L’artista è l’origine dell’opera
L’opera è l’origine dell’artista(M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte)
Dal luogo dell’esordio
faticosamente esula
ciò che abita vicino all’origine(Hölderlin, La migrazione)
Il pensiero di Heidegger sull’arte espresso in questo saggio oggetto della presente critica appare significativo proprio per il suo non centrare il tema dell’essenza/specificità dell’arte. Heidegger applica i canoni e le categorie del proprio linguaggio (una vera gnosi-lingua, una sorta di “iniziazione linguistica”) al tema dell’identità dell’opera d’arte quale res autonoma che aggiunge l’aspetto dell’eidos alla base ilemorfica (corrispondente al sinolo aristotelico o alla materia signata tomista) propria di ogni res-fenomeno, ma pur avvicinandosi per ben tre volte al centrare il nucleo specifico della riconoscibilità dell’ “opera d’arte” lo sfugge ed elude proprio per restare fedele alla grammatica interna della propria lingua filosofica.
Si tratta quindi di un saggio molto utile per fissare i canoni essenziali della lingua heideggeriana quanto per comprendere (in negativo) quale sia l’essenziale discriminante di un’opera d’arte rispetto al genus comune delle res-fenomeni proprio grazie alle omissioni e ai fraintendimenti heideggeriani. Utilizzeremo la traduzione di Ivo De Gennaro e Gino Zaccaria, con la collaborazione di Massimo Amato.
L’inizio non è incoraggiante in quanto il pensatore pone, pur in modo interrogativo-dubitativo, il tema dell’arte quale qualcosa che potrebbe non andare oltre una “rappresentazione d’insieme”. Una petizione che esprime una svalutazione implicita della categoria “opera d’arte” nella sua autonomia e autosussistenza. Nello stesso tempo il nostro filosofo dichiara che il punto essenziale a livello di metodo sia “l’interrogare l’arte in modo che sia consono al suo stanziarsi”, cioè adottare un approccio che vada incontro all’opera d’arte senza sovrapposizione sovrastrutturali e usi strumentali.
Sembra una versione aggiornata della concezione tomistica-amplessiva della conoscenza quale adaequatio rei et intellectus, ripresa recentemente da Gaspare Mura quale “ermeneutica dell’incontro”, oltre soggettivismo idealistico quanto oggettivizzazione idolica-feticistica. Ma come avvicinarsi al modo proprio dell’apparire dell’opera d’arte prima di averne qualificato i tratti distintivi rispetto alle altre res e agli altri fenomeni cosali?
La conclusione del pensatore tedesco sarà parimenti ambigua: il compito consiste nel vedere l’enigma; quindi: non nel risolverlo! Non a caso parlerà frequentemente di “costituzione ambigua” della res “opera d’arte”, pur senza approfondire (purtroppo) questa interessante focalizzazione. L’attenzione totale al linguaggio greco-latino emerge nel saggio nell’acuta e utile sottolineatura della distinzione tra il termine greco ypokeimenon (Aristotele, Metafisica, VII, 1042a) e la sua traduzione latina: subjectum e così per ypostasis convertita in substantia: “ciò che sta sotto”.
Heidegger acutamente rileva gli effetti linguistici-ontologici di tale traduzione. La sostanza diventa: sub-stantia, introducendo così un tratto scissorio fra essenza e fenomeno, tra epifanicità e struttura. Altra conseguenza: il replicare nel tempo un’equazione indimostrata che parifica il rapporto fra la res e i suoi accidenti al rapporto fra soggetto e predicato. Heidegger tenta di superare questa scissione schizoide linguistico-ontologica ponendo il concetto di “origine/punto ortivo” quale radice comune e fondamento sia del linguaggio che del processo del reale.
Questo tentativo di ricomposizione della percezione unitaria della res sembra restare però incompiuto in quanto tale idea di origine viene posta quale unità dialettica, ibrida, eraclitea: cioè quale punto iniziale che contiene sempre una contesa fra ciò che esce dal nascondimento e ciò che continua a nascondersi. Riprendendo implicitamente Eraclito (la natura ama nascondersi), Heidegger tenta silentemente una sintesi tra l’apparire dell’Essere quale processualità e il principio parmenideo dell’Essere quale Necessità e Unità.
