Mi ero riproposto un gesto “militante” che fosse in linea con il disagio emotivo e intellettuale che gravita sulle nostre teste, che lo si voglia o no, che lo si percepisca o no, mentre assistiamo nella più totale impotenza a quanto sta accadendo a Gaza.
Bastavano le poche note che corredano il film a suscitare la voglia di conoscere meglio, certo in forma sintetica e rielaborata, le circostanze date che stanno alla base della “striscia” di orrore e di vergogna che siamo costretti a testimoniare.
Perciò non darò alcuna valutazione personale del risultato, perché non avrebbe la minima importanza, ma voglio solo soffermarmi su alcuni elementi che hanno giocato un ruolo importante e mi hanno offerto l’occasione di un confronto con la mia coscienza.
Credo addirittura che in questo caso specifico sia l’unica vera forma di militanza che si possa attuare, prima di qualunque scelta nel campo dell’azione. E in qualche modo è la mia proposta, esaminare le circostanze e mettersi al centro del problema.
Si parte dal 1948 per arrivare al 2022, e questo dice già qualcosa di significativo. Manca il bilancio finale, l’exploit sterminatorio degli ultimi tre anni, la carneficina, la punta dell’iceberg, l’ultimo atto di un conflitto senza più regole.
Già, “quali regole?” è la prima domanda che andrebbe posta. E le occupazioni delle terre, gli espropri violenti, le mattanze d’occasione, inclusa quella del 7 ottobre per una par condicio intrisa nel sangue, rientrano in quali regole? Vogliamo aggiungere che l’opportunismo politico è una postilla che quando serve, e qui è servita eccome, aggiusta le regole a favore di una parvenza di decoro, insomma, una scusa incartata bene per non perdere la faccia. Quindi, di che cosa stiamo parlando?
Via le regole, che tanto non sono mai esistite nella guerra, uno sforzo ben organizzato per definizione e talvolta sistematico per sopraffare e sottomettere il nemico. Andiamo all’osso, anzi, al cuore. Si tratta del cuore e di altri organi appartenuti a un giovane palestinese colpito a morte per caso in una protesta contro l’esercito israeliano durante l’Intifada del 1988.
I genitori di questo ragazzo sanno che cosa si è accumulato in quel cuore fin da quando era un bambino. Ci sono delle stimmate di paura e di vergogna per quanto è accaduto alla sua infanzia e c’è un episodio in particolare che lo ha ferito: assistere all’umiliazione di suo padre davanti a una pattuglia israeliana preposta al coprifuoco in un villaggio.
Un affronto che ha cambiato radicalmente il suo atteggiamento verso il padre, costretto dai militari a dire ad alta voce cose che di certo non pensa: che sua moglie è una puttana e lui un coglione, frasi che ha dovuto urlare ad alta voce pur di evitare il peggio a sé e al figlio e potersene tornare a casa. Per il ragazzino è una sconfitta irreparabile, il segnale della vigliaccheria di colui che fino a quel momento era il suo mito. Assistere alla prova certa di che cosa significhi essere sottomessi non lo porta ad elaborare la scelta paterna, a giustificarla vista la sproporzione delle forze in quel momento, ma produce un cortocircuito emotivo da cui non sa più uscire.
Si chiude in sé stesso, mangia poco, parla ancora meno. E non ci sta. Rinnega il padre e tutti quelli che accettano lo status quo senza ribellarsi. Cresce nell’odio e nella sete di rivalsa. È pronto per il passo successivo, si prepara a diventare un ribelle alla regola dell’oppressione, cioè quello che nel linguaggio mediatico viene definito un terrorista senza fare troppe distinzioni.
Solo che una pallottola lo centra sulla fronte durante una manifestazione e interrompe quel percorso obbligato. Adesso, dopo la morte cerebrale, resta soltanto il suo corpo.
Va detto che nel 1988, anno in cui si svolgono i fatti, i genitori tentano di tutto per salvarlo, inclusa una corsa disperata all’ospedale di Haifa, un ospedale israeliano equipaggiato per la complicata operazione al cervello, a cui hanno accesso grazie a dei permessi speciali che all’epoca erano ancora possibili da ottenere.
Oggi, come ben sappiamo dalle immagini e dai notiziari, anche gli ospedali della Striscia vengono bombardati. Altre regole che vanno in fumo lasciando sul terreno solo corpi martoriati, anche qui senza troppe distinzioni. Numeri giornalieri che escono dal pallottoliere impazzito di un governo che si definisce democratico, anche se ha polverizzato tutte le residue regole del diritto internazionale, il retaggio archeologico di una specie umana scomparsa.
