Anni fa, Peter Brook, uno dei massimi registi dell’Arte Scenica, un autentico ricercatore delle fonti, venne invitato all’Università di Roma. Non faccio la lista dei suoi crediti, ma ne voglio sottolineare uno che mi riguarda.
Ero molto giovane e dopo aver visto la sua regia di Ubu Roi, da Alfred Jarry, al teatro la Piramide di Roma (purtroppo non esiste più), decisi che avrei cercato di “fare teatro” ad ogni costo. Insomma, quello spettacolo ha orientato una mia scelta di vita e gliene sono riconoscente, malgrado i costi.
Bene, torniamo nell’aula magna della Sapienza carica di atmosfera, curiosità, fervore. Di quella rara occasione mi è rimasta scolpita nella mente una distinzione che Brook fece a proposito degli spettacoli; e io ci aggiungo di mio, anche dei film, perché no?
Secondo lui esistono spettacoli “neutri”, che alla fine lasciano lo spettatore nelle stesse condizioni in cui è entrato. Nulla è cambiato, minestrina riscaldata. Poi ci sono gli spettacoli “negativi”, quelli in cui lo spettatore viene aggredito e violentato dall’ego nevrastenico del regista. In tal caso, si esce con lo stomaco in frantumi, una generale sensazione di malessere e di sicuro si rimpiange il prezzo del biglietto. Infine, ecco gli spettacoli “positivi”, quelli più rari, capaci di ispirare lo spettatore, di cambiare la sua energia, raffinarla per così dire, incoraggiando il suo spirito e il suo senso della vita. Mi ci ritrovo perfettamente e ogni ulteriore distinzione mi sembra superflua.
Megalopolis, del maestro Francis Coppola a cui saremo eternamente grati per la summa della sua opera, è una scommessa azzardata, in perfetto stile con il suo percorso artistico, un’esplorazione estrema di effetti speciali per descrivere una visione metastorica del potere che va da Roma a Trump. Senza mancare di rispetto a questa ricerca, dal risultato estetico spesso strabiliante, è come stare al tavolo del poker con una coppia di otto e credere in assoluta buona fede di avere in mano un full. Non c’è inganno, è la macchina promozionale, necessaria ad ogni prodotto dell’industria, a presentarcelo così. Se il bilancio economico della scommessa fa tremare i polsi, e se addirittura si è investito il proprio denaro per realizzarla, dobbiamo anche metterci nei panni del regista e comprenderlo.
La storia di Souleymane, al contrario, è un piccolo film necessario, coglie la realtà nelle sue complesse sfumature, aiuta la comprensione di un fenomeno, rimuove gli strati dell’indifferenza e del pregiudizio, rivela la bellezza di un’anima, quindi la riverbera in noi e ci commuove. Usciamo dal cinema con una carica vitale aumentata. La nostra batteria interna può gioire: ha ragione Peter Brook.
Il regista del film, Boris Lojkine, riprende a suo modo la poetica del neorealismo, creando un linguaggio adeguato all’incessante movimento in bicicletta del protagonista. Souleymane è originario della Guinea e consegna i pasti su ordinazione da un capo all’altro di Parigi. Quasi mai ha il tempo per interagire con le persone che gli aprono la porta, quando gliela aprono, e assai di rado gli lasciano una mancia. Monta e smonta dalla bicicletta senza compiangersi, sa qual è il suo obiettivo. Anche se avrebbe voglia di stare allo scherzo di qualche fratello nero incontrato in giro per la città e di perdersi un po’ in chiacchiere, non può permettersi deroghe, ma tira dritto, una consegna dopo l’altra fino a tarda sera.
È quando scocca l’ora fatale e bisogna raggiungere la fermata del bus in tempo, se no, ti arrangi e devi dormire per strada. Se ti sei ricordato di chiamare e prenotare il tuo posto, quel bus notturno porta gli immigrati come te oltre la banlieu, in un dormitorio dignitoso, con letti a castello, bagni e docce. Un esempio della propensione francese a non rinnegare i pur sbiaditi tre motti della propria bandiera, che però dalle nostre parti fanno ancora fatica a tradurre.
Per poter lavorare, Souleymane utilizza, o meglio affitta provvisoriamente, l’account di un altro immigrato che ha fatto carriera e ora gestisce un negozietto di alimentari. Ma a causa del virus della scalata sociale, un virus che s’insinua in fretta e disconosce ogni fratellanza, proprio da lui viene tradito quando ha più bisogno della sua paga per il lavoro svolto. Soldi che occorrono per avere i documenti necessari quando andrà al colloquio decisivo per il permesso di lavoro. In quella sede dovrà raccontare una storia falsa, ma credibile per il funzionario che lo esaminerà, che lo interrogherà con domande a trabocchetto per capire se ci sta marciando.