La res è per lui l’ “aistheton” (la veste sensoriale) che ci viene incontro e nel contempo in parte si nasconde. La percezione dell’arte heideggeriana stenta a riconoscere i tratti unici della res arte riducendoli a identificativi propri di ogni res-fenomeno: la res è una materia sagomata, petizione di principio che non va oltre la comune ilemorficità di ogni fenomeno percepito. Quale sarebbe il modo proprio dell’arte nel suo ad-stanziarsi nel “mondo che la percepisce”? Il nostro filosofo lo coglie sfiorandolo ma non lo centra: proprio l’ambiguità, insieme alla cosmoteticità e al senso di autonomia esistenziale dell’opera d’arte stessa. Tutti temi sfiorati ma non visti come centrali e focalizzanti, quali sono. Andiamo per ordine, seguendo la sequenza narrativa del saggio qui analizzato.
Heidegger cerca di avvicinarsi all’unicum dell’opera d’arte distinguendo fra “materia” e “sagoma” ma ancora resta all’interno di un approccio fenomenico alla cosalità. Il tomismo aveva già chiarito la questione: non esiste una “materia pura, totale” ma ogni res nel suo apparire è frutto di una materia già segnata-significata-segnificata. Detto questo ancora non si scorge come distinguere fra produzione di una merce/oggetto e creazione artistica, pur assumendo come verosimile l’assetto filosofico eracliteo-heideggeriano-kantiano dell’apparire-nascondendosi secondo la resa epifanica dell’etimo di a-letheia.
Anche il tema interessante del rapporto circolare tra artista e opera all’interno dell’idea di origine, citato in epigrafe, appare dal nostro autore solo fugacemente accennato e non più ripreso. Una carenza significativa perché si potrebbe incentrare in tale rapporto dialettico artefice-opera quale “origine doppia, processuale” proprio uno dei tratti distintivi dell’ “opera arte”, dove la soggettività dell’autore da una parte appare più intensa-demiurgica e dall’altra più nascosta proprio in relazione al confronto con la produzione cosale-oggettuale non artistica, anche non seriale ma artigianale.
La scissione linguistica sopra/sotto che si vuole superare con il termine “ad-stanzialità” cioè l’apparire-venire incontro-permanere dell’opera d’arte quale res-fenomeno viene reintrodotta dalla finestra da Heidegger con l’insistere sul vecchio binomio forma/materia, qui riproposta nel lessico sagoma-stagliarsi/retrofondarsi. L’alchimia verbale heideggeriana, di origine kantiana-hegeliana, ignora l’artista-artifex per porre in evidenza un rapporto immediato fra Essere e res che appare in realtà non sussistere se non tramite la mediazione dell’artista.
Per Heidegger l’unica mediazione è quella della “resistenza della materia” che lui chiama “terra”, come fosse un elemento alchemico-ontologico, da contrapporre a “mondo” quale “forma della presenza-apparizione”. Il movimento dell’Essere quale processo aletheico, rivelativo per il nostro pensatore è unitario e nel contempo duale scindendosi, all’apparire, fra processo di dis-ascondimento e fondamento che resta nell’ascosità. In questo senso Heidegger appare gnostico e di una gnosi vicina alla teologia negativa in quanto pone ogni “accadimento della Verità-Essere” quale evento che implica una duplice negazione rispetto all’Essere stesso quale olos-pleroma-apeiron.
Qui ritorna la ripresa di Eraclito sul tema della natura che divenendo si nasconde. Ogni forma di manifestazione implica un coessenziale processo di nascondimento. Il porre il dicibile significa porre anche l’indicibile. Nel linguaggio “alchemico” heideggeriano se la terra contrae il mondo si estrania (aliena-espande-staglia). Abbiamo quindi una duplice scissione all’apparire nel particolare dell’Essere-Verità: fra il percepibile e il ri-velato (cioè: ri-nascosto) e l’opera quale equilibrio dentro la contesa fra terra e mondo, tra contrazione (resistenza della materia al modo della forma) e cosmoteticità propria di ogni “opera”.
