Sovente Carmelo Bene cita il distico dell'Eusebio Nazionale, come egli lo definisce, Eugenio Montale:

Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Proprio Non chiederci la parola di Eugenio Montale può essere presa come guida per comprendere gran parte, se non l'intera opera di Carmelo Bene: teatro, poesie e film; a patto che di tale poesia venga proposta una lettura alternativa, fuori dagli schemi scolastici. Per introdurre questa percezione nuova della poesia montaliana in oggetto è necessaria una premessa di carattere generale. Fin da scuola siamo educati ad analizzare i testi poetici. A scomporli. Individuare le figure retoriche: il celebre enjambement di Spesso il male, ad esempio, o la deissi dell'Infinito del Leopardi, e metafore, similitudini, sineddochi e ossimori e metonimie. Il significato di una singola parola o di una frase. La semplificazione del testo (la parafrasi) pratica contro la quale lo stesso Carmelo Bene, citando Ennio Flaiano, si scagliava: "Sempre caro mi fu quest'ermo colle" diventa" Questa collina mi è sempre stata cara". Rapportiamo il significato complessivo di una poesia al contesto dell'epoca in cui l'opera è stata scritta. Ma non abbiamo l'abitudine a cogliere il significato unitario di un testo. A sentirlo. A rintracciarlo nel nostro vissuto. Un poeta, invece, spesse volte vuole solo parlarci di uno stato d'animo. Esprimere un sentimento. Un sentimento che lo attraversa in un momento preciso della sua vita. Siamo noi, ricostruendo, a smarrire questa emozione seminale e concreta. Il poeta sta solo cercando di comunicare qualcosa di lui. Siamo noi a volare alto.

Tenendo conto di questa necessaria premessa, procediamo all'analisi del testo montaliano. Leggiamo.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Il poeta comincia con la richiesta (in forma di imperativo, però) di non chiedere una parola che illumini chiaramente il nostro animo ("squadri da ogni lato il nostro animo"). Di solito, questo verso fa venire in mente il contesto storico nel quale Montale ha scritte le sue parole. Siamo nel 1923. Dunque, crollo delle certezze. Nietzsche, Freud, Kafka. Tuttavia, bisogna riflettere ricordandosi che la poesia offre sempre una soggettività. Quantomeno, la migliore poesia. Non offre verità o certezze. Possono esserci eccezioni, certo.

Ma la poesia è quasi per antonomasia il regno del soggettivismo e dell'emotività. I poeti non hanno parole certe. Pertanto, appare singolare che un animo grande come quello montaliano faccia un'affermazione come quella iniziale. Tra l'altro, Montale comincia con l'imperativo di non chiedere al poeta certezze, ma termina il suo testo facendo egli stesso un'affermazione ("Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). Montale afferma qualcosa. Offre un punto stabile. Peraltro, nel dire "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" fa uso, Montale, di un'ontologia. Non siamo. Curioso, perché Montale, seguendo la vulgata dell'esegesi comune, avrebbe forse potuto scrivere "ciò che non sappiamo". Poiché viviamo, infatti, in un secolo dove sono crollate le certezze, ne consegue affermare a ragione che io poeta parlo di cose che in fondo non conosco. Quantomeno, non conosco fino in fondo. Invece, Montale dice "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".

