Il 9 febbraio 1813, Orazio Carlo Loepardi avvia in gran segreto la stesura di un diario in cui annotare le proprie osservazioni intorno al comportamento ambiguo e indecifrabile dell'amato fratello Giacomo, che egli preferisce chiamare con affetto Tardegardo. Da qualche tempo, infatti, il primogenito del pedante conte Monaldo e della bigotta ex marchesa Adelaide si mostra sempre più irrequieto sia nel contegno che nel modo di approcciarsi ai propri studi. Approfittando di una sua momentanea assenza dalla biblioteca, Orazio sbircia allora fra i molti libri che il fratello va compulsando già da parecchi giorni per trarne una fittissima mole di note: «C'è da starne interdetti», commenta poi con una certa apprensione, «tanto le materie son disparate» (p. 6)1. Quel che ne segue, in ossequio al gusto di Michele Mari per elenchi e repertori, è un catalogo smodatamente eterogeneo di testi: c'è spazio per le humanae litterae, la storia, la filosofia, le religioni, l'astronomia, la fisica, la zoologia e persino alcuni tomi provenienti «dalla scansia delle cose magiche» (p. 8).

L'accenno a questi ultimi volumi è il primo di una lunga serie di indizi forniti da Orazio a proposito delle bizzarrie inspiegabili di Tardegardo, mentre il lettore, attraverso questo sguardo apprensivo e solidale, si ritrova irrimediabilmente coinvolto nell'atmosfera di una Recanati sonnacchiosa e lugubre, fra le mura dell'opprimente palazzo avito: «Sempre un trasalire, un troncare a mezzo i discorsi, un prestare orecchio di qua per scappare di là, un imaginar spie all'usci e dietro l'angoli, e sospettar d'ogni cosa, finanche de' ritratti degl'Avi!» (p. 9).

Tutto il romanzo Io venía pien d’angoscia a rimirarti è composto sulla base degli spunti offerti sia dalla realtà storica che dall’opera leopardiana, sui quali Mari articola poi la trama e sviluppa i personaggi. Tuttavia, scavalcando le possibili preoccupazioni del biografo a vantaggio dell'invenzione romanzesca, l'autore mette in scena un «singolarissimo capriccio» – come ebbe a definirlo Manganelli 2 – in cui la severità illuministica della filologia leopardiana sembra entrare in conflitto con una equivoca fascinazione per il lato oscuro dei miti e del folklore: «I Poeti ci hanno avvezzati a reputar dilettose solo le immagini tratte dalla Favola e suggerite dalla Fantasia, e a credere che senza l'orpello di vaghi colori e peregrine espressioni il Vero non possa piacere giammai. Ma d'altro non nasce siffatta opinione che da profonda ignoranza, perché esiste un Vero più fascinoso di ogni illecebra poetica, un Vero secreto ed ascoso per gelosia di Natura, e capace di destare le più dolci emozioni come i raccapricci più orrendi» (p. 19).

Si tratta delle ricerche preparatorie al Saggio sopra gli errori popolari degli Antichi, che il giovane Leopardi effettivamente scrive nel 1815 e che qui – leggermente retrodatato – giustifica le sue frequenti incursioni nell'habitat di esseri mitologici e mostruosi che la cultura classica e la tradizione popolare gli mettono a disposizione. In ogni caso, queste inchieste si coagulano presto intorno al un'immagine duplice e ammaliante, quella della Luna – come testimonia d'altronde il titolo del libro, tratto dal terzo verso del celebre canto Alla luna: «Ha due volti, come significa la mitologia de’ Greci riconoscendo in ella ora Artemide ora Persefone, l’una casta e pura e l’altra contaminata da Dite, quella reina del cielo, questa degli abbissi infernali» (pp. 18-19).

A dare una piega ulteriore e un po' allarmante a questa sua morbosa seduzione intervengono due efficaci invenzioni romanzesche: da un lato la presenza nella genealogia dei conti Leopardi di un oscuro antenato di nome Sigismondo, inviso ai suoi contemporanei e perseguitato dall’inquisizione, il quale mette insieme i sospetti di Orazio Carlo con le ricerche del fratello maggiore, proiettando il presente del poeta nel suggestivo schermo della maledizione famigliare; dall'altro quel che accade il 17 marzo, al plenilunio, quando un creatura misteriosa – che non si tarda a riconoscere o quanto meno sospettare come licantropo – sbrana un giovane garzone all'interno della tenuta. Contrappuntare questi due elementi e farne poi un tutt'uno è inevitabile, lo si capisce già dalla nota del diario appuntata il 25 marzo: «La scorsa notte feci un sogno che non mi piacque punto. Non avea nulla di spaventoso, eppur lasciommi un’impressione angosciosa. Sognai ch’era notte, e ch’io entrava nella camera di Tardegardo; egli era in camicia, in piedi dinnanzi alla finestra, al bujo, e riguardava fuori alla Luna, ch’illuminava fiocamente la stanza. Io non avea fatto romore, tuttavia ei si voltò verso di me con uno strano sorriso che non gli avea mai visto fare. “Tardegardo, perché mi sorridi così?”, gli dissi, ed ei, sorridendo anche con gli occhi, risposemi solo: “E tu perché mi chiami Tardegardo? Il mio nome è Sigismondo, nol sai?”» (p. 82).

