La vicenda editoriale e umana di Giampaolo Rugarli – esordiente a cinquantacinque anni con il romanzo Superlativo assoluto (Garzanti, 1988) dopo una vita da funzionario di banca spesa tra Milano e Roma – ben si inscrive fra le significative e gradite irruzioni che nel corso del secondo Novecento hanno ravvivato il panorama letterario italiano.

«A questo punto», dichiara lui stesso un paio di anni dopo, «potrebbe essere falsa l’affermazione tanto comune che si debba scrivere per essere letti; se mai si dovrebbe scrivere per scampare al naufragio, non senza fastidio per l’intrusione indiscreta di ogni eventuale lettore»1. Un autore volutamente appartato, insomma, uno di quelli che si dedicano in maniera solitaria al proprio disagio. Ma, com’è lecito sospettare, i cassetti di chi si è tenuto per lungo tempo ai margini dell’industria libraria, o addirittura fuori dalla sua orbita, raramente risultano vuoti. Non fanno eccezione quelli di Rugarli, il quale, a distanza di pochi mesi dal primo, pubblica già il suo secondo romanzo, La troga, stavolta con l’editore Adelphi. Ne faranno poi seguito molti altri, a cadenza ravvicinata, prima del lungo sodalizio con Marsilio che si protrarrà fin oltre la morte dello scrittore, avvenuta nel 2014.

Per introdurre e inquadrare non solo il caso umano di questo autore ma la specifica opera che qui viene presa in esame, possono risultare utili ancora una volta le stesse affermazioni di Rugarli: «Non c’è niente nei miei libri e in me stesso che possa attirare gli editori o anche i librai: scrivo cose amare, scarsamente consolatorie, ignoro la grande arte del romanzo storico e […] sono sincero in maniera insopportabile»2. E schietto il nostro autore lo è stato fin troppo in questa sua seconda opera, tant’è che dietro gli opportuni camuffamenti narrativi del romanzo traspare in modo abbastanza chiaro l’Italia degli anni di piombo, quella della P2, della Democrazia Cristiana, delle stragi terroristiche, dell’intesa fra politica e organizzazioni criminali.

«Nel libro […]», scrive Leonardo Sciascia recensendo La troga, «s’intravedono tanti di quegli elementi che appartengono alla storia italiana dell’ultimo mezzo secolo, che si finisce col leggerlo come se quella storia fosse stata reinventata in una sfera surreale, metafisica: da sogno, da incubo. […] Tutta la cronaca della corruzione italiana confluisce nel libro, vi si amalgama, vi si esalta: con feroce allegria, con allegra ferocia. E i personaggi hanno a momenti i tratti fisici, il linguaggio, i tic di altri che campagne elettorali, scandali, cronache parlamentari e crisi di governo ci hanno fatto ben conoscere»3.

Il romanzo è diviso in tre atti, con tanto di prologo ed epilogo, e a confermare questa sua attitudine drammatica l’opera incomincia proprio con l’inventario dei personaggi ivi coinvolti, originalmente divisi tuttavia fra «i vivi» e «i morti». In coda a questo elenco, Rugarli precisa che: «L’azione si svolge a Roma, a Lavinio e in Calabria: qualche tempo prima dell’anno Duemila. Notte, pioggia, neve, nebbia, attentati, epidemie, inflazione»4.

Fra i vivi delle dramatis personae figura il commissario Carlo Pantieri, che all’interno del prologo riceve la visita di un’agitatissima anziana signora la quale per prima inizia a parlargli della «troga». Il poliziotto, velato omaggio al commissario Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda, non prende sul serio le informazioni fornite dalla donna, e la bizzarra informatrice – il cui cadavere verrà ritrovato qualche tempo dopo fra le acque del Tevere – lancia per lui una profezia: «Commissario, lei sarà distrutto dalla troga»5.

