Eleonora Duse, Alessandra di Rudinì e Giuseppina Mancini. Tre amori di Gabriele d’Annunzio, convergenti – anche se in diversi periodi – alla Capponcina; dimora fiorentina del Vate dal 1898 al 1910. Anni di fervido estro letterario, trascorsi all’interno della casa dei sogni.

Dell'Amore, del Miracolo, della Morte è il millimetrico lavoro di ricerca svolto da Tobia Iodice nel ricostruire le tre relazioni del Poeta, dedicandosi ad una certosina ricerca storica, ricca di lettere e stralci di giornale. Sodalizio, dedizione, follia. Solo una delle possibili triadi attraverso le quali è possibile rivivere gli intrecci amorosi analizzati da Iodice in una superba opera che dialoga cronologicamente con la precedente Come un sogno rapido e violento, puntuale analisi degli anni napoletani di d’Annunzio.

Parto col chiederle perché pensa che il periodo trascorso a Napoli sia di cruciale importanza nella vita del Vate.

I ventisette mesi che Gabriele d’Annunzio trascorse a Napoli sono generalmente poco studiati e considerati dalla critica. Eppure furono fondamentali nella vita e nell’arte dello scrittore abruzzese. All’ombra del Vesuvio, infatti, d’Annunzio compose tre nuovi romanzi e altrettante raccolte poetiche, scrisse alcuni articoli giornalistici che diedero una scossa all’imbalsamato mondo delle Lettere nazionali, si avvicinò per la prima volta al teatro, che successivamente tanta parte avrebbe avuto nella sua produzione. Sempre qui interruppe la sua relazione con Barbara Leoni (una delle donne più importanti della sua vita), divenne padre di Renata, l’adorata figlia, toccò il baratro della disperazione e poi ritrovò in sé la forza per risalire la china. Insomma, quei due anni e poco più per lui furono davvero «come un sogno rapido e violento».

Gli anni di ‘splendida miseria’ come hanno forgiato uomo e scrittore, a suo avviso?

Nel rispondere a questa sua domanda, mi permetto, in primo luogo, di puntualizzare una cosa: d’Annunzio non parlò mai del suo soggiorno a Napoli come di un periodo di «splendida miseria». Questa definizione, divenuta ormai celebre, altro non era che il titolo del capitolo di una biografia del Poeta dedicato a quei ventisette mesi, e non si rifà ad alcuna affermazione autografa dell’Abruzzese. Tornando invece allo specifico di quanto mi chiede, la permanenza a Napoli permise allo scrittore d’Annunzio di rilanciarsi prepotentemente sulla scena letteraria. Non dimentichiamo, infatti, che quando approdò nel capoluogo campano egli era un autore pressoché “finito”, il cui nuovo libro, «L’Innocente», era stato rifiutato dai maggiori editori dell’epoca perché ritenuto osceno, immorale e soprattutto – udite, udite – noioso. Nel capoluogo campano il Nostro riuscì invece a pubblicarlo quel libro (tra l’altro con grande successo), dimostrando ancora una volta di essere un’araba fenice, capace di rinascere dalle sue stesse ceneri. Lo stesso accadde sul piano più strettamente personale, avendo intrecciato a Napoli una serie di rapporti con intellettuali e giornalisti, che si riveleranno fondamentali per la sua carriera futura.

Annamaria Andreoli ha definito la sua opera un ‘concerto armonioso’. Non solo concordo, ma le chiedo quali sono state le sfide nel dar voce ai tanti volti ed alle tante personalità connesse con il poeta in modo così magistrale.

Vede, le opere che in passato erano state dedicate alla permanenza di Gabriele a Napoli, a mio avviso sbagliavano la prospettiva. Tutte quante, infatti, si ponevano nell’ottica di studiare semplicemente il soggiorno di d’Annunzio a Napoli. Io, invece, ho voluto ricostruire il rapporto tra d’Annunzio e Napoli. Perché tra lo scrittore e il capoluogo campano fu una vera e propria “relazione d’amore” quella che si instaurò. Una “relazione” fatta di un passionale inizio, di un intenso e a tratti conflittuale svolgimento, e di una conclusione nella quale - come in tutti quanti gli amori che finiscono - “volarono gli stracci”. Salvo poi, da parte del Poeta “riappropriarsi” di quel suo tempo nella luce dolce della memoria. Ebbene, nella mia ricerca mi sono mosso un po’ come un paparazzo che segua col suo obiettivo indiscreto tutte le fasi di questo “amore” tempestoso, rubando immagini inedite e soprattutto ascoltando le voci dei testimoni. Ho provato così a far sentire il lettore testimone privilegiato di quella liaison tra il Poeta e la sirena Partenope.

In entrambi i volumi è palese la minuziosa ricostruzione storica. Come si è mosso nella ricerca del materiale in entrambi i casi?

Fondamentale, nella mia ricerca, è stata la consultazione di una fonte storica preziosissima, che come un tesoro di inestimabile valore era sotto gli occhi di tutti ma che pure nessuno aveva mai cercato: i giornali dell’epoca. Le copie del “Corriere di Napoli” e de “Il Mattino” dei circa tre anni del soggiorno dannunziano a Napoli, custodite in varie emeroteche, erano infatti zeppe di notizie, curiosità, aneddoti sulla vita dell’Abruzzese all’ombra del Vesuvio che non erano mai state raccolte. Inoltre, pur a distanza di 130 anni, conservavano ancora quel fresco profumo di verità, di vita vera, vissuta, che solo un quotidiano sa restituire.

