Frequento le aule giudiziarie ormai da quarant’anni. In questi anni ho visto gradatamente diminuire la fiducia dei cittadini nella giustizia. In questo articolo, per ragioni di spazio e di semplicità, faccio riferimento soltanto alla giustizia civile, ma la situazione non è molto più brillante negli altri settori giudiziari. E le innovazioni tecnologiche, a mio parere, non hanno fatto altro che peggiorare la percezione di inadeguatezza e di precarietà che i cittadini avvertono con riguardo ai nostri apparati giudiziari. Non è intenzione di questo scritto sondare le cause e le responsabilità per il malfunzionamento di questo importante servizio pubblico, anche se credo che le cause vadano ricercate nell’eccessivo formalismo di cui soffre il nostro processo civile. Il risultato è una giustizia lenta, farraginosa e precaria che da un lato scoraggia sempre più i cittadini all’intrapresa della via giudiziaria, dall’altro allontana gli investimenti delle imprese straniere, spaventate dal cattivo funzionamento di un servizio essenziale alla buona riuscita dei rapporti commerciali.
Lasciando da parte i discorsi sui massimi sistemi, troppo complessi da affrontare in questa sede, comincio con il dire che qualche rimedio al cattivo funzionamento della giustizia civile riuscivano a trovarlo, in maniera efficace, gli avvocati di un tempo lontano, i vecchi maestri.
Gli avvocati di una volta, utilizzavano, nell’ambito dell’insegnamento da trasmettere ai praticanti che frequentavano il loro studio per avviarsi alla nobile professione forense (un tempo era tale; oggi non saprei dire se lo sia ancora;), tutta una serie di proverbi, brocardi, adagi e motti professionali tra i quali ricordo quello che dà il titolo al presente post “Nemico in fuga, ponti d’oro”.
Suggerisco ai giovani avvocati di non sottovalutare né la portata, né il significato di questo adagio. Esso si ispira alla tradizione bellica degli antichi condottieri Romani e, intuitivamente, vuole mettere in evidenza l’opportunità di concedere un’agevole via di fuga agli avversari che decidano di ritirarsi dal campo di battaglia, senza più colpo ferire.
Nel corso della mia carriera di avvocato ho avuto modo di constatare quanto l’antico brocardo dei nostri bellicosi (e saggi) antenati, si attagli alla professione forense, nell’ipotesi in cui, coloro che abbiano intrapreso un giudizio, decidano di rinunciare agli atti di causa.
Sia che si tratti di attori (nel senso di colui o coloro che abbiano avviato la causa), sia che si tratti di convenuti (e cioè di colui o di coloro che resistono in giudizio contro gli attori), è bene non frapporre troppe difficoltà alla loro rinuncia agli atti, scegliendo, a nostra volta, di rinunciare a qualcosa, pur di chiudere la controversia (fosse anche in nome di quell’altro adagio che recita “causa conciliata, causa vinta).
I motivi per i quali una parte decide di abbandonare la causa, possono essere molteplici e l’altra parte commetterebbe un madornale errore, a cercare le motivazioni ad essa favorevoli, o peggio ancora, a ritenere che sia stata la paura a suggerire l’abbandono delle posizioni processuali già faticosamente (e costosamente) conquistate.
Ai tanti motivi (stanchezza, paura, amore per la pace, sovraccarico nervoso, mancanza di tempo, eccessiva emotività, ecc.), oggi si aggiunge la durata infinita dei processi che scoraggia non poco i contendenti, non solo a continuare, ma perfino a intraprendere un processo.
Qualunque sia il motivo che spinge la parte ad abbandonare il processo, l’avvocato avveduto incoraggerà la controparte, senza frapporre troppi ostacoli alla sua dipartita.
Tempo fa intrapresi per un caro amico una causa, la cui fondatezza, seppure ineccepibile da un punto di vista sostanziale (e morale) , presentava non poche difficoltà di riuscita processuale , anche per il fatto che il nostro processo soffre, come ho già accennato, di eccessivo formalismo per cui, spesse volte, l’organo giudicante respinge la domanda a causa della erronea scelta del mezzo processuale (a mero titolo di esempio, se uno agisce in giudizio per rivendicare una proprietà con un’azione impropria, rischia di perdere la causa anche se sia effettivamente il proprietario del bene rivendicato).