Dato tutto questo restano problemi fondamentali che il filosofo tedesco non risolve: a) se ogni res è rivelativa, se questo assetto filosofico vale per ogni fenomeno, cosa distingue l’opera d’arte ed essa da altri tipi di “opere” (naturali, artigianali, tecniche); b) non serve utilizzare questo linguaggio gnostico-dialettico per sostenere l’evidenza della cosmoteticità in ogni opera d’arte; c) l’assenza di funzione pratica-utilitaristica non basta a definire una res quale opera d’arte altrimenti ogni rifiuto, residuo sarebbe tale. In altre parole, l’impianto filosofico heideggeriano vede le opere d’arte come ogni altra res quali epifenomeni diretti dell’Essere, indipendentemente dalla dimensione ermeneutica e dalla mediazione dell’artifex.
Heidegger non considera per nulla la fondamentale dimensione semantico-narrativa e ideativa dell’opera d’arte. Non solo: non considera né approfondisce il tema, solo accennato, dell’eidos di ogni opera d’arte; aspetto spesso differenziale rispetto ad altre res non artistiche.
Che l’opera d’arte sembri autonoma, autosussistente ed esprimente un’idea di origine, di novità, di “irruzione nel mondo”, di creazione di un’altra idea di mondo può non derivare per forza dal suo manifestarsi quale esito di un processo di disvelamento diretto della Verità-Essere, ma semplicemente dalla sua assenza di ogni funzione pratica-utilitaristica oggettuale o dall’intenzionalità ideativa-valoriale dell’artista o anche solo dalla sopravvivenza ermeneutica e fisica dell’opera separatamente dal proprio artefice e all’interno di un contesto a sua volta estetico-artistico o irrelato, autonomo, autocelebrativo. L’opera insomma “non si fa da sola”.
Heidegger viene influenzato dalla sua stima verso le cattedrali gotiche e quelle altre opere medioevali nel periodo in cui l’artista era corale o, comunque, non si firmava. A sua volta l’insistenza heideggeriana per il tema dell’opera che “si riposa in sé stessa” e rappresenta un equilibrio dentro una contesa deriva da un chiaro influsso della cultura artistica neoclassica, dall’amore germanico (dal Settecento fino agli anni Trenta) per le bianche statue antiche e i bianchi templi greci. Non a caso il nostro filosofo qualifica la categoria della bellezza solo in termini di “nitore” e chiarezza, come conclusione del processo ontologico rivelativo.
Se poi può essere vero che ogni opera d’arte (o almeno un certo tipo) si connoti per esprimere una maggiore “intensità” (altro termine frequente in questo saggio) della percezione dell’Essere, del senso ontologico appare pure evidente che la qualità artistica dell’opera non può certo ridursi solo a una questione quantitativa, altrimenti non si distinguerebbe da qualsiasi processo produttivo. Heidegger accenna a un carisma dell’opera d’arte all’inizio del saggio ma purtroppo poi non vi ritorna più: ogni opera è simbolo. Ma se è simbolo non può essere origine! Che tipo poi di simbolicità? Anche una scarpa infatti, per me e la mia famiglia (o in un certo contesto) può assumere un valore simbolico.
La genericità e dispersività di questo approccio filosofico all’arte deriva anche dal fatto di non considerare un carisma fondamentale di ogni opera d’arte: l’essere narrativa, il veicolare una capacità di racconto, di proiezione di visioni, idee, immaginari. L’approccio heideggeriano appare poi contraddittorio anche in questo senso: da una parte ignora il ruolo fondamentale dell’artista (né lo qualifica) come se ogni opera fosse plasmata in trance o in sogno, dall’altra dà molta importanza agli aspetti materialistici della “sagoma” e della resistenza delle componenti tecniche, oltre a valorizzare in modo autoritativo il tema del pro-getto quale imposizione di valore e d’essere.
L’opera forse si auto-progetta? Non si potrebbe dire più efficacemente che ogni opera d’arte, oltre che esprimere un senso di originarietà (che deriva dalla totale ideazione autoriale), veicola sempre un’intrinseca polisemia? Questa polisemia (a cui il nostro autore accenna quale “statuto di ambiguità”) appare innata per il semplice fatto del distacco dell’opera dall’artista e dai suoi contesti d’origine per entrare nel contesto-non contesto del mondo-mercato dell’arte.
