Nell'antica Grecia il requisito che prevaleva sugli altri, per chi ambiva a ricoprire una carica pubblica importante, era l'agiatezza. Nel senso che, già prima di candidarsi a ''fare politica'', il soggetto doveva essere ricco di suo.

Non era una distinzione sociale, ma una tutela per la città perché, si pensava, essendo già ricco, il candidato, una volta eletto, non sarebbe mai stato solo sfiorato dalla tentazione di farsi corrompere. Sia da politico, sia da giudice.

In fondo, un principio di minima cautela che certo non eliminava il pericolo che alla politica si sostituisse la pratica sistematica della corruttela, ma almeno cercava di neutralizzarlo.

Oggi un modello del genere sarebbe improponibile, innanzitutto perché socialmente ingiusto, negando di coltivare ambizioni personali di crescita, e poi perché sarebbe una surreale categorizzazione, dividendo il Paese in caste, tra chi può e chi no, al di là di preparazione, cultura e, soprattutto, onestà.

Eppure, la tentazione di corrompere o farsi corrompere (non necessariamente col denaro) resta sempre lì, in agguato, a dimostrazione che essa è una tara, endemicamente presente e che non si riesce a sradicare.

La nostra società non è mai riuscita ad elevare un argine alla corruzione, che resta uno dei mali peggiori e trasversali per un Paese perché, dal passaggio di denaro, di favori o comodità, a perderci è la comunità, dovendo qualcuno alla fine pure perderci.

La lunga premessa vuole portare un minimo di attenzione a quanto accadrà nei prossimi mesi dentro l'ordine giudiziario, sul quale il governo Draghi ha voluto mettere mano, con una riforma che ancora non è quella definitiva, dovendo essere discussa e, comunque, nella ricerca della massima condivisione, senza il conforto di un voto di fiducia che la blinderebbe.

La nostra magistratura deve amministrare giustizia (è lì per questo), ma non riesce a farlo al meglio, e non solo per i vuoti dell'organico sempre denunciati e ai quali non si pone rimedio. Quello che però appare evidente è che il nostro ordine giudiziario non è riuscito a ricucire un rapporto degno di tale nome con gli italiani che vorrebbero una giustizia veloce, inflessibile, ma soprattutto dispensatrice di equanimità.

L'auspicata riforma del Consiglio superiore della magistratura (sempre che sia compiuta e non venga annacquata in sede di discussione) dovrebbe fortemente contribuire al processo di ''umanizzazione'' della giustizia, promuovendo il merito a discapito dell'adesione a questa o quella corrente, a questa o quella parrocchia.

Contestualmente, anche gli ostacoli posti alle ambizioni politiche dei magistrati sono un forte segnale, richiesto peraltro da molto tempo.

Da quando, tanto per essere chiari, le inchieste del pool della Procura di Milano resero manifesta la voglia di alcuni Pm di essere loro i protagonisti e non le indagini che conducevano e, quindi, la giustizia.

Stare, 24 ore al giorno, alla ribalta è sicuramente stancante. Ma per certi versi esaltante perché, seducendolo, abitua chi dovrebbe - a nostro modestissimo parere - lavorare sotto la cappa impenetrabile della riservatezza a farsi applaudire, celebrare, venerare. E questa è la corruzione della fama, del successo personale.

Un processo che, cominciato quasi trent'anni fa, non ha mai smesso di dispiegare i suoi effetti, esaltando figure di magistrati che, per il loro lavoro e il loro sacrificio (mai messi in discussione), sono diventati delle icone, a dispetto di loro colleghi che, restando nell'ombra, sembrano figli di un dio minore e disattento.

Quindi, la decisione di impedire che magistrati tentati dalla politica, una volta finita questa loro esperienza, possano tornare a vestire la toga è un provvedimento giusto, necessario e, allo stesso tempo, adottato con troppo ritardo, visti i precedenti. Niente può vietare ad un magistrato di scegliere la politica, ma è troppo consentirgli, come è stato fatto fino ad oggi, di rientrare alla precedente attività come se nulla fosse.

Le ''porte girevoli'', a disposizione dei magistrati e di cui tanto si è parlato, anche se assolutamente lecite (lo stesso accade per altri dipendenti pubblici) portavano con loro un senso di inquietudine per la gente perché consentivano ai ''bocciati'' o agli esuli dalla politica, di tornare a detenere un potere che in alcuni casi è fortissimo. In ogni caso, riappropriandosi del ruolo (anche se in un luogo diverso da quello che occupavano prima di entrare in politica) mettevano in dubbio la terzietà, che è soprattutto principio di garanzia.

L'Italia, mai forse come oggi, ha bisogno di una magistratura che voli sopra ogni sospetto, che scacci da sé l'immagine di essersi fatta casta e non servitrice del Paese, nel senso più pieno del termine.

Quando le cronache riferiscono di magistrati che disonorano la toga perché caduti nella trappola della corruzione dobbiamo considerarla una sconfitta di tutti perché il loro comportamento infanga ogni loro atto, ogni loro sentenza, seminando la malapianta del sospetto.