The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet è una delle opere più celebri di William Shakespreare, il bardo di Stradford. Talmente famosa che i suoi protagonisti, Romeo e Giulietta, sono diventati l’archetipo degli innamorati. Ma, come per le altre sue opere, Shakespeare rielaborò una vicenda già nota: sappiamo bene come Plutarco sia la fonte dei drammi romani, le cronache di Holinshed per i drammi storici inglesi e l’Historia Danica di Saxo Grammaticus per Hamlet. Qual è però la fonte di Romeo e Giulietta?

Troviamo i nomi delle due famiglie protagoniste, Montecchi e Capuleti, citati nel sesto canto del Purgatorio di Dante Alighieri, il “canto politico” che lamenta le feroci divisioni in Italia tra guelfi e ghibellini: “Vieni a veder Montecchi e Cappelletti” scrive Dante. Va detto che delle due famiglie solo i Montecchi erano veronesi, di parte ghibellina, mentre i Capuleti o Cappelletti erano guelfi di Cremona. A Verona lo scontro era tra i Montecchi e i guelfi conti di Sambonifacio. Possiamo pensare che Shakespeare abbia avuto per le mani la Divina Commedia e abbia frainteso il verso, pensando che ambedue le famiglie fossero veronesi? Dante offre un altro prototipo per il dramma shakespeariano, ovvero la storia di Paolo e Francesca narrata nel quinto canto dell’Inferno. La differenza sta solo nel fatto che gli amanti danteschi erano adulteri, quelli shakespeariani no.

La storia di Romeo e Giulietta pare comunque aver radici italiane. Nel 1530 Luigi da Porto pubblica l’Historia “novellamente ritrovata di due nobili amanti” presentandola come una vicenda storicamente avvenuta. E ovviamente da qui Shakespeare riprende la sua storia: i nomi sono quelli che tutti conosciamo grazie al grande drammaturgo inglese.

Però, in realtà, la vicenda di Romeo e Giulietta ha radici molto più antiche, che affondano nella grande letteratura classica: è la vicenda di Piramo e Tisbe, due amanti babilonesi la cui versione più nota è quella contenuta nelle Metamorfosi di Ovidio, ma che probabilmente è molto più antica, essendo ambientata nella città mesopotamica di Babilonia.

La trama è semplice: Piramo e Tisbe erano due amanti le cui famiglie si odiavano. A causa di questo erano costretti a parlarsi attraverso una crepa del muro che divideva le due case.

Un giorno i due amanti riescono a darsi un appuntamento. Tisbe è la prima ad arrivare, ma viene inseguita da una leonessa. Nella fuga perde il velo che viene dilaniato dalla belva. Piramo, sopraggiunto, vede il velo dell’amata dilaniato e immagina il peggio: disperato si uccide. Tisbe, tornata, trova l’amato morente e cerca di rianimarlo. Disperata, si getta sulla spada di Piramo.

Come ben si può notare lo schema è praticamente il medesimo di Romeo e Giulietta. Prima che il nome dei due amanti veronesi divenisse antonomasia per indicare gli innamorati, Piramo e Tisbe erano gli amanti per eccellenza.

Nel Medioevo il mito ebbe un’incredibile fortuna, e venne ripreso da scrittori quali Giovanni Boccaccio e Geoffrey Chaucer. E dallo stesso Shakespeare, che farà un riferimento diretto alla vicenda degli innamorati babilonesi nel suo Sogno di una notte di mezza estate, commedia che comunque ha un’ambientazione mitologica, dato che narra le vicende di Teseo e Ippolita.

Il genio di Shakespeare ancora una volta si svela in tutta la sua potenza: una storia già narrata in diverse versioni diventa archetipica. Forse perché più ancora che l’amore dei due ragazzi a Shakespeare interessò esplorare l’odio delle famiglie. Quell’odio cieco, stupido che porta a guerre che travolgono innocenti. E che fa urlare al principe di Verona: “Noi siamo tutti puniti”.