È il carattere silente dell’oggetto artistico che si risolve in una matrice continua di polisemia e potenzialità ermeneutica. Heidegger sembra invece voler elidere ogni cultura-capacità ermeneutica riducendola al gioco dei pochi elementi della sua personale alchimia linguistica: terra/mondo, stagliarsi/ascondersi, contrarsi/imporsi, misura/dismisura, dicibile/indicibile.
Il vedere l’opera quale esito conclusivo di un processo aletheico rivelativo e ontologico ma privo di considerazione per il processo artigianale soggettivo appare evanescente e astratto. Quando accenna al “progetto” in senso cosmotetico ne parla sempre con toni implicitamente romantici da Sturm und Drang: l’opera che fa (conflittualmente) irruzione nel mondo! Anche qui chiaro è l’influsso del Romanticismo quale poetica del conflitto e dell’equilibrio dentro il conflitto (limite/sublime), come pure il forte influsso della statuaria ellenistica con le sue lotte, le sue drammatizzazioni ma dentro una poetica della proporzione e del bilanciamento dei pesi e delle posture.
L’oggetto quale “obiezione” poi ha un senso gnostico solo presupponendo l’Essere quale Olos-Pleroma-Apeiron da cui il distacco dell’opera d’arte rappresenta da una parte una manifestazione formale ma dall’altra un diniego, una contraddizione e questo anche in rapporto al “mondo in cui appare” l’opera stessa. Questo approccio però sembra un “uso interpretativo” dell’oggetto d’arte quale esemplificazione di una filosofia dell’Essere eracliteo-parmenidea che non sfiora minimamente il tema-problema dell’arte ma lo assorbe strumentalmente.
Per il filosofo tedesco in relazione all’opera di Dürer “estrarre un tratto” (dalla natura) si riduce disegnisticamente a “ottenere il tratto e renderlo palese e quindi tratteggiare quel tratto, con il tiralinee, sul tavolo da disegno”. Una visione ingenuamente tecnica, descrittivistica, progettistica, modernista, astratta, come se esistesse un “reale” oggettivo e paradigmatico “là fuori” e come se non esistesse una soggettività trasfigurante, trasformante e il dipinto antico fosse una fotocopia, una fotografia del “reale”, senza alcun filtro del committente, della cultura simbolista-valoriale dell’epoca e delle specifiche tecniche storiche.
Qui Heidegger viene influenzato dal mito dell’ “oggettività” proprio dell’arte tedesca neo-greca appoggiata dal nazismo e proprio dell’archeologia classica tedesca in tempi moderni. Un facile esempio lo troviamo quando Heidegger parla del tempio greco monumentale che si staglia nella natura. Qui si afferma con chiarezza e precisione che: “attraverso il tempio il dio si adstanzia nel tempio”. Heidegger confonde la funzione pratico-cultuale dei templi antichi con la presunta ontogenesi che lui teorizza prendendo come esempio il tempio quale facile immagine di un’arte “che si erge” e si “autofonda” quale mondo a sé stante.
E ancora: “il suo sicuro ergersi rende visibile l’invisibile spazio dell’aria”: una frase descrittiva-poetica che si espande nel dare valore sostanziale-demiurgico alla percezione della delimitazione spaziotemporale che ogni oggetto genera nel sistema di relazioni con gli altri oggetti della percezione, specie se si tratta di un edificio monumentale. Anche una scatola di scarpe svolge la funzione (o meglio: implica l’impatto percettivo) di delimitazione dialettica che Heidegger predica per il tempio greco, massimo modello greco-germanista-nazista per l’arte quale celebrazione paradigmatica.
Ovvio che ogni res delimita sé stessa e interviene nelle relazioni percettive inter-oggettuali ma questo effetto plastico-fenomenico-sensoriale vale per tutti gli oggetti e non solo per quelli artistici il cui specifico “effetto” andrebbe indagato. Ma Heidegger in questo saggio contraddittoriamente ritiene che gli oggetti non generino specifici effetti psicologici! Una concezione dell’arte quindi tecnica-monumentale, architettonica e quindi molto parziale e strumentale oltre che indifferenziata.
