Il benessere è un obiettivo di coesione sociale, dell’esistenza di un corpo tra corpi, ed è lo scopo di una sistemazione attenta all’insieme delle relazioni costitutive di un paesaggio come quadro di vita, dove le persone agiscono in un continuo rapporto dinamico tra le condizioni dei singoli e quelle sociali, economiche e ambientali. Il benessere va condiviso, come l’abitare lo stesso luogo, in quanto totalità di rapporti vicendevoli tra individui, gli uni con gli altri e con l’ambiente fisico della loro esistenza. Le relazioni si fondano sull’uniformità e l’equilibrio con lo spirito ecocompatibile di una politica di qualità attenta al processo di paesaggio, per l’esistenza stessa degli abitanti, in una trama di connessioni in continuo movimento e innovazione, non di sovrapposizioni.

Una buona pratica di paesaggio punta alla qualità delle relazioni locali, con l’obiettivo primario del benessere fisico e psicologico degli abitanti, attraverso la cura delle condizioni ambientali, economiche, di lavoro e dei rapporti sociali. Il benessere si traduce nella soddisfazione per un quadro di vita dalla buona visibilità etica ed estetica. In tale ambito possiamo collocare il dibattito sulle infrastrutture, che dovrebbe proporre soluzioni con il recupero della costellazione paesaggistica, non nella sua qualità di oasi estetica, ma come quadro di vita con le relazioni che lo costituiscono e lo animano: connessioni e rapporti. Le connessioni favoriscono i rapporti lasciando segni evidenti. Paesaggio è un gioco continuo, mobile, tra struttura e infrastruttura, con le quali s’identifica, distanziandosi da un’idea estetizzante di natura per un ambiente funzionale di vita di alto valore sensibile, vale a dire realmente estetico.

Le infrastrutture hanno un’utilità potenziale e una dignità d’opera, che superano una visione parziale del loro aspetto con canoni di gusto individuabili oggi in opere segnate dal tempo, come gli acquedotti romani, le linee metropolitane sospese, o innovatrici, come le autostrade francesi con le aree giardini-paesaggio aperte alla scoperta dei luoghi e alla sosta. La qualità di un’estetica della misura segna con grazia e sublimità la rete urbana ed extraurbana, spesso con funzione di riparo dalla globalizzazione recuperando dimensioni locali degradate. Il problema si pone con la richiesta di un’attenzione progettuale nel processo di paesaggio, da non demonizzare per evitare paradossalmente di creare mostri di cui non abbiamo bisogno, ma affrontato nel rapporto tra funzione e opera, considerando “naturale” l’agire umano nell’ambito della misura richiesta dall’evoluzione del territorio.

Abito, dunque sono. Esisto non da solo ma con altri che riconosco, persone e/o cose in un rapporto misurato al quadro di vita. La relazione è fatta di rapporti, distanze misurabili disposte in uno spazio che formano una costellazione visibile. La misura fonda la dimensione antropologica con le sue relazioni in funzione dei problemi della società attuale, evidenti nell’abitare. Ogni luogo è un prodotto sociale e segue i ritmi dell’uso della terra. Così progetto è anticipazione che segue il processo di paesaggio: un’idea con l’anima dentro che gioca sempre sull’equilibrio tra i bisogni sociali, l’economia e l’ambiente.

Differenze e somiglianze, identificazione e distinzione fanno sì che un luogo si riconosca differenziandolo da un altro. Ogni realtà paesaggistica va letta, interpretata e raccontata nella sua esclusiva individualità d’esperienza locale in un quadro di vita sempre più complesso e in così rapida trasformazione da rendere obsolete molte categorie concettuali e alcune certezze. Una verità profonda narra la trasformazione del nostro mondo e la scomparsa delle dimensioni originarie dei luoghi: le misure dell’uomo con il loro valore. Riflettiamo sulla percezione dei paesaggi con i loro accadimenti visibili e nascosti, con le loro norme e misure adottate; comportamenti e affezioni. Il fascino dell’origine e degli avvenimenti successivi danno concreta e simbolica sostanza a un sito, dove gli eventi hanno avuto luogo: un cadere di fatti e cose, divenute il valore concreto di uno spazio unico con la sua narratività, confermando il fenomeno ampio, in superficie, e profondo, in verticalità, dell’abitare come un abito indossato, un radicamento profondo non una semplice occupazione di spazio.

