L’eroe cantava i morti eroi
Cantava sé sulla cetra da lui predata.

(Giovanni Pascoli, La cetra d’Achille)

La bocca è il corpo, la voce è puro ascolto, porta murata,
intransitiva, cavità interna, che non assomiglia a niente, che si rivela
senza assomigliare a nulla, pura risonanza.

(Carmelo Bene e Maurizio Grande, Recanati, 11 settembre 1987)

Carmelo Bene in scena assomiglia alla grandezza
di Dalì se dipingesse sotto i nostri occhi.

(N. Ismailova, Mosca, 29 dicembre 1990)

Una poesia strana per Pascoli il suo Alexandros (1895) per lui che è il poeta delle cose piccine, dell’intimità dei dettagli, del ripiegamento. Eppur in questa, fra le sue prime poesie, come per la Cetra d’Achille, sua gemella, tutta la sua opera è inclusa e compresa. Poesia della fine e del disincanto, o meglio: canto post-sirenico che si sofferma nell’incanto dello svanire del canto. Così saranno Leopardi e Carmelo Bene quali voci di un unico e continuo cantar lo svanire delle cose, il consumarsi del tempo, l’agguato della vita alla singolarità, alla differenza che si lascia resistere.

Qui abbiamo un respiro e uno sguardo ampio, vasto, universale, anche se giocato in negativo come nella poesia su Achille, dove la fine dell’eroe coincide con il lasciar la sua cetra, con il restituirla al suo primo possessore, un ignoto aedo. Resta allora il mare e allora per la prima volta sente l’eroe l’approssimarsi del Fato che incombe e chiude i suoi giorni. L’eroe quale già morto, quale residuo e ultimo.

Immagine questa d’Achille solo davanti al mare che preme il cuore per il senso dell’annullarsi del singolo nel continuo indifferente dell’oceano dello sguardo. Ma finché dura il canto il peso del Fato si oblia. Nell’Alexandros la poesia inizia con la parola “Fine”. Un paradosso semplice. Anche qui il fermarsi dell’eroe è l’incontro con il limes, l’estremo, il suo telos.

La terra è finita; l’eroe giunge ad Oceano, cioè al Nulla dell’indistinto, all’a-peiron che sfugge alla conquista. Alessandro il macedone canta gli immensi spazi varcati, già con nostalgia ora che il cammino ha trovato la sua conclusione. L’immagine della natura quale spazio e quale tempo, cioè immagine della vita trascorsa, emerge con dettagli di dolce e affascinante indifferenza. La foresta appare “immota”, le acque portano tale foresta, che è continuo oscuro “mormorìo” che non muta; gli armenti sono omericamente “infiniti”, il piano è “immenso”.

Alessandro si fa possedere da forze ignote e possenti che lo usano e avanza nell’Asia come spinto da una musica, come suonato da un soffio che passa. Una musica sconosciuta che viene da un auleta: Timoteo, nome parlante che indica il fuoco divino, l’inconsapevolezza giovanile che arde follemente. Alessandro diventa Alessandro seguendo quella musica; il suo cammino un continuo komos bacchico.

Tutto passa intanto: il vento e anche le stelle. La vita quale continuo e inconsapevole inseguimento, vano, svanito, vacuo. E la distesa immensa ora si fa punto, non luogo, stasi, implosione, collasso. E il canto che ci ha posseduti e sospinti ora ci oltrepassa, senza guardarci, senza una pausa, né si ferma mai. Il cuore resta conchiglia, ma ora priva e orfana della musica di un mare che evapora. Il giungere è il piangere, come Achille la propria ineluttabile Moira.

Il Canto allora celebra il sogno e la sua ombra, solo infinito che resta. “Il sogno è l’infinita ombra del vero” (dove il vero è finito, inferiore) trova sua risonanza nell’ascoltare della madre Olympias le grandi querce che bisbigliano “nella cava ombra infinita”. Immense distanze e assenze incolmabili dove il singolo si perde e s’immerge. Alessandro è solo nell’assenza, come pure è l’Assente per l’Epiro patrio e materno.

