Più di trent’anni fa mi sono imbattuto in uno spettacolo. Era parte di un festival di letteratura irlandese che si teneva al Teatro Trianon di Roma, ora gloriosamente trasformato in una sala bingo. Faith Healer, il Guaritore nella traduzione italiana, il titolo dalla pièce di Brian Friel, un maestro della scrittura scenica morto nel 2015. Rimasi fulminato dalla performance di Gianfranco Varetto nel ruolo di Frank Malone, il guaritore girovago intorno a cui ruotano due personaggi fondamentali per le dinamiche dei loro rapporti: Grace, la sua amante e Teddy, il suo impresario.
Varetto aveva la statura e il misterio del dono divino ricevuto da Frank, un dono su cui non ha alcun controllo perché il suo potere è volubile, funziona con un’intermittenza, una volta su dieci negli ultimi tempi, e lo mette in ginocchio, lo umilia, lo fa impazzire trascinandolo nella dipendenza dal whisky.
Il testo di Friel è diventato una vera ossessione per me. Anche dopo averlo assorbito e rimesso in scena sto ancora a chiedermi perché. Forse per le domande che tormentano Frank e l’imprevedibile finale che lo attende. Quel dono, quel potere a che cosa è dovuto? Al caso, alla sua abilità, è solo un’illusione, un inganno che si perpetua? Eppure quando funziona, e a volte funziona davvero, quando è in piedi davanti a un uomo e gli impone le mani e lo vede guarire davanti a sé, quelle sono notti di trionfo, di celebrazione eucaristica. Non perché fa del bene, allevia la sofferenza, diffonde gioia, no, niente di tutto questo, ma perché le domande che lo perseguitano diventano insignificanti e perché per poche ore torna ad esser tutto sé stesso, integro in un certo senso, un aristocratico, se la parola non vi offende.
Ecco, ho citato quasi letteralmente il testo; e se a questo punto siete ancora qui a leggere è per lo stesso motivo che mi tiene agganciato a quest’opera.
Frank ha il sarcasmo proprio degli alcolisti, ma è dotato di un’intelligenza chirurgica: esamina le cose del mondo riducendole all’osso, senza mai commiserarsi, né tanto meno sperare; è esatto nel suo disincanto e feroce con la sua vanità, se per caso gli capita di ricordarsi che una volta è stato giovane. Non smette di scivolare e toccare il fondo, dove immancabilmente incontra lo stesso dubbio: “sono solo un ciarlatano?” Qual è il suo vero potere, si domanda, è in grado di gestirlo, quando e come, è solo uno strumento? Consiste forse nella sua capacità d’indurre gli altri ad avere fede in lui, o evoca in loro un potere taumaturgico che già possiedono? E può guarire senza la fede? Ma la fede in che cosa? In lui, nella possibilità? Fede nella fede?
Un medico osteopata da cui mi curo perché possiede mani miracolose, è venuto a trovarmi in camerino dopo lo spettacolo e mi ha confessato che ogni mattina quando entra nel suo studio si fa le stesse domande. Sono stato colpito dalla sua onestà. Mi sono chiesto quanti medici si coinvolgono in simili interrogativi, ammesso che ne abbiano il tempo.
Certo, sono sostenuti da lunghi anni di studio, di pratica e il loro approccio si basa sulla scienza, ma non si può escludere che in casi particolari, messi con le spalle al muro, con le dita che hanno un tremito prima che il bisturi incida, si trovino a implorare Dio perché guidi la loro mano.
Frank non ha quegli strumenti, appartiene alla categoria di chi cura con modi non scientificamente riconosciuti, perciò se ne sta accartocciato nel furgone guidato da Teddy, il suo amico impresario, con una bottiglia di whisky tra le gambe. Magari non ha mangiato da giorni, nonostante la cura e la dedizione che gli riserva Grace, così ha tutto il tempo per arrovellarsi sui suoi dubbi. Siamo negli anni sessanta, il mondo non va ancora così veloce. Il loro furgone percorre stradine strette e tortuose da un villaggio all’altro della Scozia e del Galles, e quei viaggi durano a lungo prima che loro arrivino a mettere in piedi lo spettacolo.
Lo striscione con l’annuncio, “il Fantastico Frank Malone, Guaritore. Solo per questa sera”, le sedie e le panche in uno degli spazi che Teddy prende abitualmente in affitto, chiese, scuole, sale di riunione: locali freddi, squallidi dove capita che debbano perfino spazzare il pavimento. Intanto Grace prepara il tè sulla stufa a petrolio e si siede davanti a un tavolo, messo davanti all’entrata per le offerte, offerte libere per ingraziarsi il guaritore. Accoglie le rare persone che verso sera si avventurano lì dentro, tese e silenziose, in attesa del miracolo. Quando sono tutti seduti, ed è una fortuna se ce ne sono una mezza dozzina, tanto per dare l’idea, Teddy prende il microfono e tranquillizza i convenuti, con la raccomandazione che si rilassino e che abbiano fiducia.
