Sa di aver chiesto: “Siamo alla pensione Cristina?”. Il 4 novembre 1966, Luca Berni, tre anni, abitava in una strada completamente alluvionata e pensò che il mare, visto nelle estati precedenti, si fosse trasferito a Firenze.

Quel giorno cominciò tutto.

Al responsabile della programmazione di Rete Toscana Classica, 45.000 persone sintonizzate in media e moltissime altre che seguono via Internet da ogni dove, la nonna materna Wanda portò un grammofono 78 giri e un pezzo della discoteca del nonno, morto giovane: due box di dischi, uno d’opera e l’altro di canzoni.

“Da questo oggetto nero uscivano delle voci che sono state il mio primo incontro con la musica e che mi rimangono nella memoria con più vivacità. Da una parte c’era Tito Schipa che cantava, non so, Don Pasquale, dall’altra Carlo Buti. Voglio quella musica lì, mi dissi”.

Quando c’era da fare un regalino il nonno paterno gli comprava un disco da mille lire che il bimbo sceglieva da solo: “Se in copertina c’era la spada di Napoleone era un’Eroica, se c’erano delle donnine un po’ allegre erano overture divertenti”.

Con Luca Berni ripercorriamo una formazione davvero speciale pervasa da un suono che polverizza i confini fra il tempo della fatica e il tempo del riposo.

Né musicista né storico della musica, vero?

Ero, e forse sono tuttora, un ascoltatore professionista. Mi spiego: non è una professione, ma un’attitudine nel porti davanti alla musica in maniera seria, rilassata e attenta che ti conduce a fare un percorso. Non necessariamente dal Gregoriano a Stockhausen, ma un percorso personale.

Nonna Wanda e il suo grammofono a mo’ di antidoto alla tristezza dell’alluvione. Quali le altre tappe fondanti?

Per la prima comunione amici dei miei mi regalarono tre libri: Le meraviglie della musica di Luciano Alberti, un volume sugli strumenti musicali e Guida alla musica vivente di Gino Negri. Mio nonno un’Aida.

Dal 1973 tutti i sabati pomeriggi venivo portato da un’amica della mia mamma, che si chiamava Elena Pestellini, a un concerto degli Amici della Musica. La ritualità del teatro, il mio posticino… In quelle stagioni ho sentito il Quartetto italiano, Martha Argerich più o meno bambina. Avevo scoperto che il lunedì mattina su La Nazione c’era la recensione siglata da un misterioso L.P. che scriveva le sue impressioni. Quindi che facevo? Tagliavo la pagina e l’appiccicavo dentro il programma di sala.

L.P. cioè Leonardo Pinzauti, l’illustre critico…

Ormai adulto, già direttore di Rete Toscana Classica, gli dissi: sa che ho tutte le sue recensioni? Si commosse. Ho espresso lo stesso tributo di gratitudine a Luciano Alberti.

Riprendendo il racconto: Elena Pestellini mi portò anche al Maggio Musicale dove ricordo di aver visto un Flauto Magico. Dovevo essere un po’ più cresciuto. Andai a cercare il libretto per arrivarci non proprio sperduto. Una produzione meravigliosa, forse dell’opera di Amburgo. Chiesi in regalo un Flauto magico, mi arrivò quello diretto da Solti che ancora è una roba strepitosa. Da lì qualche lezione di pianoforte, ma avevo sempre capito di essere, appunto, un ascoltatore professionista.

Altri personaggi chiave?

I cugini della mamma, lo zio è vivo, la zia è andata da qualche anno, erano due signori per i quali la cultura non era un accessorio e avevano individuato in me il nipote al quale donare tutte le opere di Shakespeare. La zia mi trasferì i suoi 78 giri grazie ai quali si è aperta la strada della musica strumentale: Cortot, Benedetti Michelangeli. Un loro amico, Walter Boccaccini, mi disse: questo è il numero della mia segretaria, ogni volta che vuoi venire al teatro Comunale, telefona. E andavo a finire nella panchetta di fondo del palco numero 2.

Devo molta gratitudine a coloro che mi hanno instradato senza spingere, senza dirmi, dopo avermelo dato: hai letto tutto Shakespeare? Sennò sarebbe stata una persecuzione.

Da fine Settanta ai primi Novanta, ho ascoltato al Comunale delle cose pazzesche, ma l’amore folgorante scoppiò per Carlo Maria Giulini con la Los Angeles Philarmonic: adagio della Decima di Mahler ed Eroica di Beethoven. Una strada senza ritorno! Per Mahler ero totalmente impreparato il che, talvolta, può essere un bene. L’Eroica me la ricordo ancora…

All’epoca avevo un registratore a cassette e mi facevo i palinsesti, dei bei pastrocchi: Also sprach Zarathustra insieme al Chiaro di luna. Ascoltavo Radio 3 anche mentre studiavo.