Allora, mettendo da parte per ora questa apparente discordanza d'intenti, e questa apparente oscurità lessicale, riprendiamo la lettura. Al secondo verso incontriamo: "e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco". Dunque, dice Montale, secondo il comune interpretare: "Non chiederci parola che dica qualcosa di stabile e certo dichiarandolo a chiare lettere". Ma anche qui, "a lettere di fuoco" vuol dire "scolpito nella pietra" o vuol dire, invece, "orgogliosamente"? Differenza rilevante. Se infatti "a lettere di fuoco" può interpretarsi come "orgogliosamente", allora Montale ci sta dicendo: "Non chiederci una parola che presenti il nostro animo informe come qualcosa di bello e che si possa dichiarare orgogliosamente, gridare ai quattro venti con fierezza: guardate la bellezza del mio animo!". Anche perché l'animo è "informe". "Informe" cosa vuol dire? Vuol dire appunto "senza forma" in quanto "incerto", "Instabile" o vuol dire, invece, altro? In effetti, l'"informe" non è una cosa bella. Non c'è proprio nulla di bello nell'"informe". Informe è la forma del mostro. Informe è… mostro. Questo è interessante perché, forse è un caso, ma vicino a "informe" nel testo di Montale c'è scritto "nostro". "Nostro" evoca molto da vicino "mostro". Chissà che Montale non abbia voluto usare quella parola (un pluralis maiestatis di per sé piuttosto abusante) per suggerire "l'animo mostro informe"? Dunque, parafrasiamo: "Non chiederci la parola che illumini un animo non bello, ma mostruoso, pieno di ombre, pieno di cose difficili da buttare fuori, da dire e lo dichiari, per giunta, con fierezza". E poi il testo prosegue: "Ah l'uomo che se ne va sicuro agli altri e a se stesso amico e l'ombra sua non cura". L'uomo va sicuro e non si cura di avere un'ombra. Tutti abbiamo un'ombra. Ma quest'uomo così sicuro di sé, della sua reputazione, di essere a posto con se stesso non si cura della sua ombra. Ma Montale dice: "Nessuno è completamente a posto. Tutti hanno un'ombra. Qualcosa che non va. Qualcosa di cui provare vergogna. Tutti hanno scheletri nell'armadio".

E poi prosegue, Montale: "Non domandarci la formula che mondi possa aprirti. Sì qualche storta sillaba e secca come un ramo". Ovvero: "Non domandarci una parola magica che possa schiuderti chissà quali mondi. Domandaci invece una parola… brutta. Secca e storta come un ramo". Montale, insomma, prosegue dicendo: "Se vuoi qualcosa di butto da noi oggi, te lo possiamo dare. Ma non chiederci qualcosa di bello. Una parola magica: abracadabra o apriti sesamo. Parole magiche che possano aprirti porte oltre le quali trovare forzieri e tesori pieni d'oro. No. No. Noi, oggi, storte sillabe e secche".

"Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Allora, adesso, capiamo che cosa intenda Montale. Montale, riassumendo il senso globale del testo, vuol dire: "Oggi noi… e non è una questione così filosofica… oggi noi ti diciamo quello che non siamo e quello che non vogliamo. Le poesie che scriveremo e le storie che racconteremo diranno cose che non siamo noi. Noi non siamo quella roba lì. Non siamo quella roba lì. Non siamo noi. Io ti offro delle cose brutte perché è il mondo a essere brutto, ma io non sono brutto. Quantomeno, non completamente. Perché sono consapevole delle mie ombre e del mostro informe che alberga nel mio animo. Ascoltami. Ascoltami bene. Io ho un animo informe. Qualcosa vi ribolle. Qualcosa di non completamente buono. Non è buono. E te lo offro. Te lo offro e tu devi saperlo. Devi sapere che quello che leggerai scritto da me non è buono, non è bello, non si fa. Non lo devi ripetere. Ѐ esempio negativo. Non lo devi seguire. Tuttavia, io non sono quello. Non sottoscrivo quelle cose di cui sono autore. Non le ratifico".

Questo è molto importante. Di solito, infatti, per deformazione scolastica e culturale, pensiamo che dentro i libri ci siano esempi di etica positivi. Pensiamo fiduciosi che un libro promuova una visione del mondo. Promuova i valori di cui parla all'interno. Io stesso, proprio io autore di questo scritto, quando presento un romanzo, vengo presentato con lodi. Poi, chi mi presenta incomincia a leggere il libro e si chiede: "Ma qui? Cosa c'è scritto qui?". Semplice. C'è scritto quello che mi è parso di vedere. Non c'è scritto ciò che desidero accada. I miei sogni. I miei desideri. No. Tutt'altro. C'è la denuncia di ciò che non va. Le lordure. Le sporcherie.

