Giovedì 13 aprile 2023, al Teatro Argentina di Roma, presso la sala Squarzina, si è tenuta la presentazione del Rapporto annuale 2023 del Centro Astalli. Il Centro Astalli è la sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (Jesuit Refugee Service) e da quarant’anni è impegnata in attività e servizi che hanno l’obiettivo di accompagnare, servire e difendere i diritti di chi arriva in fuga in Italia da guerre e violenze, spesso anche da torture; s’impegna costantemente a far conoscere all’opinione pubblica chi sono i rifugiati, la loro storia e i motivi che li hanno portati fin qui.

Il Rapporto annuale 2023 contiene una fotografia aggiornata sulle condizioni di richiedenti asilo e rifugiati, i quali, durante il 2022 si sono rivolti al Centro e hanno usufruito dei servizi di prima e seconda accoglienza a Roma e nelle città italiane in cui opera, tra cui: Bologna, Catania, Grumo Nevano, Palermo, Padova, Trento e Vicenza. Oltre al resoconto di un anno di attività, sono emerse inoltre, quali sono le principali nazionalità dei rifugiati che giungono in Italia per chiedere asilo; quali le principali difficoltà che incontrano nel percorso per il riconoscimento della protezione e per l’accesso all’accoglienza o a percorsi di integrazione.

Sono stati evidenziati vari temi, tra cui:

  • accogliere i rifugiati con dignità è possibile, sì, ma il dilemma dell’Italia è che non siamo riusciti a “capitalizzare” l’esperienza ucraina, senza uscire dalla logica dell’emergenza;
  • le vulnerabilità dei rifugiati aumentano sempre di più e molti sono sopravvissuti a violenze e torture nei paesi di origine e di transito come la Libia o i Balcani;
  • la burocrazia in Italia mina l’accesso stesso alla protezione internazionale e ai percorsi di integrazione. Infatti, il divario digitale rischia di aumentare disuguaglianze sociali e marginalità.

La domanda sorge spontanea, data la costante richiesta di volontariato, la società civile è davvero pronta al cambiamento? È disponibile ad accogliere i rifugiati e a ripensarsi aperta e solidale?

Nel 2022 il numero di persone in fuga ha superato la soglia dei 100 milioni nel mondo (fonte: UNHCR). Le due principali vie di accesso sono quella del Mediterraneo e della rotta balcanica, percorse, talvolta, da chi è costretto ad affidarsi ai trafficanti e ad affrontare viaggi lunghi e pericolosi (a causa della mancanza di canali d’ingresso legali e sicuri).

Purtroppo l’esperienza della crisi ucraina non è bastata a fare una riflessione profonda su accoglienza e integrazione dei rifugiati. Anzi, è sembrato come se ci fossero due percorsi paralleli: uno per gli ucraini e uno per tutti gli altri. In realtà si tratta di persone che si trovano nella medesima situazione e condizione. Afgani, siriani, somali, nigeriani sono tra le principali nazionalità di rifugiati, anch’essi in fuga da guerre e persecuzioni.

La protezione temporanea concessa ai cittadini ucraini, la possibilità di accedere da subito al mondo del lavoro, l’opportunità di ricevere direttamente dei contributi economici e un sistema di accoglienza che ha risposto tempestivamente ai bisogni delle persone, sono state misure importanti che avrebbero potuto essere “capitalizzate”. Invece i primi passi del Governo, dopo l’ennesimo braccio di ferro compiuto mentre i migranti erano sulle imbarcazioni in attesa di un porto sicuro, si è concentrato su una rinnovata lotta alle ONG che si occupano di salvataggi in mare. Neanche le vittime del naufragio di Cutro hanno provocato una qualche reazione politica di umanità, nonostante la società civile abbia chiesto con forza un cambiamento.

Mercoledì 12 aprile il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera allo “stato di emergenza” su tutto il territorio nazionale sul tema migranti per la durata di sei mesi. «Con lo stato di emergenza si potranno realizzare procedure e azioni più veloci per offrire ai migranti soluzioni di accoglienza in tempi brevi», spiegano fonti di Governo al termine del Consiglio dei Ministri, sottolineando che inoltre saranno coinvolte la Protezione Civile e la Croce Rossa italiana con il loro bagaglio di esperienze e dotazioni. Allo stesso tempo, sottolineano le stesse fonti che «si potranno aumentare e rafforzare le strutture finalizzate al rimpatrio dei non aventi diritto alla permanenza in Italia (Cpr), potenziando le attività di identificazione ed espulsione».

Bisogna uscire da questa logica difensiva. Pensiamo a frasi molto comuni come: “Dobbiamo difendere i confini!”. Parole che veicolano l’idea dei rifugiati come nemici da cui difenderci. I rifugiati sono prima di tutto persone che con la loro presenza ci aiutano a riconsiderare la nostra quotidianità con occhi diversi, con schemi diversi e questo anche grazie alle loro testimonianze.

Hamed ha 24 anni, è arrivato in Italia dall’Afghanistan nell’agosto 2021, quando gli USA decisero di abbandonare il territorio, lasciandolo in mano ai talebani. È scappato insieme alla sua famiglia nell’arco di poche ore, correndo ogni pericolo. «Non ho più la mia tesi universitaria. Mancavano solo trenta pagine e mi sarei laureato in economia. Non ho più i miei documenti, il mio diploma. Nulla» racconta.

Barry ha 27 anni, inizia il suo discorso così: «Oggi qui con me ci sarebbe dovuto essere il mio amico Ismael. Fate conto che siamo in due qui a parlare».

«Sono partito dalla Sierra Leone a 20 anni. Sono stato rifugiato una prima volta da piccolo, quando con la mia famiglia siamo dovuti scappare in Guinea perché in Sierra Leone c’era la guerra. Siamo tornati a casa dopo 6 anni, ma poco dopo è scoppiata un’epidemia di ebola. Da lì sono andato in Mali, poi in Niger con il mio amico Ismael. Siamo scappati in Libia, finendo in un campo con altre centinaia di uomini e donne, sono stati mesi molto duri» continua.

«Sono stato arrestato, torturato e quando sono riuscito ad uscire dal carcere, tornando al campo, scopro che Ismael era stato fatto salire su una barca. La barca di Ismael è affondata e con lui tutte le persone a bordo» conclude.

Non aver ancora compreso a livello politico che accoglienza e integrazione sono strettamente correlate, significa condannare le persone a vivere - o meglio a sopravvivere - ai margini delle periferie esistenziali, oltre che fisiche delle nostre città.