Adesso il mio rapporto con la musica si esprime dirigendo una radio di classica con delle caratteristiche un po’ demodé. Facciamo un bollettino che assomiglia al Radiocorriere e abbiamo un’attenzione scrupolosissima.

Nella scuola dell’obbligo italiana manca l’educazione musicale e per alcuni la musica è un’estranea.

Mi sento spesso dire: io non capisco la musica. La risposta è una sola: ce l’hai le orecchie? Ascoltala. Molti pensano ci sia bisogno di una spiegazione, ma se ti ha colpito una ballata di Chopin, se ti piace un Concerto Brandeburghese o ti incuriosisce La sagra della primavera, ringrazia il Signore.

Per cui dirigere una radio di questo genere in Italia si scontra con un pregiudizio fastidiosissimo: sei elitario. In realtà non è così. La mancanza di ascolto che si ritrova in tanti aspetti della vita quotidiana è una mancanza grossa: mettersi seduti su una poltrona e ascoltare una sinfonia di Beethoven è tutto meno che una perdita di tempo.

Il maestro Solti, che conobbi a Roccamare, mi disse di detestare la musica di sottofondo. Mi fa orrore entrare in un posto dove c’è della musica e tu sei chiamato a fare qualcosa altro. Così come è grave l’ascolto nelle cuffie.

La musica richiede pazienza: devi stare lì. Ti richiede anche, e questo è un passo successivo ancora più difficile, di sapere individuare le sue identità. Se ho ascoltato un concerto per pianoforte e orchestra non ho ascoltato una sinfonia, se ascolto una trascrizione di Bach dovrei sapere che il musicista non l’ha scritta per pianoforte, ma per cembalo e che qualcuno, per farcela diventare ancora più familiare, ha deciso di utilizzare invece che uno strumento a pizzico uno a percussione. Non c’è bisogno di riconoscere una mazurka di Chopin, ma sapere che siamo verso la metà del 1800. Ed ecco che si torna alle carenze della scuola. Anche la storia dell’arte è maltrattata, però si sa che la Cappella degli Scrovegni non è di Picasso.

La musica ti fa diventare un buon cittadino, ti forma a vivere entro una società: cantare è la prima forma che tu hai di esprimere qualcosa che ha a vedere con la parola e la melodia insieme e di farti capire la musicalità delle cose. Il mondo va ascoltato e la musica ti aiuta ad avere una visione ampia di quello che succede attorno a te. Io non ho bisogno di un’enorme quantità di musica. Come professionista sì, per fare un palinsesto che dura tutto il giorno ed è destinato a un ascoltatore sconosciuto, ma come Luca ho un repertorio limitato.

Dall’ascoltatore sconosciuto arrivano dei riscontri?

Sì. Nelle mail si palesano per lamentarsi, per chiederti notizie se incuriositi da certi brani, per dare dei consigli. Ovviamente ho un rapporto con gli esecutori che spesso scrivono per annunciare che hanno inciso un disco. La radio non può essere soltanto tua e devi essere disponibile a riflettere se qualcuno commenta che per l’8 dicembre non hai messo abbastanza musica mariana. Lì per lì non sei d’accordo, ma forse l’anno dopo fai qualcosina di più. L’ascoltatore ha tutti i diritti di dirmi: non m’è piaciuto, manca questo, troppo canto, troppo tedesco. È un rapporto lontano perché non conosco gli ascoltatori anche se magari entri in un negozio o sali su un taxi e senti RTC.

Poi ci sono quelli ai quali diamo fastidio in quanto finanziati dalla Regione Toscana.

Pensano che sottraiate denari ad altri progetti?

Posso garantire che sottraiamo veramente poco! Io mi preoccupo anche di quelli che mi dicono: l’ascolto tutto il giorno o di chi impone la nostra radio ai figlioli.

Produce dei futuri odiatori?

Produce dei disc-jockey di trap! È un mondo variegato quello degli ascoltatori. Sono convinto di non averlo completamente chiaro: non tutti si fanno vivi. Però scopri che se proponi una puntata su suor Lucrezia Vizzana, certo non famosa, si accorgono che è musica assolutamente straordinaria.

Noi abbiamo anche due pianisti Claudio Proietti, che ha fatto enorme lavoro sul clavicembalo ben temperato, intitolato Il pianoforte ben temperato, e un bellissimo lavoro sulla musica per piano di Prokoviev, e Francesco Dilaghi con il quale abbiamo trasmesso tra l'altro un ciclo su Chopin, uno su Schumann e uno su Beethoven. Sono divulgatori notevolissimi, capaci di realizzare un vero avvicinamento alla musica.

