Tra gli elementi di analisi e di conoscenza e le sempre più evidenti modificazioni dei comportamenti sociali che la lunga e non conclusa stagione della pandemia ci pone all’attenzione, una particolare rilevanza va attribuita al modo nel quale essa è stata vissuta e continua in parte ad esserlo, anche se eventi di eccezionale gravità come lo stato di guerra sembrano quasi offuscarne l’impatto. Mai un evento in questi ultimi decenni ha avuto una incisività ed una preponderanza sulle nostre vite come la pandemia da SarsCov2. Una rilevanza che la società delle comunicazioni e della globalizzazione ha aumentato a dismisura in modi inaspettati in ogni angolo del globo. In ogni Paese poi sia le decisioni politiche e sanitarie, sia le reazioni delle popolazioni, hanno posto le basi di evoluzioni e di cambiamenti profondi che solo il futuro ci mostrerà nella sua vera dimensione.

Uno dei punti cruciali è stata senza dubbio l’informazione (e la comunicazione in senso ampio). L’umanità si è scoperta improvvisamente fragile, indifesa nei confronti di un nemico sconosciuto ed invisibile. Cento anni fa una letale forma di influenza gettò il mondo nella paura e nell’impotenza. Gli strumenti di allora per quanto infinitamente inferiori a quelli di oggi fecero conoscere la gravità di quanto accadeva in tutto il mondo, ma fu una conoscenza certamente differente da quella odierna. Eguale fu però, stando ai racconti, la sensazione di debolezza, di timore e la visione della vita che ne derivò fu modificata in profondità. Poi guerre e rivoluzioni fecero quasi dimenticare l’accaduto ricoprendo il suo ricordo con ben altri e tragici eventi.

Oggi, dopo alcuni decenni di relativa tranquillità, in un mondo solcato però da disparità, da profonde e laceranti contraddizioni, come da grandi progressi ed evoluzioni, un’entità microscopica ha gettato nel panico e nell’incertezza ogni angolo o quasi del globo, mostrando quanto l’umanità da un lato sia ancora alla mercé della natura nelle sue manifestazioni più pericolose ma anche come sia in condizioni di tentare strade nuove per far fronte a qualcosa che appare ineluttabile nella sua comparsa sulla terra (certo a meno che alcune supposizioni di artificialità parziale dell’accaduto non trovino conferma). Quello che è apparso però evidente è che la globalizzazione non soltanto economica e produttiva, ma anche nel settore cruciale della comunicazione, abbia impresso una nuova dinamica alla diffusione delle notizie e al tempo stesso al modo in cui essa è stata interpretata in sistemi politici e di governo differenti. Ulteriore elemento è poi stata l’interdipendenza creata dalla rete Internet e dagli strumenti social di conoscenza e di contatto tra masse immense di persone. Quello che si è generato è stato un vero e proprio tsunami che ha modificato in modo irreversibile l’approccio mondiale naturalmente con tutte le differenze e a volte i limiti da un Paese all’altro.

Anche se in modo solo in parte identificabile la nostra percezione della realtà è certamente cambiata in profondità e soprattutto nelle giovani generazioni quanto sta accadendo porterà verso cambiamenti non ancora prevedibili. In questo quadro di riferimento abbiamo assistito ad una serie di evoluzioni non sempre corrette ed equilibrate del modo di informare e di dare conoscenza degli avvenimenti. Spesso si dice che il troppo stroppia, ovvero che il risultato dell’eccesso è sempre negativo. Allora si potrebbe parafrasare l’espressione dicendo che troppa informazione equivalga a nessuna informazione. Quando poi la troppa informazione si manifestasse anche confusa, eccessiva, contraddittoria allora il risultato potrebbe essere negativo sui meccanismi stessi della convivenza sociale e sugli equilibri interni allo stesso consesso sociale.

