Non auguro a nessuno di trovarsi nella situazione in cui si è trovato questo padre: scegliere se salvare la moglie o il figlio tredicenne che affogavano entrambi sotto i suoi occhi, in un fiume della Nuova Zelanda del Nord!

A proposito di questa terribile notizia di cronaca, alcuni criticarono la scelta del padre di aver salvato la moglie! Come se uno, in simili frangenti, possa pianificare una scelta così lacerante!

Che terribile alternativa: salvare la moglie oppure il figlio? Condannare a morte il figlio oppure la moglie? Molti di noi, ne sono certo, preferirebbero morire, piuttosto che trovarsi in una tale condizione!

La notizia mi ha riportato alla mente alcuni ricordi giovanili.

Una delle prime lezioni cui presi parte, fresca matricola della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, negli ormai lontani anni ’70 del secolo scorso, fu quella di Teoria Generale del Diritto. Ricordo abbastanza bene il professore: aveva un linguaggio accattivante; in tre quarti d’ora di lezione si fumava quattro, a volte cinque sigarette; praticamente le parole che gli uscivano dalla bocca sembravano galleggiare nelle nuvole di fumo, e come segnali indiani arrivavano sino a noi.

All’epoca, come tanti, non capivo che il fumo è un veleno mortale; al contrario, il fumo della sigaretta, insieme al mio desiderio di apprendere, aumentava il fascino di quelle indimenticabili lezioni.

Ricordo anche due brevi seminari che ci fece fare il professore di quella affascinante materia: uno si intitolava “Aut, aut” e l’altro “Quasi tutor”. Entrambi i seminari erano tesi a evidenziare le discrasie spesso esistenti tra diritto e morale e venivano dal professore sottoposti agli studenti sotto forma di racconto.

Il primo narrava la truculenta vicenda di alcuni sopravvissuti a un disastro aereo che per sopravvivere, ormai allo stremo delle forze, decisero di uccidere alcuni compagni di sventura per cibarsi delle loro carni (Aut vitam, aut mortem, era l’alternativa, espressa ambiguamente nella formula del titolo).

Il secondo riguardava una vicenda dove uno zio, privato in testamento della tutela per indegnità implicita, riusciva, con uno stratagemma, a riproporsi come curatore speciale di un pupillo (quasi tutor, per l’appunto, nella formula latina). Il racconto del professore, su cui noi studenti ci saremmo dovuti esercitare era questo.

Un facoltoso uomo d’affari, trovandosi ammalato ed impossibilitato a gestire il suo patrimonio, fece una procura ad un fratello, ben addentro negli affari suoi, in quanto socio nella medesima società (seppure minoritario) e coadiuvante in un’altra ditta individuale.

Purtroppo la malattia non gli lasciava speranze di lunga vita ma l’uomo, ripresosi miracolosamente (anche se solo momentaneamente) si accorse che il fratello aveva distratto delle somme dal conto corrente bancario per avviarsi un’attività imprenditoriale in proprio. Il fratello minore si giustificò dicendo che quei soldi lui voleva restituirli e che se egli non fosse stato in coma, sicuramente gli avrebbe chiesto il permesso preventivo. Il facoltoso imprenditore non fu molto convinto di questa spiegazione e, sapendo di avere ormai i giorni contati, fece testamento.

Essendo vedovo e avendo un solo figlio in tenera età, come è ovvio, lasciò tutti i suoi beni al figlio; ma invece di nominare tutore e amministratore il fratello infedele, nominò esplicitamente amministratrice del suo patrimonio (sino al compimento della maggiore età di suo figlio), una sorella, anche se teoricamente la persona più indicata a gestire le quote societarie e quant’altro sarebbe stato proprio il fratello infedele (molto addentro nella ditta in cui coadiuvava il fratello moribondo e socio minoritario nell’altra).

Ebbene, tanto fece e tanto disse questo fratello infedele, che con uno stratagemma riuscì a farsi assegnare dal Giudice Tutelare la gestione delle quote sociali del nipote minore, presentando al Tribunale un prospetto con cui garantiva al minore un introito annuale minimo. Solo che si guardò bene dallo svelare al Giudice Tutelare che i profitti, che rendevano di media le quote di proprietà del minore, erano pari a più del doppio del minimo garantito. Con una clausola di recesso annuale lo zio infedele si mise al riparo da eventuali crolli degli utili; nel senso che se gli utili della società fossero andati al di sotto del minimo garantito, egli avrebbe potuto recedere dal contratto sottraendosi al versamento del minimo garantito. Nel frattempo si costituiva una ditta in tutto simile a quella in cui era un semplice coadiuvante del fratello, incamerando gratuitamente tutto il suo portafoglio clienti.

Lo zio infedele, con questo stratagemma, lucrò svariati miliardi di lire a danno del minore e per di più si presentava ai parenti come una specie di salvatore della patria.

È inutile dire che lo zio infedele non restituì mai né i soldi “presi in prestito” abusando della procura, né quelli relativi al giro d’affari dei clienti sottratti al minore (e già appartenuti alla ditta individuale del fratello).

Il minore tutelato scoprì l’inganno del “minimo garantito”, quando giunto alla maggiore età, chiese l’aiuto di un avvocato per gestire le sue quote societarie.

Il danno subìto era evidente e provato per tabulas - spiegò l’avvocato al suo giovane cliente - ma la condotta dello zio era riprovevole soltanto su un piano morale; non giuridico (anche se appariva evidente l’inganno in cui era incorso lo stesso Giudice Tutelare, inconsapevole del trucco del “minimo garantito”; senza il cui inganno mai e poi mai avrebbe permesso allo zio infedele di divenire un “quasi tutor”).

Certo si poteva agire comunque in giudizio, quanto meno con riferimento alle somme e alla clientela distratte illecitamente, ma il nipote, forse già stanco di sofferenze, preferì chiudere definitivamente anche quelle ferite rinunciando ad ogni azione giudiziaria e ad ogni rimostranza di carattere morale.

Il nostro professore di Teoria non usò parole molto tenere nei confronti dello zio infedele, quando volle commentare insieme a noi il risultato delle nostre riflessioni sul tema proposto. Ed è incredibile come queste simulazioni (probabilmente tratte dall’esperienza professionale di quel professore) si ripetano, pur con diverse varianti, nella vita professionale di ogni avvocato.