Per ogni guerra in trincea ce n'è un'altra altrettanto spietata ma più subdola. È la guerra di comunicazione e si combatte su tutti i fronti, con ogni mezzo. Dalla notte dei tempi il vero potere è sempre stato quello delle parole, o meglio, delle informazioni. Il "quarto potere" che sfida e controlla il potere stesso, quello che i cittadini danno ai governanti o, in alcuni casi, quello che i governanti stessi si prendono con la forza. Da sempre chi ha controllato la comunicazione ha controllato le masse. Una strategia ancora più intensiva in tempo di guerra, quando le informazioni sono frammentarie, distorte e, allo stesso tempo, indispensabili. Per conoscere la verità e per farsi un'idea di quello che sta succedendo. Per crearsi una coscienza.

È successo durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i regimi totalitaristi hanno avuto a che fare per la prima volta in maniera pervasiva con i mezzi di comunicazione di massa ed hanno violentemente preso possesso degli strumenti per veicolare i loro messaggi, la loro visione della realtà. Una visione, ovviamente, fasulla, distorta e che, per certi versi, ancora oggi resiste in alcune famiglie.

La cultura di una comunità è infatti influenzata tremendamente anche dal modo in cui vengono diffuse le informazioni e gli stimoli che contribuiscono poi a creare le coscienze e i valori, tanto personali quanto familiari. Non sorprende, quindi, che alcuni anziani di oggi che erano giovani nell'epoca del Fascismo, per esempio, abbiano ancora diffidenza verso le persone di colore e, in generale, verso gli stranieri. Per certi versi, si potrebbe dire che non è neanche "colpa loro".

Hanno vissuto una sorta di "crescita culturale indotta" attraverso cui, senza dibattito o contraddittorio, in maniera unidirezionale si sono formati socialmente e intellettualmente. Certamente, non è il caso di generalizzare ma, allo stesso tempo, il famoso "ma il Fascismo ha fatto anche cose buone" è figlio di quell'epoca di distorsione comunicativa. Un'epoca in cui la comunicazione, sostanzialmente, era propaganda.

La psicologa Roberta Milanese, intervistata da Paola Sacchetti per il portale di settore Psicologia Contemporanea, ha sottolineato come la comunicazione di guerra rimandi proprio al concetto di propaganda, ovvero a "quell’insieme di tecniche di comunicazione persuasoria, o sarebbe meglio dire manipolatoria, consapevolmente utilizzate per influenzare l’opinione di popolazioni specifiche".

Durante il Ventennio Fascista, ad esempio, il regime diffondeva le proprie idee attraverso, in particolare, l'EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, antesignano della RAI) che, come voce ufficiale dello Stato, trasmetteva agli italiani un'immagine di Mussolini sempre più leader forte e instancabile lavoratore.

Oltre all'EIAR, però, le immagini delle attività del Fascismo, o dei soldati al fronte, venivano diffuse anche tramite i famosi cinegiornali dell'Istituto Luce proiettati prima dei film in sala, in quell'epoca diffusissimi poiché andare al cinema rappresentava ancora una delle poche occasioni diffuse di svago e quindi raccoglieva in poco tempo un gran numero di persone nello stesso luogo.

Per non dimenticare, poi, la stessa categoria dei giornalisti. Se è vero che durante il Ventennio si vide la prima forma dell'Albo dei Giornalisti, è altrettanto vero che in quel periodo ogni giornalista era sottoposto a un forte controllo e doveva, nella pratica, indirizzare il proprio lavoro in favore del regime. Mussolini stesso sapeva bene quanto fosse importante la carta stampata, essendo stato lui stesso direttore di un giornale.

La comunicazione di guerra, tuttavia, è cambiata notevolmente negli ultimi anni e a sottolinearlo è ancora una volta la dottoressa Milanese. Nella Prima guerra mondiale - dice - il protagonista è stato il cinema, nella Seconda guerra mondiale è stata la radio, mentre durante la guerra del Vietnam per la prima volta è entrata in gioco prepotentemente la televisione. Oggi, con la guerra in Ucraina e con le violenze nella Striscia di Gaza, le immagini sono state diffuse soprattutto grazie ad internet e ai social network. A portata di smartphone, sul proprio palmo della mano, tutti potevano vedere quasi in tempo reale bombe che cadevano, corpi dilaniati e bambini in lacrime. Senza filtri e senza tempo di attesa.

