Gli Alisei di Nord est spingono dall’Atlantico una coltre di nubi che ammanta, nei mesi di luglio e agosto, i versanti settentrionali delle isole con una grigia cappa di brume fredde e umide.

Le genti del posto chiamano La “panza del burro” la pancia dell’asino, questo clima plumbeo poiché il colore del cielo ricorda quello del ventre di quell’animale ed è proprio grazie a queste nebbie cariche di umidità se il nord delle Canarie è ricoperto da una lussureggiante vegetazione e non arido come il sud, che il vicino deserto del Sahara sembra rivendicare spingendo da sud est, con lo scirocco, il suo alito caldo e sabbioso, la Calima, una caligine giallastra carica di sabbia, fino a formare veri e propri avamposti desertici come le celebri dune di Maspalomas qui a Gran Canaria o di Corallejo a Fuerteventura.

E’ proprio per sfuggire a quel grigio nebbioso che questa estate ci siamo addentrati verso la montagna poiché a circa seicento metri di altitudine le brume si dissolvono restituendo l’isola al sole del tropico del Cancro. La strada che dalla costa sale al Pico de la Nieves, la più alta montagna dell’ isola, è una interminabile serie di tornanti con repentini cambiamenti di paesaggio dovuti al variare dell’ altitudine e, per un bizzarro fenomeno di inversione termica, più si sale e più il clima si fa torrido.

Ad un certo punto, valicato un passo, la via scende in una conca naturale circondata da un paesaggio roccioso talmente bizzarro e tormentato che Miguel de Unamuno, filosofo e politico spagnolo esiliato in queste isole, lo chiamò “tempesta pietrificata”.

Su di un promontorio al centro della piccola valle si trova il borgo di Tejeda, un pugno di case bianche come ossa calcinate al sole, raccolte attorno ad una grande chiesa.

La cattedrale del paese non presenta alcuna caratteristica degna di nota: una grande costruzione dei primi del novecento nella quale entro solo per cercare un po’ di frescura e di ombra. Girando pigramente per le navate, tra strane statue di santi rinchiuse in tristi bacheche e brutte intonacature dai colori sgarbati, noto in fondo alla chiesa una nicchia al centro della quale è posta una grande scultura dalla strana forma che in un primo momento, essendo in controluce, non riesco ad identificare.

Mi avvicino per guardare meglio e mi trovo come folgorato al cospetto di un grande crocifisso ligneo tragicamente mutilato ed in parte carbonizzato ma che, tra i banali arredi circostanti, emana una formidabile energia spirituale da quel che rimane del tronco e soprattutto dal nobile e bellissimo volto reclinato nella quiete della morte.

Come spesso accade in queste isole banalizzate ed avvilite da un industria turistica devastante che ti può demotivare e disincentivare ma che poi, girato un angolo o valicato un passo montano, ti presenta inaspettatamente paesaggi incontaminati di grandiosa bellezza, il potere di quella sacra immagine mi riscuote dal torpore annoiato con cui ero entrato e risveglia il mio interesse per un’ opera così improbabile in un posto come quello.

Fortunatamente In un angolo della nicchia, sotto la statua, c’è una piccola bacheca con un manoscritto in spagnolo che racconta la storia di quel formidabile manufatto.

La traduzione è pressappoco questa: “Nel paese di Tejeda, nel giorno 17 luglio 1935, essendo Curato di questa parrocchia Don Jose’ Rodriguez Vega mentre si stavano svolgendo lavori nel pavimento della chiesa per abbassarlo e riportarlo al livello originario, nello spazio davanti all’altare maggiore, gli operai Don Juan Vega, Don Antonio Herrera, Don Victoriano Quinta e Don Manuel Rodrigues stavano scavando, quando Don Antonio Herrera urtò con la sua pala quello che a prima vista sembrava un pezzo di palo ligneo.

Il signor Curato che presiedeva i lavori lo notò e fermato lo scavo ordinò che il reperto venisse disseppellito con la massima precauzione”.

Venne estratto un oggetto che risultò essere l’ immagine di un Cristo sotterrato con il viso verso il basso e avvolto in un telo. La statua aveva ben conservato solo il volto e il tronco, essendo le braccia, i piedi e gran parte delle gambe, consumati probabilmente dall’incendio della vecchia chiesa che, avendo distrutto il tetto aveva esposto i resti alla pioggia e alle intemperie che nei nove anni seguenti avevano completato la devastazione.

L’immagine era probabilmente di legno di Tè.

La notizia del ritrovamento si diffuse rapidamente per il paese e praticamente tutti gli abitanti sfilarono nella sacrestia dove era stata collocata la sacra immagine ma nessuno, nemmeno i più anziani, ricordava di aver mai visto quel crocifisso.

Inoltre le caratteristiche dell’ opera, in particolare la bellezza del volto e l’ intaglio raffinato di ciò che rimane del busto, fanno supporre si trattasse di un oggetto di grande valore e quindi non ci si spiega il motivo per cui un’ immagine così preziosa sia stata interrata sotto il pavimento della chiesa se non forse per precauzione, per il timore di qualche Curato dei secoli passati, che venisse rubato durante una delle allora frequenti incursioni dei pirati, come riportano spesso le cronache delle parrocchie vicine.

Nell’ archivio non si trova alcun riferimento a questo fatto tranne forse un documento, datato 1578, nel quale si concede l’autorizzazione al signor Curato del paese di Tejeda di fondare la “ congregacion de la Sangre” per cui si desume che quel Cristo sia il “Cristo de la Sangre” anche se non vi sono prove che possano attestarlo con certezza”.

Questa è la storia del Cristo de la Sangre, ma la potenza simbolica del crocifisso di Tejeda, così spogliato di ogni orpello e di ogni ornamento, spaccato da una crepa del suo legno martoriato dai secoli che ne attraversa il volto e il busto e che, lungi dal deturparlo, ne esalta la tragica, nobilissima bellezza, non nasce tanto dalla sua storia avventurosa, ma proprio dal suo essere l’ immagine stessa della sofferenza e del dolore e della terribile sfida che l’ assurdità di quel martirio lancia agli uomini di ogni tempo e di ogni fede.

“Credo quia absurdum” gridava Tertulliano, apologeta cristiano del II secolo, “credo perché è assurdo”, e tale atto di fede incondizionata costituisce la cifra interpretativa del valore assoluto che il Cristianesimo conferisce al dolore, anche a quello che sembra gridare vendetta al cielo come il dolore dei bambini e degli innocenti.

Ma per chi non possiede l’inestimabile dono della Fede, la sofferenza del mondo è insopportabile, eppure anche a costoro, anzi, soprattutto a costoro parla il Cristo di Tejeda, con il suo bellissimo nobile volto disteso nella quiete di una eroica accettazione del tragico destino che attende la materia, carne dell’universo, soggetta ovunque alla decomposizione e alla morte.

Ancora assorto in tali pensieri esco dalla chiesa sul sagrato inondato dalla accecante luce meridiana che invade la conca, traboccando dai terribili taglienti profili del Roque Nublo e del Roque Bentayga, ma dietro ad essi, dilatandosi all’infinito nella caligine azzurra, mi sembra di scorgere ancora sullo sfondo del cielo quel nobilissimo volto reclinato a contemplare il mistero del mondo.