Non cercate Eva tra i dannati. Non la troverete. La mitica donna a cui da millenni imputiamo la colpa delle disgrazie umane siede nei seggi più alti della rosa mistica del Paradiso dantesco. Viene spontaneo chiedersi il perché. Perché non punire l’iniziatrice di tutti i mali con un contrappasso degno della più superba – o della più ingenua – interlocutrice del serpente?

La teologia dantesca è certamente debitrice delle complesse letture cabalistiche del testo biblico che, intrise com’è noto di sapienza ermetica, sono state in grado da sempre di dare alle Scritture “senso” e sostanza spirituale. Non apertis verbis, si intende. Non pubblicamente. Il disegno teologico che è alla base dell’architettura della Commedia è lontano infatti dalla morale punitiva rivolta di necessità a un pubblico popolare.

Che dire dunque di Eva? L’argomento non andrebbe sfiorato, perché inesauribile, difficile e polisenso, quindi pericoloso. Ma, per dare un’idea generale del problema dell’approssimazione con cui la storia della prima donna – nella versione che si è ufficialmente imposta – è stata traslata dal testo originale ebraico ai fini della sua divulgazione ecumenica, accenneremo solo a uno dei tre elementi di seguito elencati: Eva non è stata fabbricata da una costola di Adamo; Eva non è il primo nome della donna tratta da Adamo; Eva non risulta abbia mangiato mele.

Come tutte le lingue – ma più di tutte le lingue – l’ebraico, a rigore, è intraducibile. Sull’impossibilità delle traduzioni si esprime Dante stesso nel suo Convivio a proposito del “legame musaico” tra le lettere. Semplificando: il nesso tra le lettere di una lingua è un legame indissolubile di significati e di suoni che non può essere riprodotto in un’altra lingua, data la sua unicità. Ragion per cui ciò che possiamo realizzare traducendo è solo un’approssimazione di senso.

L’impossibilità della traduzione postulata da Dante vale ancor di più nel caso della lingua ebraica che non è fatta di soli suoni e di soli sensi, ma di segni che funzionano nel loro valore iconico, numerologico, matematico, architettonico, sonoro, vibratorio e permutativo. Combinatorio insomma e, in definitiva, simbolico.

La prima idea cui dobbiamo rinunciare leggendo la Genesi è che l’Adam che viene plasmato il sesto giorno sia per così dire un prodotto finito, un artefatto divino sapientemente compiuto. Non lo è. Non è stato, oseremmo dire, progettato per esserlo.

Nell’interpretazione cabalistica l’Adam – da non confondere con il volto maschile incarnato da Adamo – è il ponte di mezzo che deve unire il mondo visibile e il mondo invisibile. Propriamente esso è già in sé maschio e femmina (Gen. I, 27), ma nel modo di un’unità che si trova ancora in uno stato indistinto, confuso, potenziale. Adam deve insomma trovare la sua compiutezza, deve adempiere al suo completamento. Le quattro lettere del suo nome, come recitano i testi di alchimia, rappresentano i quattro elementi di cui è fatto l’intero universo ma che dentro di lui hanno bisogno di ricomporsi in armonia.

Adam non conosce ancora se stesso. È destinato a conoscersi. Ecco perché, l’Innominabile – il tetragramma ebraico che traduciamo con la parola indeuropea Dio che significa Luce – vede che esso – questa entità chiamata Adam – ha bisogno di un aiuto, di un ʿ ezer (עזר), in ebraico. Questo ʿezer, certamente correlato alla parola zer՚a (זֶרַע), il seme, viene ulteriormente specificato dal testo attraverso l’avverbio kenegdo (כנגדו) di fondamentale importanza ai fini della comprensione del significato generale. Traducendolo infatti con “simile”, come fanno prima il testo greco (ὅμοιος) e poi il testo latino (similis), non si riesce a cogliere il senso profondamente spaziale e geometrico della descrizione che il testo ebraico vuole dare. Meno che mai ci si riesce attraverso traduzioni vagamente qualificative come “un aiuto confacente” o “un aiuto conveniente”.

Il termine che traslitteriamo kenegdo (כנגדו) significa in prima istanza “di fronte”, “che sta faccia a faccia” e si trova perciò in una posizione speculare a ciò che gli si oppone. Nel nostro caso l’Adam. Ciò che la Luce vuole dare all’Adam è dunque un “aiuto che sia visibile di fronte a lui”.

A confortare questa interpretazione che cerca, nei limiti del possibile, di essere attinente alla lettera ebraica è quindi il seguito del passo della Genesi. Al fine di poter generare questo aiuto per l’Adam, la Luce compie una delicata operazione chirurgica. Adam viene fatto cadere in un torpore profondo, o almeno con questo termine siamo usi tradurre il latino sopor che a sua volta traduce il più preciso termine greco ecstasis (ἔκστασις). L’estasi del testo greco rende in modo specifico il senso originale dell’ebraico tardemah e sembra chiamare in causa la topografia dell’uomo primordiale, l’attitudine antica a geometrizzare corpi, anime e passioni tipica dei nostri antenati.