Ecco alla fine la dolcezza materna di un fonte che mormora che la madre ascolta “in sogno” insieme alla sommessa voce delle stormir delle querce. Ecco la rivincita del sognare sul vivere, nell’ombra sulle promesse della luce, dell’antro cavo dell’oblio e del non conosciuto sulla musica fatale del dileguarsi incessante. Il sonno quale canto, unica dolcezza per lenire il ferirsi ch’è vita. La consapevolezza vede il vuoto, il deserto.

Alessandro nel culmine del trionfo si trova nudo e solo, collassa, implode, come se si svegliasse la prima volta da un lungo sogno e tornasse bambino in mezzo ad una natura immensa, indifferente, autonoma, che continua senza di lui, di lui ignara. Le sue sorelle in Epiro filano giorno e notte; sono come le Parche: filano il Fato per il fratello che non tornerà più. La grandezza di Alessandro la si coglie nell’assenza, nella lontananza della sua fuga, nel silenzio immenso che apre e in cui s’immerge.

Anche in Epiro tutto passa come in Asia ma il canto riposa nella dolcezza di grembi femminei e materni. Il ritorno all’utero è tema centrale in Pascoli come quello del sonno e del sogno-bambino; dal Carrettiere fino al Gelsomino notturno e La mia sera. Nel sonno-sogno finale della madre Olympias ritorna l’ascolto della natura quale risonanza dentro la caverna vuota dell’esserci. Nel sogno di Olympias non si coglie più differenza tra il sognare e il vivere il reale.

Due polarità complementari si rispecchiamo e risuonano a vicenda: il tempo aionico dell’Epiro materno dove il tempo è quello amiotico del dormiveglia, della natura, del Mito e il tempo della fuga senza ritorno di Alessandro Magno il quale quando si ferma non si trova, non si piace, come se si svegliasse per la prima volta e davanti a sé non c’è più tempo né spazio né direzione e l’eroe invecchia improvvisamente e ritorna bambino e canta solo il suo recente passato come se fosse già lontano anni luce.

Alessandro non conosce sé stesso ma solo il cammino che ha bruciato per giungere in un punto assoluto e morto. Una poesia straordinaria fatta di una sequenza musicale di immagini semplici, rarefatte, limpide, fatali. Alessandro sembra mai uscito dal grembo materno, sembra aver vissuto il sogno che ha di lui la madre. Nella poesia attorno l’eroe e la madre c’è una natura sempre infinita; ma un infinito dispersivo, sfuggente, all’uomo indifferente. “Infinito” s’agita ovunque ma non dentro il vuoto della maschera umana a cui sfugge sempre.

Pascoli a quaranta anni si canta già morto, già concluso e sorpassato, come Achille davanti al mare la sua ultima notte. La vita già gli è sfuggita, ha già incontrato il suo limite e allora prende l’immagine epica del conquistatore macedone quale maschera per il canto del proprio svanire, per la poesia quale paralisi, stasi. Assunzione dell’assenza, del puro ascolto, dalla passività nella musicalità.

Carmelo svela Giovanni.

L’Achille e l’Alessandro di Pascoli appaiono come luci fioche nelle tenebre aioniche, quali idee-limite, voci dentro il Nulla, unici folli risvegliati dentro una folla di folli dormienti. Il Nulla è il loro luogo, la loro abitazione, il consueto crinale, la soglia borderline da loro abitata dove “adstanzia” lucido il loro indomito spirito. La massa dei guerrieri si arrende al Limes, scambia il limite con il Nulla, mentre il Nulla è sempre l’Oltre, non comprende che l’aristocratica stasis del vero eroe abita il Nulla-Limite senza mai saturarlo o soddisfarlo.

Il loro silente canto solo dalle stelle è ascoltato, precorre millenni gli spiriti adatti all’ascolto di tale eccessiva e inesausta musica. Achille canta ma tutti dormono e persino la cetra di Hermes gli viene chiesta indietro. Quando cessa il canto notturno si accorge che le cose “son ebbre di pianto” e la sua morte si diffonde ovunque. Volti-Fato volti verso il Nulla dentro il Limite-Specchio. Non escono mai da un “se stessi” che non cessa di oltrepassarsi nella contemplazione del mare.

