Dominatore incontrastato, è quanto si sostituisce allo spettacolo.

(Carmelo Bene, Autografia di un ritratto)

Io ho fondato la mia causa su nulla. I predicati delle cose sono mie osservazioni, miei giudizi e proiezioni. Se ambiscono a divenire enti separati da me li ricaccio nel mio nulla da cui sono usciti.

(Max Stirner, L’unico e la sua proprietà)

Perché Carmelo Bene era ossessionato dal Tamerlano di Marlowe e perché lo considerava uno dei pochissimi miracolosi esempi di vero/autentico teatro (apparente ossimoro)? Forse perché il Tamerlano è un racconto senza una vera storia e privo di alcuna psicologia dei ruoli, per cui appariva docile alla poetica di Bene del rifiuto del teatro quale mimesi e quale rappresentazione di uno status quo ante. Una voce cruda e poetica che urla e spiazza ogni discorso, qui eluso. Un “teatro” di pura trasparenza, senza ideologie e codici prestabiliti. L’eroe anti-eroe protagonista oltrepassa anche questa qualificazione categoriale perché non ha nulla da insegnare o da dire ma è parlato dal Destino che subisce e abita la sua scena come un nome che risuona nel vuoto del deserto/mondo.

L’Asia di Marlowe-Carmelo è un eco, un pretesto, un paradosso, un risuonare puro in grandi spazi d’aria in un processo di progressiva desertificazione. Tamerlano appare un enigma anche a sé stesso. Emerge con la forza delle energie della natura, schiuma degli umori della terra, spinto da una necessità che vince ogni resistenza, spazza ogni ostacolo; condannato ad annichilire tutto e tutti, senza neppure un reale compiacimento né un fine particolare.

L’Imperatore quale epifania astrusa di Ananke, la dea greca più enigmatica. Quanto non comprendiamo, e non possiamo comprendere la storia perché ci include, allora chiamiamo in causa il “caso” ovvero il “destino”: freccia scoccata di cui non si vede l’arco o il bersaglio. Marlowe abbozza un Tamerlano che resta ignoto a sé stesso, sfingeo, inesorabile e irreparabile come l’invivibilità della vita. Non c’è evoluzione né dinamica in questa figura per cui non è riducibile alla categoria del “personaggio”.

Il condottiero mongolo non ha dubbi né incertezze: le stelle lo indicano invincibile contro tutti: persiani, turchi e arabi che siano, contro il suo stesso popolo, prima sua vittima e vittima lui stesso del proprio trionfare sugli ostacoli e sulle resistenze. Tutte le altre “voci” sono comparse di una storia insensata, ombre, flebili tentativi di opporsi al corso di Nemesi, all’urgenza della Necessità che risolve ogni dialettica in pura stasi. Quasi pretesti narrativi ma privi di una vera valenza autonoma. Come tali vanno messi in scena quali ombre, comparse senza senso, effimere, futili, Mero chiacchiericcio infido e stucchevole. Al contrario e all’opposto Tamerlano più che eroe va configurato quale necessità, uomo-meteora che ricorda Achille e Attila, forza fisica della natura, cosa più che uomo.

Il racconto di Marlowe si rivela ricco di riferimenti al mito greco come pure di notazioni naturalistico-geografiche che non definiscono un vero spazio di scena ma ri-fondano il teatro quale locus negativo, vuoto, paradossale e omni-includente. Spazio mentale e immaginale. Un luogo non luogo che implode assorbendo e attraversando ogni forma. Uno spazio mentale-espressivo che congiunge l’idea di centro con quella di estremo limite: l’imperatore è sempre in questa faglia, in questo bordo sottile. Un uomo-voragine, un imperatore-limite il cui trionfo annichilisce paradossalmente il senso stesso dell’individuo e dell’ego.

L’uomo-nulla che viene dal nulla e lo abita. Una voce senza storia e senza volto che interpella l’uomo nella sua essenza relazionale tra morte e destino, libertà e significato, sempre vanificato. Il prologo stesso dell’opera rivela l’essenza del suo porsi: “specchio tragico” nella “tenda” del cosmo.

Carmelo quasi alla maniera della poesia sufi ricordava che la coscienza e il principio di identità non escono da un decorso che può visualizzarsi nell’immagine di uno specchio che rimanda alle “cose” e delle cose che rimandano allo specchio! De-corso che la “scena” quale locus fonico e vuoto poteva dribblare in una metanoia poietica, in una fuga musicale dal linguaggio e da codici pretestuali.

Tamerlano esprime con la sua autistica necessità, con il suo lucido delirio di onnipotenza lo spirito della musica secondo Schopenhauer e Nietzsche: volontà cieca senza rappresentazione. Il capo asiatico non pone un’etica del potere, non finge una forma di giustificazione al suo dominio ma si auto-impone quale opera, come una poesia nel silenzio. Una vita quale canto di una singolarità assoluta il cui unico limite è quello di saper portare e lasciar abitare una necessità aliena e misteriosa per lo stesso ego che ne è effimera maschera. Ecco lo spirito stoico che assume l’assoluto quale verticalità istantanea in un’esistenza quale teatro e corteo delle maschere: qualis artifex pereo!

