Visitando la bella mostra di libri rari e antichi e gioielli contemporanei I diamanti sono stelle recentemente tenutasi presso l’Istituto Lombardo di Milano ho ammirato una bella edizione di un'opera alchemica significativa di Ludovico Locatelli: Il teatro d’Arcani nel quale si tratta dell'arte chimica e suoi arcani, (in Milano per Gio: Pietro Ramellati, 1644).

Il volume era aperto su un indice di grafia simbolica alchemica, elenco non infrequente nei trattati su questo argomento. In fondo ad una delle due pagine esposte ecco il simbolo dello “zolfo filosofico” (cioè alchemico) rappresentato in quel libro da un triangolo equilatero con sotto tre corte linee. Un segno che non avevo mai visto prima e che mi ha rinviato, per associazione d’immagine, ai simili tre chiodi che compaiono sotto l’antico trigramma di Gesù assunto dai Gesuiti: “I H S”, cioè: Iesus Hominun Salvator. Questo felice incontro mi ha permesso di incrociare il tema delle scritture e degli alfabeti ermetici con il tema del più celebre acrostico del mondo, sia per l’arte che per la spiritualità: il titulus crucis, cioè le quattro lettere scritte secondo Giovanni sopra la croce e indicanti il “titolo” con cui Pilato qualificò Gesù, ironicamente e dispregiativamente nella sua intenzione, profeticamente per la fede cristiana, al momento della sua crocefissione: Iesus Nazarenus Rex Iudeorum. Benedetto XVI mise in evidenza nella sua opera Gesù di Nazaret come queste quattro lettere grazie alla croce di Cristo divennero come un nuovo divino Tetragramma, il quale racchiude come un acrostico il Nome di Dio, cioè la sua più profonda realtà. I. N. R. I. al posto del precedente J H W H.

L’arte cristiana di secoli lo conferma negli innumerevoli affreschi e quadri dedicati alla crocefissione di Gesù dove campeggia anche il rettangolo con la celeberrima iscrizione fino a trasformarlo in una sorta di geroglifico cristiano, di sacro ideogramma. Tramite esso la croce parla, proclama. Per tradizione la reliquia di questo rettangolo di legno scritto, all’origine con triplice scritta in ebraico, greco e latino, viene considerata esser conservata presso la Chiesa costantiniana di Santa Croce in Gerusalemme in Roma, non lontano da San Giovanni in Laterano, già residenza imperiale dell’Imperatrice Elena, madre di Costantino. Non è un caso che la triplice scritta su questa reliquia sia estesa da destra a sinistra e con le lettere come “allo specchio”. Ci sono anche alcuni errori. Alcuni studiosi propendono per l’autenticità dii questo reperto proprio per questi errori e anche per la direzione “all’ebraica” della grafia. Probabilmente l’estensore doveva essere un servitore ebreo comandato dai romani e di bassa cultura.

Questo acrostico, I.N.R.I. è linguisticamente importantissimo e ci dimostra, insieme al crismon di Costantino e all’icthus delle catacombe, che l’arte cristiana e la sua comunicazione pubblica nasce simbolica, criptica, esoterica in senso tecnico, probabilmente per difendersi dai persecutori. Se poi consideriamo ciascuna delle quattro lettere essa presenta a sua volta un etimo significativo, come “Nazarenus” la cui radice ebraica significa “germoglio”. L’idea che I.N.R.I. possa essere un acrostico esoterico è un’idea che ha avuto un suo luogo grazie alla creativa riformulazione che ne fa Fulcanelli nella sue Dimore filosofali nel commentare la “croce di Hendaye (Pirenei): Igne Natura Renovatur Integra. La sua pseudodecrittazione, chiaro esempio di uso strumentale in senso neotradizionalista, appare poco credibile proprio per l’universalismo del proprio contenuto. Se I.N.R.I. potrebbe essere stato usato quale codice per veicolare insegnamenti alchemici dovrebbe allora porsi quale indicazione precisa e operativa, non quale slogan ideologico. La libera creatività di Fulcanelli, chiunque egli sia, magari lo stesso suo “apostolo” Eugenio Canseliet, ci porta a riposizionarlo pienamente nell’esoterismo novecentesco, spesso caratterizzato da un interesse parassitario verso le antiche tradizioni allo scopo di riformularle disinvoltamente. I nipotini di Fulcanelli si sono sbizzarriti e sul web si trova un fantasioso circo di ipotesi che sembra uscito dal Pendolo di Focault di Umberto Eco. Ne ricordiamo due simpatiche: “Ineffabile Nomen Rerum Initium” e “Igne Nitrum Roris Invenitur”.