La fotografia di questa confusa situazione è certamente complessa e richiederà tempo e metodo per essere composta in modo coerente. Un primo passo è quello compiuto da un virologo e da un giornalista, un po’ i due corni dello stesso dilemma per analizzare in primo luogo e poi per dare coerenza ai fenomeni che si sono messi in moto. Giovanni Maga virologo e divulgatore (dirige l’Istituto di genetica molecolare di Pavia, e Marco Ferrazzoli giornalista e docente di comunicazione, capo ufficio stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche hanno delineato punto per punto lo stato delle cose e provato ad indicare dei percorsi positivi nel loro libro Pandemia ed infodemia. Come il virus viaggia con l’informazione a cura di Stefano Dalla Casa, edito da Zanichelli.

Con Marco Ferrazzoli abbiamo provato a ricostruire il percorso logico di questo lavoro.

Pandemia, infodemia, sindemia. Neologismi di attualità anche prospettica. Che rapporto tra di loro?

Diamo a loro le paternità dovute. La pandemia è termine che conosciamo ormai molto bene e che indica la condizione di diffusione pressoché globale di un virus, di un agente patogeno. Infodemia, termine che comincia ad essere utilizzato sempre più diffusamente, ha un avallo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha sancito in pratica che rispetto alla pandemia, ovvero l’aspetto sanitario che stiamo affrontando da oltre due anni e mezzo, c’è anche un concorrente informativo. Se faccio circolare notizie non complete o non corrette, queste notizie tendono ad attivare nei destinatari comportamenti sbagliati che a loro volta incidono poi sulla concreta diffusione del virus. Quindi giustamente l’Oms sottolinea che tanto è importante gestire la pandemia sanitaria tanto quanto l’infodemia comunicativa.

Per quel che riguarda invece il termine sindemia, è stato proposto da Richard Orton, direttore di Lancet, ovvero la più importante rivista medica mondiale. La sua tesi è che non bisogna soltanto tener in considerazione gli aspetti sanitari ed informativi e comunicativi, ma anche quelli economici, tecnologici e che quindi di fronte a fenomeni come quello del coronavirus, il Covid 19, bisogna considerare la globalità di queste dinamiche in modo sinottico, in modo contestuale. E questo perché non sono una causa effetto dell’altra, ma tutte concomitanti, tutte concorrenti a determinare i fenomeni che conosciamo.

Scienza, conoscenza, comunicazione, società: quattro step di un unico percorso organico?

Sono quattro parti di un ragionamento non soltanto lineare. per così dire, ma circolare. Non dobbiamo considerarli come in una successione logica. Mi spiego: ad esempio, l’esperto, lo scienziato dice una cosa e attraverso la comunicazione la società la riceve; non è così, perché la società di fronte a questi input dà dei cosiddetti feedback, ossia diciamo dei ritorni che a loro volta incidono sulla scienza. E quindi il processo è circolare se non addirittura a rete, a groviglio, a matassa. Basta vedere come gli scienziati si sono comportati a livello mediatico in questi due anni e mezzo. Capiamo bene che il loro comportamento è stato condizionato da quello che il pubblico chiedeva di fare, da come il pubblico reagiva alle loro uscite televisive o sugli altri media.

I rischi di spettacolarizzazione della scienza, i pericoli della degenerazione dell’informazione. Due ambiti critici?

La scienza ha avuto in questi due lunghi anni e mezzo, una vetrina mediatica mai avuta prima e ha avuto quindi una straordinaria occasione di instaurare con la società, attraverso i mezzi di comunicazione un rapporto virtuoso. Le cose non sono forse andate come ci saremmo augurati. Nel senso che molti ricercatori, molti scienziati, molti esperti hanno assecondato alcune dinamiche mediatiche come la cosiddetta polarizzazione, ovvero la tendenza a dividersi tra due partiti contrapposti. Dinamiche che non sono consone alla comunicazione della scienza in modo corretto, perché la comunicazione della scienza dovrebbe al contrario lavorare molto di mediazione, cioè l’avvicinamento pian piano ad una verità, relativa, perchè quella scientifica non è mai assoluta.

