Cosa mai possono avere in comune un filosofo come Gaetano Filangieri, vissuto tra il 1753 e il 1788, e un musicista come John Lennon, vissuto tra il 1940 e il 1980? Un italiano, napoletano, e un inglese, di Liverpool? Ce lo si è chiesto recentemente, in occasione dei cinquant'anni dalla data di nascita di Imagine, in un incontro napoletano promosso nello scorso novembre da un’accademia partenopea, di recentissima costituzione, che proprio a Filangieri si intitola e che ai principi dell’Illuminismo ispira la propria attività di ricerca e di divulgazione. Un incontro che ha fatto storcere le narici di alcuni eruditi benpensanti che non hanno mancato di ironizzare su un accostamento ritenuto se non blasfemo o impossibile, almeno azzardato, dimenticando che i più tenaci ideali umani scavalcano le delimitazioni di tempo e di spazio e le differenze di espressioni - letterarie, filosofiche, scientifiche o artistiche - del comune sentire.

Alla domanda posta, si potrebbe rispondere innanzitutto: l’esser morti entrambi giovanissimi, a trentacinque anni l’uno, a quaranta l’altro, e il non essere riusciti a realizzare in vita il sogno che vagheggiavano. Li accomuna soprattutto il fatto che l’uno e l’altro hanno fermamente creduto, a tanti anni di distanza, nel cosmopolitismo, nel bisogno di pace e di fratellanza, nel superamento di barriere sociali e razziali.

Il sogno di Filangieri, di uguaglianza in una società le cui leggi potessero realizzare il diritto dell’uomo al benessere e alla felicità, si infranse drammaticamente nel disastro della Rivoluzione Napoletana del 1799, nella ferocia sanguinaria della repressione che la soffocò e nell’inesorabilità della restaurazione che ne seguì.

Quello di Lennon, vagheggiato poeticamente proprio in Imagine, una delle canzoni più belle che siano mai state composte, e che sembrò per qualche momento potersi avviare a realizzazione con la caduta del muro di Berlino, si è trovato di fronte la crudeltà umana, l’assurdità delle guerre di religione, un’idea di Dio che piuttosto che unire divide gli uomini, l’avidità e la brama di possesso. E tutto quanto Lennon ci spingeva a immaginare di eliminare – un cielo sopra di noi e un inferno sotto di noi, le frontiere, i confini e le barriere tra le nazioni e le religioni – è stato, invece, rinnovato con forza e rinvigorito con convinzione.

E per un muro che è crollato – quello di Berlino nel 1989 – tanti altri ne sono nati, e continuano a nascerne, tra stato e stato, tra terra e terra, non per difendersi da pericolosi nemici armati fino ai denti, ma per tenere lontano disperati che fuggono in massa dalle guerre, dalle ingiustizie, dalla povertà, dal fanatismo, dall’odio. E se non si ha il tempo o il denaro per innalzare muraglioni invalicabili, si provvede rapidamente con selve di filo spinato e, se queste non bastano, si aggiungono uomini armati, non meno determinati dei famigerati Vopos, i componenti della Volkspolizisten che vigilava sul muro di Berlino. E se anche questi non sono sufficienti, non si esita a sparare cannonate d’acqua gelata su folle inermi. E a spararla sono anche quelli che hanno dimenticato d’essere stati in passato profughi.

Cinquant'anni fa, ai tempi di Imagine, i giovani si infiammavano di rabbia, cercavano di combattere, scendevano in strada e se pur non potevano agire almeno speravano in un mondo migliore. Facevano loro il sogno di Martin Luther King, condividevano la ribellione di Aretha Franklin, che gridava, più che cantare, la sua Respect, si chiedevano con Pete Seeger Where are all the flowers gone?, avvertivano la disperazione dei ragazzi che andavano a morire nel Vietnam dolorosamente denunciata da Joan Baez.

Poi proprio quelli della generazione che ha ascoltato con trasporto Imagine hanno imposto ai più giovani modelli soporiferi ed effimeri, anestetizzando quasi il loro naturale spirito di ribellione, addormentandoli con prodotti televisivi consumistici e volgari, ipnotizzandoli col culto dell’apparire e del possedere, privandoli della volontà e della possibilità di scandalizzarsi e perfino di sognare un futuro migliore, ingabbiandoli in quella che alcuni sociologi, con bruttissimo termine, definiscono “nowness”, maldestramente tradotta in italiano con l’ancora più brutta “adessità”.

Ma, per fortuna, si sta aprendo uno spiraglio! I più giovani stanno reagendo, si svegliano, si arrabbiano, uniscono le loro energie, protestano, fanno sentire la loro voce. Si battono per la salute della terra. E si mettono insieme battaglieri, superando barriere e distinzioni nazionali, etniche, confessionali, linguistiche, razziali.

In nome della salute del pianeta stanno forse facendo riaffacciare il sogno cosmopolita degli illuministi del diciottesimo secolo? E forse, grazie a loro, possiamo ancora tornare a immaginare quello che ci suggeriva cinquant’anni fa John Lennon?

Lo speriamo tutti davvero!