Il tema del rapporto fra acrostici e alchimia non è però peregrino, data la componente ebraica presente nella cultura alchemica (Alchimisti ebrei, Raphael Patai) e considerata l’esigenza pratica di criptazione propria degli alchimisti. Ne abbiamo un esempio fulgido proprio all’inizio della tradizione alchemica in un testo di Zosimo di Panopoli (IV-V secolo): Commentario alla lettera Omega dove il primo autore di un trattato di alchimia decritta come un acrostico sapienziale la parola A.D.A.M. connettendola genialmente con i quattro punti cardinali e con i quattro elementi. Il tema divenne un filo rosso nella tradizione alchemica proprio per il significato ebraico di “adam” nel suo significato di “terra rossa”, dagli alchimisti considerata o la materia iniziale dell’opera alchemica (altri termini: “terra vergine”, “sale universale”), o il suo risultato: la rossa “polvere di proiezione”, cioè la “pietra filosofale”.

Uno dei modelli iconologici e sapienziali della cultura alchemica fu sempre infatti il Paradiso terrestre e la vita edenica a cui l’alchimia stessa doveva tendere in senso restaurativo. Gli alfabeti alchemici storici sono quindi altra cosa rispetto ai giochi linguistici moderni e si presentano estremamente precisi quale sorta di scrittura stenografica per allievi e colleghi. Ad ogni lettera dell’alfabeto corrisponde una fase operativa o una materia o strumento delle operazioni di laboratorio. Non solo: il contesto e il messaggio di questi giochi linguistici deve essere ricostruibile secondo una data tradizione. Nei secoli passati infatti il giocare con il linguaggio era tradizione amata dalle elites culturali e anche religiose, ad un livello di raffinatezza e complessità oggi impensabile. Il secolo del Barocco è stato anche il secolo di centinaia di trattati di emblemi e di allegorie e il dinamico e creativo apostolato dei Gesuiti usava con forza il linguaggio delle allegorie visive per re-insegnare il Cattolicesimo e arginare l’ondata protestante la quale, a sua volta, usò potentemente la stampa e i racconti per immagini.

Citiamo solo due esempi, fra migliaia, di raffinati giochi linguistici per acrostici: Il mondo magico degli eroi di Cesare della Riviera (1605) dove l’autore mutua dai cabalisti la permutazione delle parole in altre parole tramite l’uso delle loro lettere come acrostico, e I capilettera dei saggi di Hieremia Arexelio, 1634, dove l’autore elabora 22 immagini, simili alla carte da gioco, i cui racconti visivi sono costituiti da sviluppi delle lettere dell’alfabeto, realizzando una comunicazione a metà strada fra allegoria e rebus. Tornando all’uso delle lettere dell’alfabeto quali codice ermetico ricordiamo come siano presenti alfabeti alchemici in testi lulliani e pseudolulliani come nei cosiddetti “manoscritti di Praga”. Se ne parla in un ottimo articolo dell’esperta Michela Pereira: Raimondo Lullo e Niccolò Cusano: un incontro nel segno della tolleranza (Atti del convegno Internazionale, Bressanone e Bolzano, 25-27 novembre 2004, Brepols, 2005, in Instrumenta Patristica et Mediaevalia 46, Subsidia Lulliana 2) che ho letto grazie all’ottima attività editoriale e culturale dei Francescani di Assisi.