Da questo momento in poi, il termine comincia a ricorrere spesso, finché Pantieri, che attraverso i dialoghi dei suoi interlocutori è costretto suo malgrado a sentirlo ripetere con sempre maggior frequenza, arriva inevitabilmente a percepirne il sottile e oscuro pericolo. Ma cos’è in definitiva la troga? Sciascia, nella già citata recensione, si diverte a immaginare come il neologismo possa venire accolto e definito nei futuri dizionari della lingua italiana: «Troga: parola inventata da Giampaolo Rugarli e denominazione di un’associazione segreta di cui […] racconta le inverosimili trame delittuose. Dal greco trogo: corrodo, rodo, divoro; ma anche come anagramma del nome di un protagonista del racconto: Grato. Nell’uso ormai invalso, la parola ha il significato dell’operare, nel governo dello stato, da parte di coloro che ne hanno il potere, a modo di un’associazione criminale»6.

Proprio l‘onorevole Lauro Grato Sabbioneta, cui lo scrittore siciliano fa riferimento, è una delle chiavi di volta del romanzo. In maniera nemmeno tanto velata, attraverso di lui Rugarli rimodula infatti la figura di Aldo Moro, rapito e ucciso esattamente dieci anni prima, ma ne deforma ulteriormente i tratti con una certa dose di sarcasmo: «Dalla prigione in cui lo costringevano i suoi rapitori, spediva messaggi. Per posta, per corriere speciale, per telegrafo, per affissione murale, per cestini dei rifiuti… Bastava adocchiare una carta e con novanta probabilità su cento era una lettera di Sabbioneta. Una cosa imbarazzante, perché la coscienza di tutti si stava avvezzando a considerare lo statista un martire della causa, anche se non era chiaro di quale causa […]»7. Prima dell’inevitabile dipartita dell’esponente politico, a renderne ancora più grottesche la figura e le circostanze che lo vedono coinvolto, ecco una sua nota testamentaria in cui, per mezzo di una massima, racchiude il significato che secondo lui hanno le vite degli uomini, compresa la propria: ingestione, digestione, defecazione. Di fronte a tale congedo, anche il commissario Pantieri rimane attonito, forse perché, all’affiorare delle umane debolezze dell’onorevole, terrorizzato di fronte all’idea della morte imminente, ciò che viene annientato è «il mito di un uomo» al di sopra di tutto e tutti, di un nume prima inaccessibile e poi decaduto «senza alcuna preoccupazione per l’immagine che consegnava ai posteri»8.

Pur nella sua centralità, Sabbioneta non oscura l’importanza dei tanti altri personaggi, maggiori e minori, che affollano le pagine del romanzo e che a un ritmo spesso vertiginoso interconnettono le proprie vicende gli uni con gli altri. Tuttavia, è il contesto che assurge non solo a personaggio aggiuntivo ma a protagonista assoluto della vicenda. Lo si potrebbe ravvisare nelle oscure trame del potere, nell’ineluttabilità con cui questo governa le sorti degli uomini, nel tributo – materiale e non – che tutti sembrano costretti a versargli affinché non essere irrimediabilmente soverchiati. Eppure, Rugarli compie un’operazione ancora più suggestiva, più suggestivamente amara ed elegante: proietta tutti questi simboli e contrassegni nella descrizione dei luoghi e nel clima che li contraddistingue.

A dispetto di quel che si afferma in calce all’iniziale elenco, Lavinio e la Calabria giocano un ruolo periferico, mentre lo scenario principale di tutta la vicenda è la capitale, sorta di nuova Babilonia e culla di ogni possibile abiezione: «Roma non era una città vera e propria con una fisionomia definita; semmai era un agglomerato di città accomunate dalla vocazione alla cancrena»9. Come sembra suggerire il passo in questione, Roma sarebbe a sua volta simbolo e sineddoche dell’Italia intera; ma in un gioco di continue rifrazioni allegoriche, ciò che caratterizza in definitiva lo scenario è senz’altro la notte, intesa non soltanto come necessità circadiana bensì come vocazione alla tenebra, come condicio sine qua non del male che si annida nell’oscurità e dall’oscurità trae beneficio e sostentamento: «Calò il sole. La creta del cielo sembrò frantumarsi, macigni di notte incombevano sui cuori»10; e ancora: «La notte. Ancora e sempre la notte. Sembrò a Pantieri che la buia cavità del cielo li risucchiasse e li trascinasse in alto, mentre, sotto di loro, dune di sonno avvolgevano il resto dell’umanità smarrita nel deserto. In cielo era un bossolo agitato da una mano invisibile; apparivano e svanivano saettando nuovi astri, nuovi pianeti, nuovi destini»11.