In questo viene influenzato dalla rilevanza culturale del termine greco tithemi: elevare, offrire, celebrare che sintetizza appunto il senso rituale-sacrale dell’arte religiosa antica che ai nostri occhi sembra appunto (fuori dal contesto religioso antico) un “crearsi come mondo a sé stante”. Anche la funzione cosmotetica non basta per connotare lo specifico dell’arte in quanto non la distinguerebbe dalla politica, dall’etica e dalla religione.
Altre contraddizioni: ritenere che “materia e sagoma non sono in nessun caso determinazioni originarie della realtà della mera res” (e cosa sono? Illusioni?), l’appiattire l’opera sul piano di una mera res che si “costituirebbe da se” (mentre ogni res ha uno statuto soggettivo funzionale o affettivo, tranne appunto l’opera d’arte), il ritenere l’artista un “qualcosa di indifferente rispetto all’opera”, il ritenere che possa esistere un “effettuale riscontrabile” nell’arte come pure una “correttezza del rappresentare” (evidente residuo deontico kantiano), il rifiuto ideologico che l’ “ente” possa essere un nostro artefatto o una nostra rappresentazione (che è appunto nella prassi quello che si dà per arte), il credere altrettanto ideologicamente che “l’ente pur apparendo si mostra diversamente da come è” (perché?), qui confondendo il tema della simbolicità dell’arte con quello della verità.
E quindi possiamo ora toccare la radice prima del suo erroneo approccio all’arte: il credere che l’arte sia “il mettersi in opera della verità (e dell’Essere)”, svuotando così di autonomia lo statuto ontologico dell’arte e confondendola con la religione, la filosofia, l’etica, la fede. Sebbene il nostro autore abbia una visione processuale-eraclitea-epifanica della Verità quale accadere e formarsi (anche duale) tuttavia l’utilizzo di questo termine appare esiziale e autodistruttivo per un approccio autentico ed efficace alle specificità dell’arte.
Heidegger ascrive all’arte quello che nella sua filosofia può ascriversi a qualsiasi fenomeno: l’essere un fattore rivelativo dell’Essere, un kerigma ontologico. Questa ossessione per l’Essere-Verità porta il filosofo a negare persino l’evidenza della prassi più semplice, cioè la base artigianale-artificiale di ogni opera d’arte: l’arte non ha mai l’indole di un fare artigianale (sic!).
Anche qui l’etimologia greca crea danni quando diventa ossessione. Dal termine ek-stasis Heidegger risulta influenzato nel valorizzare al parossismo il senso di presenzialità-permanenza esistenziale dell’opera artistica in un’apparente irrelazione con l’umano che va però invece riportata alla dimensione ermeneutica-contestuale e percettiva, negata però dal nostro autore.
Il generale equivoco-riduzionismo sul tema dell’arte continua nel disconoscimento heideggeriano anche del ruolo degli “intenditori” (esperti) il quale viene ridotto materialisticamente all’ “apprezzamento dell’esteriorità dell’opera, il formale ridotto a mera sagoma o a sembiante”. Per il nostro quindi l’arte andrebbe solo contemplata in silenzio, senza poterne parlare ed esisterebbe a contrario anche un’ “interiorità” non fisica dell’opera!
Gli uomini per Heidegger sono sempre un intralcio all’opera perché domandano “mai a partire dall’opera ma a partire da noi” (!), impedendo all’opera “di essere opera” ma rappresentandola solo come uno “stare oggettuale” a cui lui nega effetti psichici, come se ogni oggetto percettivo non avesse un impatto soggettivo-psichico oltre che una sua pre-filtrazione percettiva-attiva.
Resta quindi una profonda antinomia nel suo percepire l’oggetto d’arte da una parte quale realtà sovra-oggettuale ed ontologicamente epifanica e/o progetto cosmotetico-cratofanico che urta il mondo intero e dall’altra una res che viene dis-incarnata in quanto materia e sagoma non sono essenziali, confondendo così la struttura dell’opera con la sua percezione-impatto, e la sua cosalità con la sua artisticità.