Che cosa tematizza, insomma, Non chiederci la parola di Eugenio Montale? Questo: la poesia può o non può occuparsi del brutto? Questa non è una faccenda così oziosa e banale come potrebbe a noi oggi a tutta prima parere. Oggi infatti siamo portati a fare spallucce e a dire: "Ma certo che la poesia può parlare del brutto! Deve. Può parlare, la poesia, di ciò che vuole!". Ma lo stesso: non è così banale, la questione. Questo lo si capisce bene, ancora una volta, attraverso la pratica diretta della scrittura. Scrivendo. Facciamo un esempio. Pratico, concreto. Se vuoi scrivere un romanzo e lo vuoi pubblicare per una casa editrice buona oppure lo vuoi far leggere a degli scrittori (io ho amici scrittori a cui mando le cose molto bravi: Antonio Moresco, Marino Magliani, Giulio Mozzi) non puoi mandare una roba scritta di getto e sperare la leggano. Se gliela mandi così, te la tirano dietro. Allora cosa fai? Ti spacchi la testa e metti a posto tutte le cose il più possibile. Poi, te lo rifiutano lo stesso. Comunque, ci provi e fai così. Quindi, che cosa fai? Curi la forma. Ripetiamo. Curi la forma. Però, curare la forma, mettere in musica parole è lecito se la materia di cui parli è brutta, brutale? Ѐ lecito? O è già un modo per dire: "Be', questa roba qui è bella, non è brutta… è… bella". Ecco. Di questo Non chiederci la parola parla. Se sia lecito o meno fare poesia sulle sozzure del mondo e dell'animo umano.

Noi non ci apparteniamo È il mal de’ fiori
Tutto sfiorisce in questo andar ch’è star
inavvenir
Nel sogno che non sai che ti sognare
tutto è passato senza incominciare
‘me in quest’andar ch’è stato.

Ciò compreso di Eugenio Montale, si capisce anche perché Carmelo Bene usi il distico montaliano come vessillo del suo agire poetico. L'opera, secondo Bene, è quanto non è, è quanto manca, citando Lacan, dell'uomo. Le manchevolezze. Le colpe. Qualcosa egli non desidera essere e che malgrado tutto è. Ecco che si comprende, tenendo come stella polare la poesia montaliana, la poetica dell'espulsione di Carmelo Bene. L'opera di Bene è svuotamento delle parti informi. Espulsione delle zone mostruose. Il mostrarsi indefesso di una deformazione. Pensiamo al Pinocchio di Carmelo Bene. Pensiamo al Majakosvskij di Carmelo Bene. Alla Lectura Dantis sulla Torre degli Asinelli di Bologna e al Leopardi letto da Bene. Una perturbazione. Una distorsione vocalica. Perché il suono è spirito. Il suono è anima. E l'anima, ora lo sappiamo, secondo Bene, facendo propria la lezione montaliana, è informe. Dentro si muovono ombre e asperità. Pertanto, non può uscirvi se non un suono disarticolato, distorto.

La bellezza, entrando in Carmelo Bene, viene processata dalla sua anima montaliana e restituita all'uditore in suoni spezzati, maciullati, spaccati. Lo stesso avviene nella prosa. Shakespeare. Dino Campana. Nello scritto del morto orale. Il pensiero, dentro l'animo informe di Carmelo Bene, l'animo mostro, subisce scosse e contro-scosse, si rimescola, turbina e si schianta sulla pagina. Ciò che abbiamo sotto gli occhi nelle pagine beniane sono i rottami di questo schianto. Anche l'uso dei sintagmi e dei fonemi nelle poesie della raccolta Il mal de' fiori. Le parole fanno attrito una con l'altra. Si scontrano. Sono spinose, difficili. Significato e significanti formano un intrico quasi inascoltabile. Un roseto di rose recise. Fatto solo di gambi irti di spine. Eppure, se le osserviamo, queste rose recise, riusciamo, nonostante tutto, a immaginarle, le rose.

Voce mia tua chissà chiamare questo
Mia tua chissà la voce che chiamare
ventilato è suonar che ne discorre
in che pensar diciamo e siamo detti
vani smarriti soffi rauchi versi
prescritti da un voler che non si sa
disvoluto e alla mano intima incisi
segni qui divertiti disattesi
sensi descritti testi
d’altri che morti fiati
dimentichi ‘n mia tua chissà la voce.