Non serve che dicano a Frank di che malattia soffrono, Frank lo sa già, si mettano nelle sue mani e che Dio li benedica tutti. Infine, con l’enfasi dell’uomo di spettacolo, annuncia Frank Malone, il guaritore! La serata ha inizio. Teddy va a mettere su il disco, una versione logora e gracchiante di: The way you look tonight, cantata da Fred Astaire, e Frank fa il suo ingresso nella sala. Si muove da una sedia all’altra, impone le mani sugli storpi, sui deformi, sfiora i ciechi, i sordi, le donne sterili, acquisendo un’aura di grandiosità, come la ricorda Grace. Risorge dalle proprie ceneri e diventa un eroe a metà tra lo sciamano e il guitto, tra sacro e l’avanspettacolo, tra il solenne e l’assurdo.
Eppure, racconta Teddy, una notte, in una vecchia chiesa metodista del Galles, Frank, seppure mezzo ubriaco, ha guarito in una sola volta dieci persone: tutte sane di nuovo. Un miracolo avvenuto senza ovazioni, senza salti per aria, dove non si è quasi parlato, perché non solo li ha guariti da ciò che non andava, ma è come se li avesse dotati di una grande fiducia in sé stessi.
È qui la chiave del testo ed ecco perché la vita è davvero misteriosa.
La sintesi di cui solo il teatro è capace ha prodotto un esempio impareggiabile della sua funzione: mettere l’umanità di fronte ai propri rituali per sviscerarli fino in fondo. In questa immagine rarefatta e a suo modo gloriosa, si possono rivedere figure di guru indiani approdati in occidente, di sensitivi in grado di alleviare il dolore, di logorroici predicatori americani, di maestri truffaldini e plagiatori, perché il potere è un veleno a cui l’umano non riesce a trovare antidoti, specie se confuso con la manipolazione dei “fedeli”. Per non contare le moltitudini in attesa del miracolo schierate nei luoghi di culto. E per restare nell’assurdo che sempre irride le nostre illusioni, mi viene in mente la scena di un film, Man on the Moon, di Milos Forman.
Lì il protagonista, il comico Andy Kaufman, interpretato da Jim Carrey, vola nelle Filippine per giocarsi l’ultima carta, estirpare il cancro che lo sta uccidendo. In una scena memorabile che termina col suo sorriso acido scopre che il male che gli è stato estratto dal petto è solo una spugnetta intrisa di sangue finto. Ma stiamo scivolando nel fideismo, nel fattore demenziale che spinge il bisogno oltre ogni ragionevole possibilità.
Per preparare il ruolo di Frank Malone, ho cercato storie di personaggi che appartengono all’orbita dell’integrità morale, più vicina al testo di Brian Friel.
Bruno GrÖning, per citarne uno, un guaritore che nel 1949, in Germania, definirono “il dottore dei miracoli”, capace di attrarre ogni giorno migliaia di persone a causa delle guarigioni che gli venivano attribuite e poi testimoniate da chi le aveva viste o direttamente ricevute. Le sue capacità vennero testate dalla scienza nella clinica universitaria di Heidelberg. Furono constatati gli effetti di guarigioni sensazionali, il caso Strobel su tutti, e agli scienziati fu chiaro che GrÖning non era un ciarlatano né un ipnotizzatore, ma uno psicoterapeuta di altissimo livello, senza titolo.
Il punto fondamentale del suo rapporto con i malati poggiava su una frase apparentemente facile da comprendere e ormai inflazionata e destituita di senso per manifesta incapacità di ascolto da parte nostra: “ascoltare il proprio corpo”. Come succede spesso a figure che esulano dai territori gestiti dalla medicina ufficiale, che i suoi meriti ce li ha di sicuro, ma che in ogni epoca ha aspirato con ogni mezzo, lecito o meno, al monopolio della salute, GrÖning fu accusato di esercizio improprio della medicina e più volte assolto, fino a un processo durato diversi anni interrotto a causa della sua morte a Parigi, nel 1959. Mi colpisce soprattutto che abbia sempre ripetuto che non era lui che guariva, ma Dio, “il più grande medico”.
Indipendentemente dall’interpretazione di questa ancestrale parola coniata da noi, che in fondo siamo onde, vibrazioni di materia che ci rivela e ci nasconde allo stesso tempo, credo che le ultime parole di Frank Malone, prima di andare incontro ai suoi carnefici e finalmente rinnegare il caso, siano la giusta sintesi, la trasfigurazione di un dono in Arte.
…E quel presagio cedette il passo a una sensazione più forte, che noi avessimo cessato di essere reali e ormai esistessimo solo nello Spirito, nel bisogno che avevamo gli uni degli altri.