Per Heidegger l’opera d’arte sembra esistere in quanto arte prima che in quanto res! La percezione ontologica della stessa viene posta prima di quella sensoriale e fisica! Ma così si esce dall’estetica, quale “veste sensoriale”. Questo schematismo cratofanico annulla il ruolo, lo stile, la cifra dell’artista (l’arte è sempre oltre, dice il nostro!) e si dichiara apertamente riduzionistico: “la terra si erge attraverso il mondo e il mondo si fonda sulla terra”…e questo: in pochi modi costitutivi (!) Perché pochi? L’immensa varietà dell’arte prova il contrario.
Anche il tema dell’arte quale punto di rottura con l’abituale percezione del mondo, l’originalità intrinseca di ogni arte, meritava approfondimento mentre Heidegger si limita alla semplice petizione dell’evidenza dell’autofondazione dell’opera artistica e dell’effetto naturale, quindi di conflittualità con la percezione del mondo quale insieme di opere solite, abituali. Si poteva aggiungere che ogni opera artistica se irradia un senso di inizio contiene pure un’aura di conclusione, cioè detta una sua alfa e omega che in sé risiede.
Anche il dire che “arte è dettatura” (dell’Essere verso l’artista?) appare un’espressione ambigua, poetica, dispersiva e veicolante un senso di determinazione autoritaria-autoriale che confligge con l’indifferenza heideggeriana verso il ruolo dell’artista. Siamo di fronte a una visione materialistica, ingegneristica, da “tecnigrafo” dove un progetto artistico misteriosamente si autoimpone alla materia trovando nei modi della forma un equilibrio parziale e momentaneo.
Ma se l’arte è “dettatura” (visione prometeica o magica) come fa a divenire universale, transcronica, partecipabile? Si ammanta di volontarismo-demiurgicità la naturale “presenzialità” (oggi diremmo: performatività) di ogni opera artistica (ma lo sarebbe di ogni res posta su di un podio, Piero Manzoni insegna…). Pure l’ “ambiguità costitutiva” dell’arte (osservazione pertinente) non viene focalizzata né indagata ma solo posta come petizione e giustificazione per un’assenza di risposta sull’identità-essenza dell’arte, mentre si poteva declinare come polisemia strutturale-percettiva e quale trasbordo metacontestuale in ogni oggetto d’arte dalla sua creazione alla sua comunicazione.
Tutti gli equivoci e gli sviamenti di questo saggio sono dialetticamente molto utili per riassumere, a contrario, i tratti essenziali distintivi dell’opera d’arte rispetto ad altre “opere” o res. Elenchiamoli, per come emergono indirettamente o incidentalmente dal e nel saggio medesimo, in una riformulazione più attualizzante:
L’arte quale simbolo;
L’arte quale ambiguità (strutturale, percettiva, semantica);
L’arte quale idea di mondo;
L’arte quale novità-originalità-originarietà (Inizio-Alfa)
L’arte quale fine (finitezza-compiutezza formale);
L’arte quale equilibrio dentro un conflitto;
L’arte quale autogiustificazione/autofondazione/persistenza esistenziale (a livello percettivo-narrativo-comunicativo, oggi: performatività-sinestesia);
L’arte quale epifanicità e luminosità-irradiazione (nella percezione inter-relazionale e nel rapporto con l’ambiente di ricezione).
Heidegger in conclusione non ci parla di arte parlando di arte ma ci vuole iniziare al fascino del suo linguaggio, ci vuole assorbire dentro la sua gnosi linguistica totalizzante. Conclusa la lettura del saggio sappiamo l’essenziale della sua filosofia ma ancora quasi nulla di arte e sull’arte. L’arte è una sfinge impegnativa che confonde le menti più elevate e più acute. La riduzione dell’arte a movimento in termini di energheia, come sostanzialmente opera Heidegger, riporta anche l’arte nel predominio della Tekne, deprecata ma implicata dal nostro pensatore. Resta ancora non eludibile la lezione tomista, qui ripresa da Maurizio Blondet nel suo Adelphi della dissoluzione: “nel mondo materia si dà come formata, cioè incorpora un’intenzione”.