Così l’Achille di Bene, solo nella luce accecante di rottami di bambole che mai riesce a ricomporre perché ogni suo doppio si infrange non sostenendo l’eccesso del proprio a-peiron. Come “il teatro non sa niente del teatro, non può spiegarsi né essere spiegato” (Carmelo Bene, In-vulnerabilità di Achille Piergiogio Giacchè, Incontro con Carmelo Bene) così gli eroi di Pascoli e di Bene appaiono quali bagliori di un ritorno del Mito quale canto, pura voce; dell’eroismo quale assunzione della paradossalità dell’esistere, il superamento del Mito quale mero racconto.

L’Achille beniano appare opera ultima e decisiva anche per comprendere in essenza tutta l’opera di Carmelo tanto che lui stesso la considera testimoniale della sua vita-opera. Nella Pentesilea-Achilleide-In-vulnerabilità di Achille la “macchina attoriale” beniana appare ridotta ai minimi di presenza: solo pochi veli da sposa e qualche relitto di manichini bianchi di donne. Quasi non c’è scena.

Appare quindi in cruda trasparenza ciò che già c’è in ogni sua opera: la scena è il corpo-voce di C.B., il “grande Assente”, come l’Alexandros pascoliano. Lo stesso Carmelo ammette che in quest’opera non solo svanisce l’Io ma lo stesso “soggetto”. Il corpo è gesto accennato e non concluso. Continuamente vanificato nel suo tentativo di costruire la “sua” donna-visione. La Voce passa in puro ascolto, passaggio, assoluta presenza effimera, alienità. Come un corpo si percepisce l’estraneità dell’esserci, la desolazione di una vita che non sa viversi.

Ha ragione Carmelo, dentro e fuori della sua opera, come sempre: di fronte a questa voce di Achille-Pentesilea compare solo un rispettoso silenzio. Il silenzio musicale dell’Opera richiama un silenzio di meditazione-concentrazione di chi contempla questa voce-gesto. Come nei Cantico dei cantici non si sa chi parla! Ma là abbiamo almeno un linguaggio, per quanto vago, ambiguo e allusivo. Qui è la fine del linguaggio e l’unica lingua è il corpo-suono. Svanente, irreparabile.

L’ “automaticità” di una processualità musicale spersonalizzante appare attraversando C.B. come corpo in ascolto, in sussulto, velo e oggetto, relitto tra relitto. E il sogno appare gesto, attimo dopo attimo lasciato e sconfessato, permesso e negato. Achille come fallimento degli dei, sollievo di uno Zeus messo in pericolo, agonia degli dei più antichi, come la madre Teti. Parole illeggibili ma cantabili.

Come il suo poema ‘l Mal de’fiori. L’immortalità giocata di fronte all’eternità. Ma invertite: l’immortalità quale paralisi, quasi perfezione di fronte all’eternità greca della Natura già leopardianamente e sadianamente indifferente; giustapposta all’eternità beffarda e istantanea del destino che nel canto l’eroe continuamente rinvia.

Achille è l’identico ma rispetto a nulla. È scherzo della natura-destino. Singolarità assoluta che stride con una gloria-battaglia-guerra tutta femminile per lui a cui sfugge il femminile. Ecco allora la cetra, il suono del mare, la tenda, la notte. Immagini femminili, ritornanti, in cui si vela e annulla. Sogno di ritornare nei boschi fanciulli a cui è negato il ritorno. Identico ma singolare. Non ammesse repliche.

Ecco l’eroe; il paralizzato dentro un sogno altrui. Canta sé stesso che non è più. Canta la propria assenza dalla storia. Ma il canto di altrui vuole che continui la recita replicante dell’ “eroe nella storia”. Carmelo solo capisce che la tragedia chiamata Achille sta nella sua perfetta incompletezza e nel non senso della sua esistenza, già scritta.

Per questo il buio è materno e amico, il buio del canto e della maschera greca. Il giorno è disastro, come Von Kleist nella sua Pentesilea evoca. La falsa luce della Storia. Carmelo parla di sé come Achille quale teatro di un cadavere in scena. La vita non sa che farsene della vita. La coscienza o è serva o è coscienza della morte, del morire. Ne servo e né morire vorrebbe Achille. E allora “muore in voce”, “in versi” svanisce nell’ascolto del suo cantare. La fallimentare e vana ricomposizione in forma di donna dei relitti di manichini si rivela il suo contrario: un auto-smembramento.