La storia di presunto rifugiato politico, un appeal che dà maggiori chance di successo, gliela fornisce un altro africano come lui, un anziano che sa come vanno le cose negli uffici dell’immigrazione. Naturalmente si fa pagare per il copione, oltre a pretendere di fornirgli un aiuto e tenere a posto la propria coscienza. Solo che quel copione gira da un po’ e lo hanno recitato male altri soggetti a rischio di espulsione come Souleymane, anche lui attore balbettante, che ripete le battute mentre svicola nel traffico sotto la pioggia, senza che riescano proprio a entragli in testa.
È la storia di un provino da superare, non Flashdance con la prospettiva del successo e nemmeno Reservoir Dogs, con l’intento d’infiltrarsi in una gang. Per Souleymane si tratta di poter lavorare con il proprio account, come un pendolo in bicicletta, ottenere una certificazione di schiavitù a pedali dalla repubblica francese. Un lavoro duro, ma onorevole, che non lo costringa alla clandestinità. Partire dal gradino più basso legalmente riconosciuto per risalire la corrente, puntando soltanto sulla forza del proprio corpo, sull’ostinazione e la pazienza che i suoi geni africani gli hanno tramandato.
Questa consapevolezza diventa dolorosa solo quando videochiama la sua ragazza rimasta in Guinea, sapendo di non poterle offrire quello che un nuovo pretendente, niente di meno che un ingegnere, le promette se accetterà di sposarlo. Lui può forse competere con quel buon partito, e con quali prospettive? Anche nell’amore bisogna rassegnarsi alla legge della migliore offerta. Gli resta solo quell’esame da superare, quella storia piena di buchi, di dettagli che mancano all’appello quando le domande della puntigliosa funzionaria francese si fanno più stringenti. Davanti a lei crollano le impalcature di una falsa identità, e la vera storia di Souleymane diventa un proiettile che ci arriva dritto in fronte. Basterebbe a rendere superfluo molto cinema dei nostri giorni.
Presentato a Cannes 2024 nella sezione Un certain regard, il film ha vinto il premio della giuria e il premio per il miglior attore a Abou Sangare, un non professionista che di mestiere in Guinea faceva il meccanico e chissà, forse tornerà a farlo di nuovo. Il suo volto è in primo piano dall’inizio alla fine e rivela ogni dettaglio del suo silenzioso calvario; mentre il regista, con una troupe ridotta al minimo, s’inventa il modo di seguirlo, in sella alla sua bicicletta nel flusso della città, chiedendo miracoli al fonico della presa diretta.
Anche John Cassavetes sarebbe andato matto per questo piccolo gioiello di cinema indipendente. La sua parabola non ha solo a che fare con la realtà che si cela dietro il mondo dell’immigrazione nelle città europee, potrebbe benissimo essere il secondo capitolo di Io Capitano, di Matteo Garrone; ma in fondo riguarda tutti noi che navighiamo in un mare di storie false. Diamo un’occhiata a quello che circola sui social, o sui cascami della televisione, dove la caccia all’intervista sembra febbrilmente votata a costruire un’immagine di sé, a raccontarsi secondo canoni di apprezzamento da verificare all’istante con like e indici di ascolto.
Non siamo lontani dalla menzogna che Souleymane è costretto a mettere in scena per essere accettato al più basso livello sociale. Anche quelli a cui porta i pasti ordinati al telefono, quelli che anche di sera lo aspettano a casa davanti allo schermo di un computer o di un cellulare e si sforzano di consolidare storie false, versioni di sé che siano all’altezza della richiesta. Per assurdo, a differenza di Souleymane ancora ben saldo nella sua identità, sono quelli che faticano sempre di più a sapere qual è la loro vera storia, a risalire ad una parvenza di intima verità.
Ha lavorato con troupe piccole, molto al di sotto di quello che è lo standard comune perfino per una squadra ridotta. In questo caso composta da cinque o sei persone, a volte addirittura tre, tutti in bici dietro ad Abou Sangare: il tecnico del suono ha dovuto inventarsi delle nuove modalità di lavoro adatte a uno spostamento veloce in bicicletta.
Ma in qualche modo il lavoro del regista francese è anche un modo per rilanciare in maniera del tutto personale la lezione etica del cinema neorealista, senza pretendere di esserne la copia o di scimmiottarlo con opere di maniera. È importante se si tiene presente che il cinema d’autore occidentale, in particolare francese, si sta imborghesendo. Qui la bicicletta rubata, o che manca, in effetti non è la cosa più importante. Lo è, invece, arrivare all’incontro per un permesso di soggiorno e saper dire la verità: due orizzonti fragili che sono uno solo.
Quello di Boris Lojkine è un concentrato densissimo di microcosmo.
Ma prima di tutto è un volto, quello di Abou Sangare. Così si chiama l’attore non professionista – davvero eccezionale e che speriamo di ritrovare in futuro – che porta il film letteralmente sulle spalle, come una sorta di laica via crucis di un’umanità eternamente sospesa.