Vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati, vergognati…
(Angelo Duro, Casa Minutella 68° puntata, II° parte, BlogSicilia, 17 giugno 2022)
Narciso è una tragedia, non una commedia
(Carmelo Bene, Vita di Carmelo Bene)
Perché piace Angelo Duro? Perché fa ridere? Eppure non mostra un tono comico né un approccio umoristico, né ricerca di compiacere il pubblico. Proprio per questo: perché esiste un desiderio latente della coscienza postmoderna, quello di andare oltre il “principio di piacere”, per un attimo liberarsi e diventare adulti; e questo è anche la nostalgia della sculacciata, il rimpianto di una giustizia austera che è da tempo assente in famiglia, nella scuola, per le strade.
Angelo Duro è l’Angelo dell’Apocalisse, il Saint Just che vendica la saturazione dell’ipocrisia sociale, la re-cita divenuta troppo verosimile e quasi non più percepita. Appare liberante e illuminante anche ascoltarlo nelle interviste. Anche in questo Angelo appare un fantasma complice del fantasma di Carmelo Bene, proprio nel compiersi dell’assenza di distinzione fra arte e vita, narrazione ed ostensione, atto e dire, critica e creatività. Entrambi stanno al di là e di al di qua della cinepresa e difendono l’arte quale atto assoluto, katà-auton.
Un corpo magro, senza scenografia, un palco vuoto, una voce che parla per illuminanti guizzi, con molte pause. Una narrazione paratattica, iterazionale. Con molte domande a spalancare il vuoto, e un vuoto risuonante. Carmelo riappare anche nello scherzo, nel gioco serio durante un’intervista quando Angelo manda a stendere le tediose liturgie televisive e giornalistiche con i loro compiacimenti e aspettative di rito, quando ripete per decine di volte “vergognati” a Francesco Bozzi.
Ecco anche allora il ricordo vivissimo che riappare del: “sono il fantasma di tuo padre, sono il fantasma di tuo padre, sono il fantasma di tuo padre” dell’Amleto beniano dove non c’è nulla di più spettrale del quotidiano e nulla di più artificioso e ridicolo-patetico dei fantasmi che vogliono che la recita del sociale-storico continui, invece di bearsi della loro finalmente compiuta liberazione da tali scorie.
Ma l’opera di Angelo appare abitata da molti altri vivissimi fantasmi: l’Unico di Max Stirner con la sua concreta e anti-ideologica irriducibilità intransitiva e non declinabile; l’immediatezza cinematica dell’Ulisse di Joyce; la difesa tenace dell’intimità della propria creatività che fu già di Paganini (che negava gli spartiti all’orchestra antecedentemente alla loro pubblica esecuzione); la riduzione all’essenza pragmatica propria del francescano nominalista Guglielmo di Occam (l’inauguratore della Modernitas); l’acido fosforescente dello spirito borghese-capitalistico portato alla sua quintessenza quasi insostenibile sulla scia di Woody Allen e di Jules Laforgue che tutto dissolvono in un’irrisione filosofica e cosmica, e ulteriormente distillato per liberarlo da sovrastrutture etico-morali e da ogni sociologia o canone di riferimento.
Non c’è morale in Angelo, neppure antimoralistica o egoica: c’è la nudità del singolo e di un singolo concreto, irrelato, inconoscibile anche a sé stesso. Nell’opera di Angelo il teatro torna benianamente odeon, il dire atto retorico, stile di oratoria lontano dalla funzione di mediazione e rappresentazione, puro dire, modo all’infinito, cioè consumazione del detto nella celebrazione del suo svanire. Un teatro che torna alla sua sapienza ancestrale di non-luogo, di deserto silente, di mera occasione del proprio in-dividuo dire. Un teatro quale assenza, materia solo fisica, maschera vuota, abissale. Un nulla utile ad evidenziare lo sgorgare di una voce che non lascia il niente del proprio del tutto esserci.
C’è anche qualcosa di duramente stoico nel suo approccio solipsistico, e questo si coglie nel suo accettare e sottolineare i paradossi e le antinomie della prassi sociale. Ma la prospettiva dello sguardo, anche quando produce illuminanti ribaltamenti, resta sapientemente unilaterale, auto-monistica, monadica. Angelo assume l’istanza anomica, fanciullesca, aniconica, pinocchiesca del rifiuto di ogni ricatto morale, di ogni alienazione rappresentativa, di ogni delega esistenziale. La coscienza-massa ha bisogno di tale durezza priva di mediazione, di tale “far saltare il banco” dei ruoli perché agonizza (e agonizza male) nella saturazione del piacere di consumo effimero.