Molti i libri dedicati alle figure femminili nella vita di d’Annunzio, eppure pochi paiono approfondire realmente l’argomento. Ho trovato davvero brillante l’idea di partire dalla Capponcina, per porre in una luce nuova tre compagne fondamentali nella vita del Vate: Eleonora Duse, Alessandra di Rudinì e Giuseppina Mancini. Qual è stata la genesi di un’idea così raffinata?

Anche per questo mio nuovo «Dell’Amore, del Miracolo e della Morte» sono partito da un “tesoro” alla portata di tutti, eppure per nulla cercato. Nelle biografie, negli studi su d’Annunzio, di queste tre donne straordinarie si parla a lungo, eppure nessuno, fino ad ora, si era mai concentrato sull’elemento fisico che materialmente legò il Vate alla grande attrice, come poi alla marchesa di Rudinì e alla contessa Mancini, e cioè la casa tra le cui mura queste relazioni si consumarono. La Capponcina fu il luogo in cui quegli amori vissero il loro acme (vedi nel caso della Duse), i loro momenti più dolorosi (soprattutto per quanto riguarda la di Rudinì), i loro abissi più drammatici (in maniera particolare per Giuseppina Mancini). E fu anche il posto dove questi rapporti amorosi toccarono le vette della sensualità, sopportarono le più furibonde scenate di gelosia, e infine conobbero i loro tempestosi epiloghi. Non si poteva, a mio avviso, parlare del rapporto tra Gabriele d’Annunzio ed Eleonora Duse, Alessandra di Rudinì e Giuseppina Mancini senza partire dalla Capponcina, dalla «casa dei sogni» in cui tutto avvenne.

Quali nuovi dettagli ci svelano i carteggi e le riviste dell’epoca su queste tre figure così significative e sul loro rapporto con d’Annunzio’?

Per anni è stata narrata la “leggenda” che voleva Gabriele “brutto, sporco e cattivo” e la Duse, invece, una povera vittima dei tradimenti e dei sotterfugi dell’amante. Non è vero! Dalle cronache delle messe in scena dei testi teatrali che d’Annunzio scrisse per la “Divina” Eleonora, emerge invece prepotentemente come a tenere in mano le redini della loro relazione era lei e non lui. Incrociando quelle cronache con le lettere che i due amanti si scambiarono, viene fuori come era Eleonora a dettare i ritmi del loro rapporto. Un rapporto che per lei era in primo luogo artistico, e poi sentimentale. Anche per quel che riguarda Alessandra di Rudinì, si è sempre ricostruita la sua vicenda come se si trattasse di quella di una novella Geltrude manzoniana. Ecco allora la figlia del Presidente del Consiglio, la donna più bella della sua epoca, perdere la testa per lo “scrittore favoloso”, vivere con lui una relazione fatta di eccessi di ogni tipo, e poi andare a chiudersi in un convento carmelitano. Non è vero nemmeno questo! Fin dall’adolescenza Alessandra era una donna agitata da una profonda inquietudine, che nasceva dalla ricerca sofferta di un senso profondo dell’esistenza. Non fu certo per la vergogna di essere stata l’amante di Gabriele d’Annunzio che si fece suora carmelitana. L’approdo alla vita monastica fu il naturale epilogo di una vita spesa a cercare delle risposte alle tante domande che da sempre la tormentavano. E a proposito di tormenti, Giuseppina Mancini, la cosiddetta “amante pazza”, non perse il senno a causa del Vate. La sua fragilità psichica veniva da lontano, aveva radici profonde, nasceva da un rapporto di amore-odio nei confronti del padre. La follia che si manifestò sin dalle prime battute della sua relazione con Gabriele l’avrebbe travolta comunque, anche se non fosse diventata «l’ultima felicità», l’ultimo vero amore dell’autore de «La pioggia nel pineto».

Posso chiederle se sta lavorando a nuovi progetti, magari – nuovamente – dannunziani?

Guardi, dopo quasi cinque anni di ricerche e di studi per scrivere questo mio nuovo lavoro, adesso voglio concentrarmi ad accompagnare questa mia fatica, provare a far conoscere a quante più persone possibili la storia di queste tre donne fragili e forti allo stesso tempo. Per adesso non ho progetti, né nuovi lavori in cantiere. Di sicuro, però, parafrasando un celebre motto dannunziano, non sono «né immobile, né inerte». Mi guardo intorno, alla ricerca di nuove storie da raccontare. È un’operazione lenta, e soprattutto che non permette di fare previsioni. Chissà! Stia però certa che appena qualcosa comincerà a bollire in pentola, la informerò.

L’autore

Tobia Iodice insegna Italiano nella Scuola Secondaria Superiore. Ha tenuto in tutta Italia incontri e serate dedicate all’opera di Dante, Ariosto, Foscolo, Carducci e d’Annunzio. Autore di numerosi saggi di argomento storico e letterario, nel 2013 ha pubblicato Tutte le sfumature della rosa. Eros e passione nelle lettere d’amore a Barbara Leoni (Cento Autori) e, nel 2016, ha curato la ristampa della raccolta di novelle dannunziane I Violenti (Cento Autori).