Insomma il magistrato, alla prima udienza, poiché la collega della controparte aveva eccepito il difetto di legittimità del mio assistito, citando una innovativa interpretazione della Cassazione, ci invitò a comporre la controversia in conciliazione dato che le spese legali sarebbero state poste a carico del soccombente. Il giorno seguente, dopo avere convocato in studio il mio amico, e dopo avergli spiegato che rischiavamo di dovere intraprendere un’altra causa, alla luce di una importante innovazione interpretativa della Cassazione sul tema oggetto del contendere, d’intesa con lui, mandai alla collega una proposta conciliativa con cui proponevo di abbandonare la causa con spese compensate e a carico di chi le avesse anticipate.
La collega, senza neppure rispondermi per iscritto, mi telefonò e, in maniera molto chiara (apertis verbis, dicevano gli antichi), mi disse che al mio assistito sarebbe convenuto pagare un milione di lire (per far capire a chi non abbia conosciuto il vecchio, italico conio, convertiamo con una somma sicuramente superiore ai mille Euro di oggi), anche perché il suo cliente aveva speso dei danari per la costituzione in giudizio e poi ci sarebbero state le note conclusionali a pesare sulla condanna alle spese, inoltre io avevo scelto uno strumento processuale improprio e il giudice aveva parlato per me e non per il suo cliente, e un sacco di chiacchiere, ecc.., ecc...
Il mio amico mi disse che se doveva morire, preferiva morire combattendo. Quindi decidemmo di proseguire. Per farla breve, aveva ragione il mio vecchio dominus, quando diceva di non puntare troppo sulle sentenze della Cassazione, in quanto il giudice delle leggi dice sempre tutto e il contrario di tutto (per esperienza suggerisco di tenere da conto soltanto e soprattutto le sentenze a Sezioni Unite e non quelle delle sezioni semplici della Cassazione).
Nel caso di specie, infatti, la causa l’abbiamo vinta in Cassazione. Il cliente della mia collega ha dovuto pagare le spese di tre gradi del giudizio non solo al mio amico, ma anche a degli ipotetici suoi avvallanti che aveva dovuto e voluto chiamare, nel prosieguo, in giudizio.
Insomma, quel che si dice, una Waterloo vera e propria per la sfortunata collega.
Ma se avesse applicato il vecchio adagio latino, tutto ciò non sarebbe successo, perché io, su quei ponti d’oro, ci sarei transitato al galoppo. E non per paura, ma per una scelta processuale legata a quel particolare momento e che, magari, in un’altra situazione e in un altro stato d’animo, non avrei fatto. perché così è la vita, e così sono i processi (che, in fondo, rispecchiano la vita).
Devo confessare che qualche volta, in certi processi, particolarmente difficili, non ho omesso di rivolgere le mie suppliche ai piani superiori (per esempio a Padre Pio, oggi san Padre Pio) così come mi rivolgevo a San Giovanni Battista La Salle quando avevo qualche classe difficile da governare, nella mia qualità di insegnante di diritto.
Però è altrettanto ovvio che se tu non ti impegni e non studi la causa, non solo per ciò che sembra ma per quello che rappresenta in realtà, senza trascurare il fatto che gli istituti processuali (come probabilmente pensava la mia collega di quella causa), non sono dei compartimenti stagno, ma il sistema processuale è fornito di vasi comunicanti che consentono alle parti (e al magistrato giudicante) di pervenire al risultato (il riconoscimento di una ragione comunque fondata sul diritto vivente e sui titoli fatti valere in causa), attraverso l’attivazione di meccanismi processuali che superino le barriere meramente formali frapposte al riconoscimento del diritto vantato in giudizio, ogni preghiera resterà inascoltata (“Aiutati, che Dio t’aiuta!” dice, a proposito, un altro proverbio).
Ho sempre serbato (e serbo tuttora) un sentimento di gratitudine verso il frate di Pietrelcina (oggi santo) perché io sento dentro di me che Egli, quantomeno, mi ha dato la forza e la speranza di lottare affinché quel mio amico vedesse riconosciuta la sua sostanziale ragione.
Voglio chiudere con un adagio attribuito al filosofo greco Celso “Ius est ars boni et aequi” che possiamo tradurre con “Il diritto è l'arte di quanto è giusto ed equo”.
Applicare un tale concetto potrebbe semplificare e migliorare la qualità dei processi nella nostra traballante giustizia civile. Si tratterebbe infatti di svecchiare le nostre procedure dai vecchi formalismi e introdurre il principio in base al quale il magistrato viene vincolato non più alla legge ma all’equità.
Anche se mi rimane il dubbio che questo principio, di per sé molto efficace e soddisfacente nei sistemi anglosassoni, non funzionerebbe troppo bene qui in Italia.
Resta il fatto però che una soluzione bisogna pur adottarla, per restituire un po’ di credibilità alla giustizia e un po’ di fiducia ai cittadini.