Un altro elemento è quello della fretta. Noi come Cnr abbiamo chiesto agli scienziati che però si sono un po’ troppo spesso prestati a farlo di avere un commento che diventava troppo spesso una verità assoluta in tempo quasi reale. Diciamo che noi opinione pubblica volevamo sapere cosa stesse accadendo, cosa fosse, come interpretarla, come fronteggiarla. I tempi della scienza sono invece necessariamente lunghi ed anche i tempi delle risposte sanitarie date dalla scienza sono lunghi. Questo è stato certamente un elemento che ha reso la comunicazione scientifica in questo periodo molto molto critica. Molto discutibile.

Paura per una minaccia, un nemico invisibile, alienazione, complottismo, ricerca alternativa, una evidente deriva verso posizioni millenaristiche o magico/alchemiche?

Si tratta di posizioni tutte non corrette ma certamente comprensibili. L’eccesso di paura porta a catastrofismi apocalittici in un ambito come quello di una pandemia, in un ambito sanitario come quello ambientale. Possiamo osservare che hanno delle giustificazioni perché si tratta di questioni, di problemi concreti che ci piovono addosso e che sembrano enormi. Non sono però atteggiamenti giusti per intrattenere un dialogo con la scienza che porti a soluzioni razionali. Lo sono ancora meno la ricerca delle alternative, cioè il pensiero per il quale si ritiene che, ad esempio, la scienza ci stia nascondendo qualcosa e guarda caso vi è il santone, il guru che ha la panacea. E qualcosa di assai poco credibile, eppure molte persone sono vittime di questo atteggiamento.

La cosa peggiore, anche per il suo impatto sociale possibile, il complottismo e il negazionismo conseguente, ossia affermare che il problema non esiste, non è reale, e lo stanno inventando perché... aggiungendo una qualsiasi motivazione economica o politica. Queste posizioni che abbiamo definito errate - e che aggiungerei sono consistenti ma minoritarie - hanno però una sorta di plafond, questo maggioritario, di scetticismo o di “esitanza”. Pensiamo a persone che sarebbero disponibili a seguire indicazioni razionali, ragionevoli, scientificamente corrette ma che appaiono sconcertate dal fatto che la scienza non riesce a rappresentare queste ipotesi di soluzione in modo comprensibile ma anche efficace: affermando, ad esempio, che è necessario aspettare, ma abbia ragione di aspettare con fiducia. Consideriamo che alla fine abbiamo avuto i vaccini in meno di un anno dall’inizio della pandemia.

Quello che si può rilevare è che la scienza non abbia saputo comunicare in modo corretto a questa massa di confusi, di esitanti, di scettici. E quindi, i complottisti, gli scettici, gli apocalittici, gli alternativi abbiano proliferato in carenza di questa capacità della scienza di dare una risposta efficace e corretta.

A questo punto quali responsabilità per chi fa informazione e più in generale comunicazione, ambiti certo distinti ma fortemente intrecciati e complementari soprattutto nell’era del web e dei social?

Diversi livelli e problemi intervengono. C’è il livello dell’informazione, del giornalismo, l’informazione professionale, quella che dovrebbe avere competenze specifiche e precise nel momento in cui si occupa del trasferimento di un contenuto, di una notizia. Ecco, l’informazione ha scoperto nei confronti della pandemia uno dei suoi nervi scoperti e dolenti: quello di provenire quasi sempre da una formazione generalista. Quando il problema che sorge è specialistico come quello della pandemia allora il giornalista si deve ingegnare, arrangiare e con questo habitus rischia di commettere degli errori. Per esempio, non si procede con quell’arma essenziale che è la verifica. Nel caso di specie, non ci si informa, non si controlla il ranking di autorevolezza degli scienziati interlocutori del settore del quale si parla. E si sceglie sovente quello che sembra apparire la figura scientifica più brillante mediaticamente. Questione evidente ed esponenziale nel medium televisivo ed in particolare nei contenitori talk.