Il romanzo segue di un solo anno il libro d’esordio di Mari, Di bestia in bestia, e tra le due opere troviamo infatti numerosi punti di contatto. Anche nel precedente il tema essenziale era quello del doppio: lì rappresentato da un fratello gemello di indole belluina, qui addirittura da un lupo mannaro. Nel primo libro, inoltre, emergeva in maniera abbastanza chiara l'idea della letteratura o della cultura in generale come opposizione alla vita, e della creazione fantastica come cura e superamento del male di vivere. Come già in quel romanzo, anche in questo il fulcro topografico dell'intera vicenda è rappresentato dalla biblioteca – che qui è quella reale di casa Leopardi – e in entrambi i casi quel che la biblioteca rappresenta, cioè l'erudizione, è il contraltare alla parte meccanicistica e ferina della vita, al suo inevitabile risvolto istintuale.

La convergenza delle due figure, quella concretamente storica di Giacomo Leopardi e quella fantastica dello sciagurato avo Sigismondo, e la loro successiva giustapposizione, ben si accordano alla figura del giovane poeta innamorato della luna, emancipandola per di più da quella del poeta fanciullo che nella noiosa e schematica vulgata è stata da tempo ridotta a una sagoma dai contorni ben definiti ma irrimediabilmente rigidi, fasulli. Immaginando un Leopardi in odore di licantropia ma paradossalmente vivo e reale, ricostruendo con meticolosa precisione e fantasia la lingua dell’epoca, la sua temperie culturale e l'opprimente clima del palazzo nobiliare, ripercorrendo i manoscritti leopardiani per conferire plausibilità all’invenzione romanzesca, Mari compie un'operazione tutt'altro che peregrina, in grado di trarre un’immagine inedita ma tangibilmente umana dello scrittore di Recanati e un'interpretazione critico-fantastica dei lati più sfuggenti della sua poetica.

È il protagonista stesso che, assumendo coscienza della presunta licantropia con il progredire della narrazione, giunge a un'esegesi del male che lo contamina e che gli scava dentro. Altro non sarebbe, stando a quel che tenta di spiegare al fratello Orazio quasi in conclusione del libro, che una reazione al proprio isolamento di studioso, alle ricerche febbrili e disperate: «Io volevo capire e fui tutto della filosofia e della scienza, dell’astronomia e della storia, e intanto il lupo si rinselvava sempre più nel profondo»; ma preannuncia anche un suo slancio verso la poesia vista come speranza o come presagio di salvezza: «Una cosa mi è chiara: questo spasmo di vita involuta che mi preme e tumultua nel petto non alimenterà più nessun Saggio, e chissà, forse allora non ci sarà uopo d’argento, e il lupo uscirà dalla selva, e insieme correremo […]. La poesia, quella che salvò in gioventù l’infelice Torquato, forse salverà anche me» (p.144).

La chiosa più efficace a questo apocrifo diario forse la offre proprio Mari – ma in pagine esterne a quelle del romanzo – quando commenta così l'attitudine leopardiana e il suo caratteristico modus operandi: «L’opera di un poeta letteratissimo che come nessun altro sapeva trarre la poesia dalla filologia e dall’erudizione, e che anzi nei più impervi e scoraggianti apparati di scholia e nelle glosse più peregrine andava eroicamente e paradossalmente a cercarsi il palpito stesso della vita: l’osceno insomma, l’indicibile, l’immediato». 3

Note

1 Questa e le seguenti citazioni del libro sono tratte dall'edizione Einaudi, Michele Mari, Io venía pien d'angoscia a rimirarti, Torino, 2016.
2 Cfr. l'articolo di Giorgio Manganelli apparso sulle pagine de Il Messaggero, 26 marzo 1990.
3 Michele Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Milano, 2017, cit. p. 598.