Davanti al corpo del proprio figlio, il padre e la madre devono rispondere a una domanda che una funzionaria dell’ospedale ha il dovere di rivolgergli: se la sentono di donare gli organi? Un quesito che inizialmente non viene neanche preso in considerazione dal padre. Un quesito che investe almeno quaranta anni della loro storia, da quando nel 1948 il nonno, suo padre all’epoca, fu costretto ad abbandonare la casa di Jaffa, subire l’esproprio del magnifico aranceto di cui andava fiero e diventare un esule in un campo profughi.
Mi sorprende ancora una volta la capacità di adattamento di chi viene umiliato e costretto a obbedire con la violenza. Quante cellule cerebrali si spengono per anestetizzare la vergogna e il dolore? Intanto gli anni si sfilano dalle vite, dal nonno al padre, dal padre al figlio. Dunque è in questo clima che è cresciuto il ragazzo ferito a morte. Ora i suoi organi sono appetiti da altre vite. E bisogna scegliere se donarli. L’unica condizione posta, anche forzando le disposizioni in atto, è che i beneficiari sappiano da chi proviene il cuore.
Faccio un piccolo inciso. La regista Cherien Dabis, che ha anche scritto, prodotto e interpretato il film, è una palestinese nata in America. Forse, ed è una mia ipotesi, la memoria del magnifico, 21 Grammi, di Gonzales Inarritu, l’ha ispirata a trasferire la problematica di quel film sulla sua terra d’origine, ampliando la metafora allo scontro con lo Stato di Israele.
Per questo, dopo una travagliata decisione, quel cuore di ragazzo palestinese finisce nel petto di un glabro adolescente israeliano. Quando i genitori del donatore vanno a trovare la sua famiglia, per vedere con i loro occhi in quale essere umano batte il cuore del figlio, tra silenzi e imbarazzi ovattati da un caffè e da un’offerta di biscotti, il giovane risanato non spiccica una parola. Forse è solo preda dell’atmosfera intossicata dal disagio, forse non sa di dover della riconoscenza a quei due intrusi, visto che è grazie a loro se può stare in piedi a fissarli con uno sguardo senza espressione. Forse ignora tutto, e semplicemente avrebbe preferito che quei due estranei non fossero mai entrati a casa sua.
E arriviamo all’ultimo atto. Passano altri anni e stavolta è solo la madre del ragazzo morto che decide d’incontrare l’uomo, ora un ebreo adulto, che ha ricevuto il cuore di suo figlio. Un cuore che ancora batte. La donna vuole sapere se lui si rende conto di vivere grazie al cuore di un palestinese, se questa consapevolezza ha un effetto su di lui. L’uomo tergiversa, non era espressivo da adolescente e tale è rimasto. Al massimo riesce a schermirsi, a dire che in fondo un cuore è solo un cuore, insomma un pezzo di ricambio che gli serviva per rimettere in sesto il suo motore. Che sarebbero questi sentimentalismi? Allora la madre del ragazzo, finalmente con fermezza, gli ricorda che il cuore che ha nel petto è un cuore buono, ed è una responsabilità che non deve dimenticare.
Ecco, ho scelto di percorrere alcuni passi del film, perché le domande che contiene valgono la pena di un esame attento. Il resto è un corredo confezionato con le migliori intenzioni, ma certo impallidisce di fronte alle sequenze di vita, di sopravvivenza, di fuga e di morte che deflagrano nella nostra realtà sonnambolica, ammorbidita dal privilegio e di certo disconnessa dalla tensione della guerra in atto.
Qui non respiriamo insieme a La Voce di Hind Rajab, non siamo devastati dall’orrore che incombe su una bambina di sei anni e sull’infanzia di un intero popolo, non tocchiamo con mano la nostra impotenza. Possiamo accompagnare i personaggi e riflettere sulle loro condizioni, sulle decisioni prese per sopravvivere nell’arco di quasi ottanta anni. C’è ancora una distanza dall’atmosfera claustrofobica e infernale che si è scatenata dal 2022 a oggi.
È una scrittura costruita per risvegliare alla coscienza lo stato delle cose, le basilari questioni che sono in gioco su quella striscia di terra dove, a poche decine di metri dal corteo dei disperati in cerca di una negata salvezza, c’è il mare. Il paradosso di un’immagine lancinante. Quel miracolo di pace azzurra increspata dalle onde osserva il serpente di facce annerite dal fumo e dalla paura che si snoda lungo una strada di polvere in cui, ogni tanto, è possibile cogliere la luce del volto di un bambino. C’è ancora quella luce, malgrado tutto.
Se è rimasto del tempo, dovremmo fare qualcosa perché Erode non riesca a trovarlo e a sopprimerlo, altrimenti il buio calerà anche su tutti noi.