Se dunque dobbiamo rileggere I.N.R.I. quale sintesi dell’opera alchemica dobbiamo provare ad applicare questi alfabeti al posto delle lettere del geroglifico cristico del titolo della Croce. Dopotutto la stessa croce viene usata come grafia ermetica ad indicare, da sola o in composizione con altri segni, i più svariati aspetti fra cui: il crogiolo, l’antimonio, l’aceto, il tartaro, la tuia, il sale ammoniacale, il salnitro, la cera, il talco. Anche nei segni zodiacali, così essenziali per l’alchimia, la croce compare nel segno di saturno, di venere e di mercurio. Una soluzione chiara per I.N.R.I. ovviamente sfugge in quanto ci sono varie versioni di elenchi alfabetici ermetici. “I” potrebbe ad esempio indicare la “terra dannata”, cioè la “terra fetida” (i sinonimi nel linguaggio ermetico sono centinaia) cioè la materia nell’opera di trasformazione nel suo collasso, nella sua putrefazione, nella fase “al nero”. Oppure potrebbe significare, secondo un altro alfabeto: “compositionem albam dissolutam” oppure “Iuppiter”, cioè lo stagno, al cui pianeta corrisponde e con cui può iniziarsi il lavoro. “N” potrebbe indicare semplicemente l’elemento chimico del nitro, sempre presente nei testi alchemici, oppure il “fuoco di primo grado” o l’evaporazione della precedente fase di “dissoluzione bianca”. “R” viene fatta corrispondere al “triplice vaso” della cottura alchemica oppure il fuoco del lapis, ma perché non ritenerla allusiva del “realgar”, il rosso solfuro di arsenico conosciuto dagli alchimisti? Oppure perché non considerarla indice della parola radix, così diffusa nel linguaggio ermetico e qui dialogante con “Nazarenus” nel suo senso di “germoglio”?

Gli scambi fra linguaggio mistico e linguaggio alchemico sono frequenti, da Zosimo di Panopoli a quel capolavoro che è l’Aurora consurgens (termine che deriva dal Cantico dei cantici) fino al seicentesco Processus sub formae Missae. Dentro il mistero/enigma emerge infine un ultimo mistero/enigma: la N al contrario. Non è molto diffusa ma neppure rarissima. Un relitto di scrittura all’ebraica, da destra a sinistra? Ne troviamo traccia anche nell’arte: in un’incisione di Durer del 1519 raffigurante una crocefissione con Giovanni, Maddalena e le pie donne, in una deposizione di Fernando Gallego, nel crocefisso della stanza di Santa Chiara nella Chiesa di San Damiano in Assisi, nella grata della cappella della Santa Croce della Cattedrale di Tortona. L’unico parallelismo degno di rilievo fra la lettera N invertita e l’alchimia penso sia da individuarsi nel tema alchemico dell'"inversione". Si tratta di un tema frequente per cui ad esempio fra i vari tipi di “fuoco” utilizzati nel laboratorio dagli alchimisti compare ad un certo punto il “fuoco filosofico”, cioè un fuoco antinaturale, invertito appunto, nel senso che non brucia verso l’esterno o verso l’alto ma internamente. Probabilmente si doveva trattare di un effetto di corrosione/fermentazione che l’opera alchemica doveva indurre nella materia e che viene descritto allegoricamente rinviando all’immagine del fuoco. Non è la croce di Gesù stessa un grande invertitore nel senso che converte il cielo in terra e la terra in cielo, il male in bene e nel senso che spiritualizza il corpo e corporizza lo spirito? Auspichiamo che nel prossimo futuro altri possano offrire lumi sul tema della N invertita all’interno di I.N.R.I.