Ma oggi, soprattutto, è ancora più evidente come i giornalisti siano tornati ad essere in molti casi strumenti di informazione da eliminare, alla pari di battaglioni di soldati e pezzi di artiglieria. Basti pensare che nei due anni di sangue a Gaza sono stati uccisi, secondo Reporter Senza Frontiere, circa 210 operatori dell'informazione.

In patria, invece, il governo di Netanyahu ha avviato quella che è definita hasbara, ovvero "spiegazione". Si tratta di una massiccia campagna di informazione con la quale Israele sta tentando di mostrare all'interno e all'esterno il proprio punto di vista su Gaza screditando giornalisti, associazioni e chiunque la accusi di genocidio e di crimini di guerra. Un sistema che si alimenta di video, foto, articoli di giornale ma anche di milioni e milioni spesi in pubblicità attraverso i motori di ricerca e i social. Uscire prima di tutti, uscire ovunque, essere dappertutto.

E così Israele riesce a diffondere teorie inverosimili, come quella che non c'è carestia a Gaza, che i terroristi si nascondono negli ospedali, che i giornalisti sono al soldo di Hamas, che i dipendenti delle agenzie governative sono al soldo di Hamas.

Un'immensa macchina della comunicazione che, secondo quanto ricostruito da Avvenire, comprenderebbe: un dipartimento delle Forze armate che ricostruisce il legame diretto di ogni giornalista ucciso con Hamas, un gruppo di influencer ai quali è stato consentito l’ingresso ai siti di distribuzione del cibo, conferenze stampa di Netanyahu che coinvolgono esclusivamente giornalisti stranieri, investimenti da decine di milioni di dollari per le sponsorizzate, un’Agenzia di pubblicità del governo che riferisce direttamente all’ufficio del premier.

Gestendo abilmente la tecnologia digitale, Israele sta plasmando una nuova società che rischia di crescere nell'odio, nel risentimento e nel rifiuto della realtà. Ma, ancor di più, Gaza ha dimostrato che con il boom dei social e dei sistemi di telecomunicazione, ad essere davvero in pericolo è il dibattito. Stiamo assistendo a una sorta di "polarizzazione del pensiero" che impone a tutti di essere "con o contro".

Una fase di stagnazione che ci deve far interrogare: i social hanno davvero aumentato la possibilità di comunicare e diffondere informazioni e conoscenze? Gli utenti hanno davvero opzioni concrete di poter creare una propria ed autonoma coscienza? Possono davvero costruirsi una visione sullo stato dei fatti? La risposta, probabilmente e tristemente, è no.

image host Stand pro-Israele.

In questi due anni di quello che lo stesso ONU ha definito "genocidio", tantissimi artisti si sono esposti contro le violenze perpetrate a Gaza, eppure moltissimi sono stati i messaggi di odio. C'era chi non credeva a quello che vedeva, chi invece gli faceva notare che non dovevano interessarsi di politica. Personalità come Clementino, Ambra Angiolini, Gigi D'Alessio, Nino D'Angelo, ma anche Anna Foglietta e Alessandro Gassman.

Tutti artisti che hanno lanciato forti messaggi contro le azioni di Israele e che non sono stati risparmiati dalle critiche. Insomma, nonostante un'ampia diffusione di notizie, le persone sembrano ancora non riconoscere riferimenti comunicativi di cui potersi fidare. Eppure, probabilmente, sono proprio questi artisti che conservano tutt'oggi un forte potere comunicativo e che hanno quindi tutto il diritto di uscire dalla loro area artistica e partecipare alla formazione dell'opinione pubblica.

Non si tratta semplicemente di essere fascisti o antifascisti, di essere pro o contro. La questione è molto più delicata. Nel 2025 stiamo assistendo alla graduale scomparsa del pensiero critico. O è bianco o è nero. È arrivato il momento di dare un po' di colore, di confrontarsi senza paura e senza pregiudizio. Ne va della sopravvivenza culturale di questa società e della crescita di quella futura che dovrà ereditare un mondo nuovo e, allo stesso tempo, profondamente ferito.