Un teatro immerso nella caligine, quello imbastito da Rugarli, una comédie humaine in cui la realtà del nostro paese viene sì opportunamente trasformata secondo i canoni di finzione della narrazione, ma senza per questo perdere il proprio valore di inesorabile testimonianza di un preciso momento storico, sociale e politico. Su questo sfondo in cui si avvicendano e si sovrappongono le sorti dell’onorevole vittima di sequestro, di un suo presunto figlio terrorista, del rozzo e volgare sostituto procuratore Raimondo Conti (che non sa esprimersi in altro modo che in un dialetto altrettanto rozzo e volgare) o dello strampalato giudice Anteo Biraghi, amico del commissario Pantieri e importatore di esemplari di topi africani che scateneranno un’imprevedibile epidemia di peste, il grottesco carosello di personaggi che fa la sua comparsa in scena celebra in negativo la fine del millennio oramai alle porte, con tutto il suo carico di corruzione – nelle più probabili e improbabili declinazioni – e di nefandezze varie.

Umano, troppo umano, si sarebbe tentati di affermare con Nietzsche e attraverso un volo pindarico ma non troppo. La vicenda imbastita in queste pagine di romanzo è densa di umana nequizia, di sfacelo, di maneggi e concussioni, talmente densa da far sì che tutte queste azioni più o meno riprovevoli si fondano in un unico e inscindibile ammasso, in un agglomerato che è la quintessenza del male che affligge la nostra società. E se Giampaolo Rugarli è quanto mai sincero, fin quasi all’autolesionismo e al concreto rischio di estromissione dal circuito editoriale, è anche consapevole del fatto che il cumulo di marciume di cui tratta con spregiudicata irriverenza è comunque una pallida eco di quella verità imperscrutabile che si cela dietro alla troga, o meglio, dietro al meccanismo che in quest’opera ha trovato concretezza verbale – per esigenze formali o per necessità estetiche – ma che di fatto è senza nome. Come a dire che allo scrittore è demandato solo il compito di illuminare per breve tratto e in maniera intermittente, e al lettore quella di sapersi accontentare degli sprazzi di luce che talvolta gli si parano davanti: «[…] le parole non sono fotografie, non sanno catturare specularmente le cose, il sangue scritto sulla carta non è il sangue che intride i calcinacci e i marciapiedi. Il cronista non può illudersi di trascrivere la realtà: se è fortunato può evocare risonanze nebbiose o suscitare ambigui suoni dell’anima. Mormorii, voci o singulti. La morte, quella vera, si impregna di formalina, di incenso, di chiesa, di preti, di terra e nessuno sa raccontarla»12.

Note

1 G. Rugarli, La resa dei conti, in Diario di un uomo a disagio, Milano, 1990, p. 87.
2 G.Rugarli, Feuilleton e marketing letterario, p. 246.
3 L. Sciascia, Cronache all'italiana con incubo, supplemento Tuttolibri n. 602, La Stampa, 7 maggio 1988; successivamente in La fine del carabiniere a cavallo, Milano, 2016, cit. p. 189.
4 G. Rugarli, La troga, Milano, 1988, p. 10.
5 Ivi, cit. p. 18.
6 L. Sciascia, Op. cit., p. 188.
7 G. Rugarli, La troga, cit. p. 147.
8 Ivi, cit. p. 156.
9 Ivi, cit. p. 89.
10 Ivi, cit. p. 195.
11 Ivi, cit. pp. 180-81.
12 Ivi, cit. p. 34.