Dionisiaco sparagmòs. A lui è negata ogni illusione di completamento e riconoscimento. Non può specchiarsi neppure in sé stesso, ma solo nella marina indistinta femminilità materna. Poesia dell’incomprensibile. Senza articolo davanti la voleva. L’eroe quale dio mancato, incompreso.

Eroe in quanto mostro per l’umano e per il divino. Imbarazzante. Rifiutato, escluso, già cantato in vita, come già morto. Nessuno gli sta vicino. Solo il sognare come balbettare con relitti, macerie. E meraviglioso mostro è l’Achille Carmelo, acqueo e aereo. Ne appare l’omerica inattualità e paradossalità, la femminilità musicale dall’Achilleide di Stazio e l’epos autodistruttivo di Von Kleist.

È tutto un grande enjambement, senza partenze senza ritorni o solo ritorni. Ci si riconosce solo nell’uscire di scena. Ma non si può farlo in due. Achille immerso in suoni bambini, di carillon. La musica non vuole crescere. Solo passare. Senza pensare. Gioco del gioco. La scena è l’implodere del sognare sul corpo-maschera, vuoto, escreto.

Estensione dell’incantante dis-incanto del muoversi. L’Identico torna solo nella coscienza della recita a cui ci si vuole sottrarre: la vita.

Il figlio della materia viva, dei boschi, è condannato a desertificare la recita, a portar morte. Poesia è giocare con le proprie mancanze. Lasciarle risuonare. Achille è la mancanza di Briseide, di Deidamia, di Ifigenìa, di Pentesilea, di Polissena, di Elena. Millenni di assenze. Distanze siderali. Achille come mancanza di Teti e Teti che fallisce in Achille. Incontro di mancanze. A nessuno assomiglia o può assomigliare Achille. L’unico che conosce la sua morte, e rispetto al quale ogni altra vita sembra recita.

E infatti il nostro eroe è sempre costretto a mascherarsi: da fanciullo normale, da femmina, da eroe, da fanciullo ritornato tale. Non cresce. Resta sempre negli Inizi. Non ha casa. Non è ad-domesticabile. Solo nella solitaria musica e canto, che è Teti-Mare, trova quella dis-articolazione del corpo che il destino in vita vuole negargli. Chi sopporta la propria singolarità? La propria inscalfibilità?

La condanna del Nome il cui eco precede ogni azione e imprigiona l’atto. In una luce bianca abbagliante, s-materializzante, Achille-Carmelo si accudisce, si fa madre a sé stesso.

Attorno all’eroe strano o il deserto oppure dei suoi doppi. Pentesilea che cade annuncia la sua morte. Non si può sposare sé stessi o un proprio sogno! Achille vorrebbe dimenticarsi, uscir da sé. Ma può farlo, decreta il Fato, solo dentro la recita della storia, che lo disgusta. Credere è cedere, morire. L’ira del Pelide è l’eccesso di spirito di vita. Spreco e lusso. Ira contro la Grecia. Il massimo dello straniamento. Vincere è la propria fine. Pentesilea come il cavaliere inesistente di Calvino. Suoni acuti…sembra Battiato. Squilli e trilli che attraversano l’orecchio e le sue capacità. Nulla da accogliere. Lasciarsi attraversare. Legge il non-testo, legge l’oblio, la Voce.

Flusso d’immediatezza lontana, assente. Ritmo di punteggiatura i silenzi. Il Destino è Donna ma senza volto né corpo che si possa convincere. Altro suo grande merito aver risvegliato l’Achille tutto fuoco in cui la passione brucia come la battaglia e il mondo è camicia stretta, tunica di Nesso. Due meteore non sanno avvicinarsi senza il loro disastro. Solo la verticalità radicale che è Achille può esserne maschera, in quanto vuota, fatale. Ecco: è l’ascolto fatto silenzio della musica.

Eroe è colui che non fugge dal deserto in cui si è capitati.