La spazialità operativa di ogni attività umana crea un quadro di vita e andrebbe interrogata per comprenderne i modi. Un luogo è lo spazio comune del legame e dei comportamenti che uniscono alcuni individui in un’affinità materiale e spirituale, condividendo simboli e regole. L’appartenenza è l’esperienza di un determinato rapporto con lo spazio percepito che è tradizione, ma non tradizionalismo, con idee, preconcetti e atteggiamenti di un quadro di vita aperto o chiuso all’accoglienza. Cosa c’è di più semplice e consueto di un termine come tradizione? Se lo studiamo bene e lo confrontiamo con tradizionalismo, scopriamo la complessità di un’apparente semplicità, soprattutto se lo rivolgiamo verso l’esterno, l’estraneo, l’altro.

Tradizione è la veste discreta di fattura familiare indossata quotidianamente; la totalità dell’essere locale, il modo abituale di esistenza, i costumi, i caratteri della famiglia, delle pratiche religiose, l’ambiente sociale ed economico, il paese, la nazione. L’attenzione per l’etica pubblica, il patriottismo repubblicano, per esempio, rafforzano l’appartenenza e il riconoscimento in una definita costituzione politica. Io sono, esisto perché abito in un determinato quadro geopolitico.

La tradizione possiede una forma immateriale non visibile dall’esterno ma percepibile da un insieme di elementi visibili e celati da cui emerge. Non è conosciuta ma vissuta: è la vita quotidiana del fare e dell’agire; riconoscibile nei comportamenti visibili e confrontabili da chi osserva con lenti differenti per appartenenza. Si percepisce attraverso il contatto con altre tradizioni e può suscitare interesse o diffidenza: sentimenti spesso legati a impostazioni ideologiche personali o manovrate dal potere. Appare come un valore in sé che fonda tutti gli altri. La tradizione, quando è radicata, non ha bisogno di essere nominata, perché costituisce l’insegnamento dei padri, l’invito a comportarsi come loro, conformemente a certe abitudini, come hanno agito: senza pronunciarla ma praticandola, dicendo semplicemente: “È così”.

I padri non facevano confronti. Questa fragilità si rivela nella comparazione. Rapportarsi agli altri, alle altre credenze e abitudini, comportava talvolta forme d’incomprensione e, nello stesso tempo, la valutazione del proprio vissuto come simile ad altri. Un atteggiamento pari a quello dei Greci dinanzi ai popoli dalla lingua per loro incomprensibile, chiamati barbari per la pronuncia di sillabe risuonanti barbar. Erodoto riconosce gli altri popoli con valutazioni scaturite dalle lenti della sua cultura, che non impediva l’attenzione per l’altro, descrivendone usi e costumi, credenze, economia e società, senza dimostrare alcuna idealizzazione delle abitudini dei padri come veri soggetti storici. La trasformazione del mondo è sempre stata una realtà di fatto riconosciuta e le tradizioni non frenano i mutamenti, ma s’inseriscono nel loro alveo.

La tradizione è, dunque, debole quando è frequentemente nominata, forte se non se ne parla per nulla. La tradizione non è una barriera contro il cambiamento perché lo accetta. La tradizione ha in realtà un vissuto di cambiamento continuo e progressivo: riposa sul mutamento permanente ricevendone stabilità. Tende alla trasformazione anche se ciò non significa tolleranza di ogni cambiamento. Questo è il problema del nostro tempo in cui tuona la voce intimidatoria dei tradizionalisti insofferenti della trasformazione.