Angelo sorge aleggiando dalla Grande Nausea che sta montando dal mondo su sé stesso. Questa falsa coscienza schiava ha bisogno più dell’aria dell’ossigeno prodotto dalla parola-frusta nicciana di un’oratoria senza regia, di una voce senza corpo, di un dire che espunge con zelo e rigore (finalmente) la funzione di consolazione e di riconoscimento. Quanto sia vitale questo rasoio affilato, quanto fertile questa negazione lo conferma il riso del pubblico, che viene quasi naturalmente necessitato a ridere a ogni pausa del dire di Angelo, proprio per il suo profondo bisogno di autenticità e di franchezza e immediatezza, troppo a lungo represso e frustrato.
Angelo è come l’Achille di Carmelo Bene e di Omero: uno spirito non flessibile, non addomesticabile né meccanizzabile, a-mechanos, spiazzante perché semplice, nudo, solo. Uno specchio ludicissimo. Non si può obbiettare a uno specchio. Non si vince contro gli specchi. I giornalisti e presentatori restano sconfitti, elusi, sbugiardati, rifiutati, vanificati nel loro ruolo quando si approcciano ad Angelo. Così era con Carmelo: lui rifiutava l’ipocrisia e la stupidità di chi non sapeva se non imporre dei ruoli e non esisteva fuori dalla catena di montaggio di una vita come telenovelas.
Chi si avvicina ad Angelo finisce per doversi trasformare e inizia ad assomigliargli: la libertà è contagiosa, metamorfica. Il non-dialogo di Massimo Minutella e Francesco Bozzi con Angelo del giugno 2022 rappresenta una delle pagine più belle e più culturali della televisione italiana. Un totale ribaltamento dei ruoli e l’inizio di una conversazione delirante quale intreccio di autodenudamenti. Il rasoio si moltiplica, scioglie finalmente cordoni ombelicali ancora non recisi.
Al posto di un finto olos, invece del rassicurante liquido amniotico delle teorie e delle ideologie, ecco splendere l’irriducibile singolarità dell’Unico e di un Unico concreto, pratico, che non si autocelebra come guru né ambisce a predicare un modello ma resta concentrato in sé stesso, nella propria asimmetrica postura rispetto alla percezione del mondo, di cui si rifiuta una ricezione passiva e automatica, giungendo a contestarne implicitamente persino l’unità e la consistenza.
Come in Carmelo Bene anche qui abbiamo tre forme di apparizione: l’Angelo che non recita (mai) sul palco, rifondato benianamente quale megafono di estrema autenticità, l’Angelo che re-cita se stesso fuori dal palco, nelle interviste, forma paradossale di teatro parusico, heinzianamente illustrativo in immediatezza (privo anch’esso di rappresentatività e di finzione) e ricco di performatività fluida, instabile, imprevedibile; e l’Angelo del proprio privato, teatralmente (è questa l’opera d’arte più grande) privato di un proprio privato, cioè non apparente, ignoto, inconoscibile come la porta murata di Giorgio Caproni. Capolavoro quest’ultima forma, in quanto un massimo artificio dato in ariostesca naturalezza.
Forse solo dall’eccesso di luce chiamato Sicilia poteva stillare un liquore così ardente, un nuovo dialetto, un nuovo linguare. Angelo: uno spirito senza volto, depauperante (e quindi liberatorio) per le false sicurezze e che finalmente (implicitamente) schiaccia i veri mostri: il Piccolo Principe, le maschere Marvel, la Gabbianella e il Gatto. Detto questo occorre anche aggiungere in conclusione come il “caso Angelo Duro” sia ovviamente un caso effimero, già postumo, già escreto. La base del suo successo non solo è stare in piedi sui macerie-cadaveri escreti da Carmelo Bene (senza neppure il buon gusto di riconoscerlo) ma pure dipendere dal successo stesso della “società dell’applauso”.
Se non esistesse il culto dell’applauso e del compiacimento del pubblico farebbe meno ridere la franchezza spietata di questo comico e se esistessero 10-15 comici di tale fatta la tensione umoristica di Angelo sarebbe affievolita, cadrebbe subito nell’annichilimento della maniera e della retorica, non potendosi convertire in canone. La rigidità tirannica della società di massa è tale che è permesso a un solo pagliaccio-attore incarnare un typos cortigiano.
Ad Angelo il lavoro precario del giullare sarcastico alla corte del Nulla. Non a caso i suoi spettacoli durano poco, quaranta minuti, e talvolta anche intervallati da dieci minuti di silenzio: l’acido/piccante va usato poco, a gocce, altrimenti stucca, satura, sazia velocemente…I comici postmoderni sono i parassiti-becchini del cadavere-società la cui necrosi tra breve non farà neppure più ridere.