Il sonno indotto nell’Adam, essendo un’estasi, nella pratica demiurgica cui è sottoposto vuole evidentemente indicare l’atto di “uscire fuori”, di “essere portato fuori”. Insomma, pare che la Luce abbia voluto aiutare l’Adam rendendo visibile di fronte a lui ciò che c’era dentro di lui. Ed è a questo punto che si chiarisce il senso del termine ebraico ṣel՚a che un’inveterata tradizione traduce come costola.

Il significato non anatomico dell’ebraico ṣel՚a (צֶלַע), come del resto dei sinonimi usati dalla traduzione greca (πλευρά) e dalla Vulgata latina (costa), è “lato”. Precisamente “l’altro lato”. Un lato cioè che ancora una volta vuol darci ad intendere che esiste una sua controparte speculare o simmetrica. Nel nostro immaginario la percezione di questo “lato” viene culturalmente influenzata dall’altro sinonimo contenuto nel termine ṣel՚a, che è stato spesso usato come sinonimo di costola di cui esso, peraltro, non sarebbe per estensione che il contenitore, cioè il fianco.

Nei secoli questa percezione è stata per lo più utilizzata come fonte di legittimazione sociale della subordinazione della donna a fianco dell’uomo o di riduzione della stessa a compagna accidentale, ad appendice. A rimodellare questa percezione è sempre il testo ebraico. Nella parola ṣel՚a, infatti, è contenuto il termine che può chiarire ancora meglio il senso di questo altro lato che esce da Adam, la parola ṣel: ombra.

L’operazione cui è sottoposto l’Adam, che è ancora solo in quanto è ancora un intero, un’unità non distinta di maschile e femminile, è allora quella che permette alla Luce, mediante un foro nella carne, di far uscire fuori da se stesso l’altro lato di Adamo, il lato in ombra che tutte le tradizioni religiose hanno sempre identificato con il lato femminile. L’Adam viene insomma rivoltato come un sacco per fare uscire da sé quello che identifichiamo con il nome di “donna”. Tramite l’apertura praticata nella sua carne viene portato fuori, cioè estratto, ciò che prima egli poteva solo sentire confusamente come il suo interno, la parte di se stesso rivolta verso l’Invisibile: il suo volto femminile.

Visualizzando allora il suo corpo potremmo dire che l’altro lato di Adamo, quello che siamo avvezzi a chiamare costa o costola, non è che il verso della moneta, il fondo del sacco, il rovescio della medaglia, il lato in ombra della luna che l’apertura praticata nel fianco dell’Adam ha permesso di estrarre procurando la distinzione tra il visibile maschile (Adamo) e l’invisibile femminile (Eva). E non è superfluo insistere sul verbo estrarre, visto che proprio il greco pleurà (πλευρά), che traduce l’ebraico ṣel՚a, sarebbe stato usato dai matematici greci per intendere la radice da estrarre per ottenere la base che è stata elevata a potenza. Costa, equivalente anatomico di lato, è detto inoltre il dorso di un libro, la nervatura della foglia, la curvatura della cupola.

L’essere umano, quindi, concepito in principio come androgino, per l’antica sapienza è un albero rovesciato. Le sue radici sono in Alto, ma anche, curiosamente, indietro e dentro. Lì dove il suo volto femminile lo alimenta come una terra invisibile che è al confine con il Mondo superiore. Lì dov’è rivolta costantemente l’altra faccia della luna. Se da sempre questa radice reclama di ricongiungersi all’infiorescenza del suo volto maschile visibile e luminescente, è pur vero che la nostra civiltà ha dato all’invisibile di cui il femminile è simbolo il posto che spetta al lato oscuro dell’uomo: il nero del mondo.

Invertendo nei secoli il senso del testo, diffondendo l’immagine di una sub-creazione del femminile, formato quasi per un disavanzo dalla frazione di un corpo maschile già completo in se stesso, la nostra civiltà ha infatti legittimato le sue regole: il fuori viene prima del dentro, il poi viene prima dell’ora, il pensiero razionale e conoscibile viene prima delle percezioni inconsce e indefinibili. Il maschile viene prima della femminile. L’uomo da sempre prende la forma che dà al Dio che adora. E lo fa con il linguaggio.

Ma come il recto di una moneta non si può separare dal suo verso, così Eva non si può concettualmente separare da Adamo. La radice non si può separare dalla chioma, perché solo insieme formano l’Albero. E il monito della prima donna che avrebbe tradito se stessa dando ascolto alla voce esteriore del serpente è da sempre questo: non cercate fuori ciò che va trovato dentro.