Va osservato che in questi format si prevede proprio che si crei una forte polarizzazione frettolosa della quale si faceva cenno. Ed in questa polarizzazione si assottiglia la distanza con quello che accade sui social. La contrapposizione è analoga con la differenza che sui social io posso teoricamente tentare di intervenire per correggere, mentre nel mainstream televisivo non lo posso fare. Ragionamento che estenderei anche al di là della pandemia e la domanda è se il talk possa essere ancora una efficace rappresentazione della democrazia nel momento che le parti che si mettono in contrapposizione non hanno una valutazione qualitativa. Il rischio è una sorta di caricatura e non di rappresentazione.

Altro elemento non secondario è la disintermediazione ormai imperante, il fatto che tutti parlino con tutti in assenza di qualsiasi controllo e di gerarchizzazione delle fonti. Ma come osservato in precedenza è problema che precede sicuramente la pandemia e il quadro che essa ci ha proposto di anni se non di decenni. Il nodo è che i giornalisti non hanno preso le misure sul fenomeno cercando di fronteggiarlo con la qualificazione del proprio impegno e si evidenzia una deriva che appare allo stato purtroppo irreversibile.

La comunicazione della scienza da parte di scienziati ed esperti, dunque e la funzione degli operatori dei media possono avere una sinergia? E come?

Restando nel campo scientifico si potrebbero fare due o tre cose. La prima sarebbe dare ad ogni contenuto informativo una valutazione di qualità. Non vi sarebbe nulla di male se nel momento in cui esce una notizia che riporta una certa fonte, di quella fonte fosse a tutti riconoscibile il livello qualitativo. Potremmo farlo considerando che la maggior parte delle notizie scientifiche sono già classificate in questo modo perché hanno degli indici internazionali che consentono di definirne il valore. Non si parla di censura, non si censura alcuno ma si dice che essa deriva da una fonte di valore identificabile e autorevole.

La seconda cosa, sarebbe insegnare in primis ai mediatori delle notizie, cioè ai giornalisti come anche agli altri comunicatori come si maneggiano le fonti, come si riconoscono, come se ne valuta la qualità e poi insegnarlo anche al pubblico. Azzardo che si dovrebbe partire addirittura dall’insegnamento nelle scuole formando proprio alla valutazione e alla gerarchia delle fonti. Si tratta di un dato che non è soltanto proprio di chi fa il giornalista, ma serve a chiunque nella vita nel momento in cui dobbiamo valutare qualcosa.

Come combattere il pericolo di omologazione e le tendenze autoreferenziali anche nei mezzi di comunicazione. Il valore e l’autorevolezza delle fonti. Un metodo scientifico anche per i giornalisti?

Penso che quello che abbiamo detto per l’informazione scientifica e che la pandemia ha reso particolarmente evidente ovvero l’esigenza di una sempre maggiore qualità del lavoro giornalistico, si estenda ad ogni ambito professionale nei media. Se oggi parliamo di guerra non è che la mancanza di formazione di un giornalista che ne parla sia più grave di quello che parla di pandemia (lo stesso vale se parliamo di transizione energetica o ... di riforma del catasto). In conclusione, dobbiamo prendere le misure con quel concetto che con formula forse abusata si riferisce alla complessità della società globale. Ovvero la società oggi richiede a tutti un livello di preparazione superiore al passato. Per essere cittadini consapevoli abbiamo bisogno di conoscere una serie di aspetti tecnici, scientifici, economici che prima si riteneva forse di poter ignorare.

Se vale per tutti i cittadini, per coloro che di mestiere fanno i mediatori od opera di avvicinamento dei contenuti è ancora più importante e credo che questo nodo se non vogliamo andare verso quella crisi irreversibile che da tempo stiamo subendo, vada sciolto. E per scioglierlo diviene centrale quella formazione dei giornalisti di cui si è accennato.