto tra le forze produttive ed un’organizzazione inadeguata della società e dell’economia ci porteranno su situazioni di grave instabilità sociale, di permanenti turbamenti individuali e collettivi.