Ecco allora che Carmelo Bene si appropria di tutto ciò che è negazione facendosi vate di una sorta di teologia negativa del fare letterario. Landolfi nel Rien va: "La pittura non si fa con la pittura. La musica non si fa con la musica. La letteratura non si fa con la letteratura". Tutto ciò che esorbita dalla letteratura può diventare oggetto d'indagine poetica. Tutto ciò che è eccedenza, altra parola cardine della filosofia del fare letterario beniano, ossia non alligna entro i confini della letteratura. E non solo della letteratura. Ma anche del football, nelle figure di Effenberg o di Maradona. Anche del teatro. Ciò che fuoriesce, sconfina per accedere all'iperuranio del gesto puro. Il quale non è più calcio, teatro, pittura, musica, letteratura. Non è più arte. Si trasforma in qualcosa di ancor più trascendente. Questo il poeta deve ricercare. Catturare. L'aion dell'eterno. Non il cronos - già cronaca annunciata e archiviata. Ma non è più arte e non ha voluto esserlo. Ancora Montale. Ciò che non siamo. Ciò che non vogliamo. L'atto è indipendente dalla volontà quando è atto puro. In quanto non-atto della non-volontà del non-soggetto. Noi non siamo i nostri escrementi. Nemmeno li vorremmo. Ma sono il risultato di un processo interno indipendente dalla nostra volontà. Ecco. Ora, quanto di più complicato, in Carmelo Bene, tenendo conto della guida montaliana, appare chiaro, trasparente, elementare persino. Maradona sembra danzare in campo e un danzatore sembra prodursi in rovesciate calcistiche sulla ribalta del teatro. Non esiste più una disciplina, ma una sorta di fusione di discipline: un calcioteatro, una danzapittura, una musicalfabetica. Insomma, esiste solo atto nella sua potenza e bellezza.

Come tutto somiglia che stregata rovina no
di trapassata un’arte
Sembra che nulla sia residuo di
che intatto un tempo
Destinato a sacrale museato foro
de le ruine ‘a tronchi colonnati muschi
dimentichi nei rivi scapigliati
del’erba incolta sembra
solo che resto l’opera mai data.

La poetica dell'espulsione si esalta, vieppiù, nel raffronto con il Cantico dei Cantici. La Bibbia è un libro pieno di lotte e di massacri. Di guerre e di sofferenze. Il Dio biblico è un Dio severo anche con il suo stesso popolo, anzi, con esso innanzitutto. Si adira se questo stoltamente erige idoli d'oro dimenticandosi di Lui. Si incollerisce se Mosè colpisce con il bastone una roccia nel deserto per farvi sgorgare acqua, anche dopo giorni e giorni di siccità e stenti. In mezzo a tutte queste sofferenze, però, ecco lo squarcio d'amore e bellezza che è l'amore di Dio. La Bibbia ci mostra che cosa significhi amare Dio, amarsi nella luce santa del Signore. Tutte le sofferenze patite dal popolo israelita valgono quell'intenso momento di passione e bellezza, festa dei sensi, gioia. Le mille tempestose pagine della Bibbia valgono quella manciata di pagine di quiete e dolcezza del Cantico dei Cantici. Inclusione. Positività. Amore. Bellezza. In fondo, è sempre così. Tanta fatica per godere dell'istante eterno, indimenticabile di un abbraccio, di un bacio, di una carezza. Di un'unione. Nulla a che vedere, in apparenza, con la poetica dell'espulsione nelle opere di Carmelo Bene. Eppure, anche in questa espulsione e distorsione, noi è sempre quello che andiamo cercando, sempre e solo quello: il palpito di un momento di bellezza, la pietra grezza di un diamante indistruttibile. La intravediamo. Sì. La intravediamo. Anche nelle pagine ribollenti di Carmelo Bene. Nelle sue righe irte d'aculei.

Pietra marmorea fredda senz’amore Ch’e’ naturato in recipiente cava Umana marcescente dei morenti Corpi d’organi colma Franta logora carne venturale Da sessuato erotico spasmo Disseminato in tavola storpiata Illusa tra i resti che son tanti Fin che n’e’ svuota esanime Il non sapersi estinta Questo tuo non essere mai stata Non mai avvenir altro dal Mal de’ fiori se non sono prossimi Al fiorir chiama e si muore Idea di te che mi sorride questa Voce la mia non piu’ se la disdice Questo tu sei la voce che ti chiama Tu che non sei che non sarai mai stata Il mal de’ fiori presso allo sfiorir Dolora in me nel vano che’ l’attesa Del mai non piu’ tornare Te che mi fingo in che non so chiamare Folle tua la mia voce Sono te che non sei (..) Sono non e’dei morti Non e’ d’anima In sogno immortale Noi non ci apparteniamo E’ il mal de’ fiori Tutto sfiorisce in questo andar che star In avvenir Nel sogno che non sai che Ti sognare tutto e’ passato Senza incominciare Me in quest’andar ch’e’ stato.