Ecco la “soggettività bambina”, il “soggetto senza Io” teorizzato da Bene quale fondamento radicale e non addomesticabile del proprio “star male in scena”. Marlowe da una parte fa di Tamerlano un iper-umanista che tende all’identificazione della singolarità individuale con la vastità del cosmo e dall’altra giunge all’implosione dell’umanesimo nella consumazione fine a se stessa della volontà e del tempo.

Tamerlano come Attila e come Achille sono fanciulli che non vogliono crescere, non vogliono imparare ma restano fedeli alla loro innata informalità selvatica. Il regno poetico dell’ “orale” contro ogni tirannia del testo e del “già scritto” contro cui combattè sempre il nostro Carmelo.

Tamerlano quale “macchina attoriale” vivente, “sensazionale” in quanto produttrice di sensazioni totali, pure, immediate. Singolare e unica ma non personalistica ma piuttosto disindividuante. Tutto ciò mi ricorda quel racconto di Italo Calvino contenuto nell’opera Sotto il sole giaguaro dove un re non lascia mai il proprio trono per timore che qualcuno gli sottragga il potere. E allora gradualmente finisce per identificarsi con il trono quale oggetto, quale escrescenza del palazzo reale, feticcio, simulacro vuoto ma risuonante in un ascolto totale, insensato, puro sismografo umano del Nulla. Divenire ascolto, divenire inorganici, sparsi.

L’opera di Marlowe appare sostanzialmente un monologo dove l’unica voce, quella dell’eroe mongolo, riverbera attraversando i soffi di alerità che appaiono come spettri, apparizioni-proiezioni stirneriane della fantasia della medesima unica presenza. Il suo arco deflagrante di inarrestabile trionfo ricorda la vanità roboante dell’assolo di Mercuzio su Mab, la regina delle fate, nel Romeo e Giulietta di Shakespeare. La vita quale bolla di sapone, nulla che rumoreggia. La non-dualità dell’Imperatore asiatico affascina con il carisma di un’unità quasi infantile, pre-coscienziale quanto ancestrale e metastorica. La Storia? Io non c’ero!

Tamerlano-Asia non lascia mai sé stesso, non esce mai dal suono delle sconfinate e ventose praterie del proprio vasto esserci dove lo svanire è canto e musica. La “Storia” viene svuotata in un’epica singolare, irripetibile, irreparabile. È paradossale che la poetica beniana sia incentrata nel rifiuto delle logiche del testo come sistema di potere e catena di montaggio e nel contempo abbia saputo affrontare e reinventare autorialmente specialmente opere che sono sostanzialmente racconti di potere: Amleto, Macbeth, Riccardo III e la stessa ossessione per questo Tamerlano, archetipo del satrapo imprevedibile e dall’istinto animale. Il trono resta fisso e assente, vuoto nel concetto biblico di Vuoto quale vacuità effimera ma pure quale infinità inconcepibile. Non c’è movimento nella figura dell’Imperatore: la fissità della sua voce cresce come una bolla di sapone e ruota attorno ad un esserci quale dato bruto, irrelato.

Ecco la Voce del Destino quale irreparabile e ignoto non comprensibile, non rappresentabile, e quindi non giudicabile moralmente. Figura non imitabile perché non rappresenta nulla nella sua semplice presenza, singolare in senso fisico, letterale: non replicabile né esportabile. Specchio opaco e vasto. È il Bambino che non cresce se non nel suo capriccio e arbitrio pre-egoico, libero dall’ingombro del pensiero, dal fastidio della ragione e dell’ “utile”. Carmelo ha sempre amato le figure crude, taglienti, fatali, totali, come nelle sue Interviste Impossibili: Attila, Montezuma, Caligola, Eliogabalo. Figure eccessive, cieche, contraddizioni viventi alla “democrazia” quale metafora trasparente e insensata di una vita insensata, invivibile, insopportabile. Solo l’eccesso dà pace, armonia.

L’Imperatore illustra sé stesso con una voce poetica che urla che si attraversa. Evaporazione del nesso causale, sottoscriverebbe Heinz Von Foerster. Non c’è persona-maschera né de-corso dove regna Necessità, Sorgente. Il trono assente ma necessario alla “messa in scena” resta fisso e indescritto dentro la mobile e rotonda tenda mongola, segno dell’inconcludenza del mondo, del suo correre in cerchio senza sosta, ciecamente. Illuminante cecità come quella di Pentesilea che si frange contro sé stessa, che autoimplode. Nulla volendo, come una musica. Achille e Pentesilea come Tamerlano giungono al loro limite senza volere nulla senza chiedere né aspettarsi nulla. Vanificando e bruciando ogni attesa e aspettativa. Il giocattolo è definitivamente rotto. Il centro è una voragine, il cerchio si torce e oscilla. E dietro alla scia il mare si richiude nella sua opacità riflettente.