Il lavoro della radio per me è benedetto. Non ho fatto una carriera, mi sono indirizzato verso un certo mondo. Ho lavorato dieci anni al Maggio Musicale Fiorentino, ho fatto l’agente di cantanti per quattro o cinque anni, sapendo che era un periodo di trapasso. Nel 2002 è venuta fuori Rete Toscana Classica grazie ad Alberto Batisti.

Come è andata?

Quando chiuse Radio Montebeni, alla fine al 2001, io sono stato fra i firmatari di una lettera circolare che arrivò a tremila firme, indirizzata all’allora presidente della Regione Claudio Martini. Martini cercò Alberto Batisti che cercò me: vogliono fare una radio di musica classica, non la faccio se non mi dici di sì.

C’era bisogno di mettere insieme teste che pensano diversamente la musica, ed entrambi siamo ottimi conoscitori della storia della musica e dell’interpretazione. Un inizio artigianale: tutti e due ci ricordavamo del quinto canale della filodiffusione e avevamo ascoltato tonnellate di Radio3. Siamo liberi nelle scelte e ci alterniamo nei pari e dispari della settimana.

Sono a tutt’oggi estremamente grato ad Alberto. Tanti anni fa andai a Parigi a trovare Marcel Marnat, uno dei massimi esperti di Ravel, che era stato uno dei direttori di Radio France. Gli mostrai il bollettino di Rete Toscana Classica spiegandogli che volevo fare un ciclo su Ravel. Lui sfoglia e chiede: quanti siete? Due, rispondo. Ma siete completamente pazzi! Lei sa che un segmento di Radio France Culture è fatto da 21 persone?

Era ammirato?

Sconcertato, ma ammirato. D’altronde noi viviamo il lavoro alla radio come un servizio. Il bilanciamento dei generi, per esempio, è fondamentale: devo dare lo stesso spazio ai madrigali di Monteverdi, alle sonate di Beethoven, alle sinfonie di Mahler, di Bruckner. Anche rispondere agli artisti è una faccenda di educazione basilare e nessuno può dire: lei non mi ha risposto. Molti mandano il loro CD e non è detto che questo CD sia bello, possono arrivare dei veri orrori e allora devi spiegare che magari non te lo presento, ma te lo passo per radio. Anche il disco non di valore può trovare la sua via, forse non l’ho capito io, o non è ancora il suo momento.

La risposta prevede che tu quel disco inciso, che so, a Settignano l’abbia ascoltato mentre avevi voglia di sentirti la Nona di Beethoven diretta da Mariss Jansons. È una cura che mi viene da quando lavoravo in teatro e gli artisti spedivano la cassetta sperando nell’audizione. Mi sono pure scontrato con qualche direttore artistico che suggeriva di fregarmene.

45.000 ascoltatori in media sono tanti.

Visto che la contemporaneità chiede di quantificare, beh, sì: sono tanti e, grazie al web, sparsi nel mondo. C’è stato un periodo in cui eravamo molto ascoltati in Olanda, il Paese che ha più radio classiche. Suppongo fosse perché avevamo buoni rapporti con i musicisti del Concertgebouw.

Chi ci segue rimane positivamente colpito dalla quantità, dalla varietà e, a volte, dall’originalità, ma sempre con un gran rispetto della musica.

Quando ascolti musica per te nuova, perché composta ieri mattina o antica come un madrigale di Philippe de Monte, la macini nella testa e rimane nel tuo repertorio. Ognuno di noi ha un suo repertorio. Insieme a Fiamma Nicolodi e Graziella Magherini organizzammo degli incontri alla Biblioteca Magliabechiana degli Uffizi nei quali i musicisti raccontavano perché facevano i musicisti. Una signora chiese una ricetta per amare la musica che la faceva stare male. Dico io: ma non la ami! Non è necessario amare tutta la musica: chi ha un repertorio che lo fa stare bene, continui in quella scia. Inoltre trovo che la musica non vada ascoltata il giorno intero, sarebbe un diluvio difficile da assimilare. Devi lasciare che agisca.

L’interprete?

Ti rivela e ti può far rivoluzionare la tua idea di quel brano. Non ci sarà mai una seconda Callas e nessuno sostiene che le cantanti di oggi dovrebbero assomigliarle, ma è un punto di riferimento. I punti di riferimento sono essenziali e te li fai ascoltando: in un certo attimo ti innamori perdutamente di certi direttori d’orchestra, per me Giulini e Jansons, di certi pianisti, per me Richter e adesso l’incredibile Nelson Goerner.

Goerner è uno di quelli da pellegrinaggio?

Uno di quelli. E siamo anche abbastanza amici.