Sulle vicende del “sistema” Palamara e delle dichiarazioni rese dall’avvocato Amara alla Procura di Milano molto si è detto e scritto e non è il caso di soffermarsene ancora se non per l’occasione offerta alle forze politiche di provvedere con urgenza alla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Ogni proposito di riforma è meritevole di rispetto, quello che si vuole sottolineare, prima di passare al merito, è la totale estraneità delle vicende Palamara-Amara al lamentato disfunzionamento del CSM e dell’ordinamento giudiziario. Il sistema Palamara è legato infatti alla deplorevole, e da tempo abusata, pratica spartitoria tra le varie correnti dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) degli incarichi direttivi degli uffici giudiziari di primo e secondo grado, mentre per l’ordinamento giudiziario si è di fronte alla ennesima riproposizione della necessità della separazione dei poteri tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti, che, peraltro, non ha nessuna attinenza con le vicende di cui sopra.

Piuttosto che intervenire attraverso l’attività legislativa del Parlamento, parte delle forze politiche hanno preferito ricorrere allo strumento referendario su sei proposte di riforma. È chiaro l’intendimento di chiamare gli italiani ad esprimere una sorta di voto di sfiducia, con conseguente e grave effetto delegittimante per l’intero sistema giustizia di questo Paese. Dal 2 luglio è iniziata la raccolta delle firme e, sia pure in via ufficiosa, si da per scontato che, entro il 30 settembre sarà raggiunto il numero di voti necessario di 500.000 firme su ciascuno dei sei quesiti.

In sintesi, essi sono: responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, limitazione alla custodia cautelare, abrogazione della legge Severino, abolizione dell’obbligo della raccolta firme per i magistrati che vogliano candidarsi al CSM, diritto di voto per i membri non togati nei consigli giudiziari.

Sulla responsabilità civile dei magistrati vi era già stato un referendum su proposta del Partito Radicale, che ebbe successo, a seguito del quale fu varata una legge, n. 13 aprile 1988, n. 117, modificata con legge n. 18 del 2015 (Governo Renzi) oggetto dell’odierna proposta referendaria di abrogazione. La normativa vigente prevede che l’azione di responsabilità sia diretta nei confronti dello Stato, il quale, a sua volta, in caso di condanna, ha la possibilità di rivalsa economica nei confronti del magistrato, sia pure entro limiti prefissati e non eccedenti la metà dello stipendio annuo complessivo, al netto della ritenuta fiscale e, in caso di pagamento rateale, entro il terzo dello stipendio mensile.

L’azione civile può essere proposta solo in caso di dolo o colpa grave e, comunque, non per l’attività di interpretazione di norme di diritto, né per quella di valutazione del fatto e delle prove. L’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato va esercitata obbligatoriamente entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, nei seguenti casi: diniego di giustizia, violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'articolo 2, commi 2, 3 e 3-bis, tutte ipotesi che siano determinate da dolo o negligenza inescusabile.

La proposta referendaria, invece, cancella del tutto questa procedura e la sostituisce con l’azione civile diretta del cittadino danneggiato nei confronti del magistrato ritenuto responsabile. Come è facile immaginare, la parte soccombente in un giudizio civile che si ritiene danneggiata dalla decisione del giudice (e, ovviamente, una parte soccombente è immancabile, tranne che nei casi di rinuncia o transazione), potrebbe così adire direttamente il giudice. Per i magistrati esiste già una responsabilità diretta penale, disciplinare e contabile. Quella civile, se modificata nel senso voluto dai proponenti, renderebbe il processo civile e penale un “campo di battaglia”, che vedrebbe coinvolto anche il giudice, facendogli perdere terzietà, per essere trasformato in una parte con il rischio di potere essere convenuto in continui procedimenti che lo distoglieranno inevitabilmente dal suo lavoro. Se si tiene conto che un giudice civile ha mediamente un ruolo di un migliaio di procedimenti a lui assegnati, si comprenderà quale sconvolgimento c’è da attendersi sul suo rendimento, la sua serenità di giudizio, preoccupato più dai rischi di essere coinvolto dalle parti forti nei processi, che dalla necessaria equidistanza tra di esse. In ogni caso si tratterebbe, a ben guardare, di un vero e proprio ulteriore grado di giudizio, del quale non si avverte per nulla la necessità.

Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella Raccomandazione CM/Rec (2010) 12, avente ad oggetto: indipendenza, efficacia e responsabilità, composta da 74 disposizioni (un vero e proprio statuto del magistrato europeo), stabiliva nei tre paragrafi finali:

  1. L'interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità disciplinare o civile, tranne che nei casi di dolo e colpa grave.

  2. Soltanto lo stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un tribunale.

  3. L'interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non devono fondare responsabilità penale, tranne che nei casi di dolo.

La vice presidente dell’ANM, Alessandra Maddalena, ha, a sua volta, espresso parere nettamente contrario al referendum, con la motivazione che “nella maggior parte degli ordinamenti giuridici democratici è esclusa la responsabilità civile diretta dei magistrati”.

Anche la giurisprudenza comunitaria, con la sentenza Kobler, nella causa CEDU C-224-01 del 30 settembre 2003, richiamata da pronunce successive, ha precisato che il riconoscimento della responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario non comporta rischi per l’indipendenza degli organi giurisdizionali proprio perché non investe la responsabilità personale del magistrato, ma soltanto quella dello Stato. Si legge nel dispositivo: “Il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili, si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese. Al fine di determinare se la violazione sia sufficientemente caratterizzata allorché deriva da una tale decisione, il giudice nazionale competente deve, tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale, accertare se tale violazione presenti un carattere manifesto”.

Dunque, la proposta referendaria di azione di responsabilità proposta in via diretta nei confronti del magistrato è inammissibile alla radice essendo contraria e incompatibile con norme di diritto interno e comunitario, con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, con la raccomandazione comunitaria del 2010, sopra richiamata.

La separazione dei poteri viene presentata dalla classe forense e dalle camere penali (oltre che dalle forze politiche che ne richiedono l’abrogazione) come il rimedio unico, imprescindibile per la soluzione in chiave garantista dei problemi della giustizia. La versione più radicale è quella della separazione dei concorsi dei magistrati giudicanti da quelli requirenti, altra si limita a prevedere che, pur rimanendo unico il concorso, i vincitori debbano scegliere già all’atto della nomina, se far parte della magistratura giudicante o di quella requirente, senza poter più modificare tale scelta. Si pensa così che tale soluzione possa dar luogo non più ad un rapporto “tra colleghi” ma tra “rivali”. I rischi sono tanti e notevoli.

Il rischio maggiore è quello della lenta ma inevitabile uscita del p.m. dall’area della giurisdizione per assumere un profilo di tipo amministrativo, di guida della polizia giudiziaria, o di avvocato della polizia. L’Italia, infatti, è l’unica democrazia europea che offre al ruolo del pubblico ministero garanzia di indipendenza e autonomia analoghe a quelle dei giudici. In quasi tutta Europa è il Ministro della Giustizia che ha poteri di controllo e di indirizzo nei confronti dei procuratori della repubblica, persino per il loro avanzamento in carriera. L’attuale posizione ordinamentale del P.M., interna all’area della giurisdizione, trova conferma e non a caso, nel dovere di svolgere anche “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 codice di procedura penale).

Ne consegue che, in presenza di indizi di colpevolezza labili e insufficienti, egli è tenuto a chiedere l’archiviazione del procedimento. Negli ordinamenti di common law, le indagini sono svolte autonomamente dalla polizia giudiziaria, che trasmette gli elementi raccolti al pubblico ministero affinché decida, sulla base degli stessi, se esercitare o meno l’azione penale. In questi casi, il pubblico ministero ha anche compiti di consulenza legale nei confronti della polizia ma non ha poteri di direzione sulla stessa. Nell’ordinamento italiano, invece, il pubblico ministero dirige la polizia giudiziaria, le conferisce delega, sia in maniera generica che con direttive specifiche, filoni investigativi da percorrere e approfondire. Sul punto va richiamato l’art. 109 della costituzione che stabilisce che “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”.

Il problema della separazione delle carriere è, inoltre, enfatizzato quasi che, nel corso della carriera, i nostri magistrati si divertano a passare frequentemente da una funzione all’altra, quando invece i passaggi sono molto più rari di quanto si pensi (uno o due al massimo lungo l’intera carriera) e riguardi una percentuale minima di magistrati. Il passaggio a diversa funzione viene disincentivato in quanto comporta il cambiamento di distretto, la distanza di cinque anni dal cambiamento precedente, e non oltre i quattro anni precedenti al collocamento in pensione. Uno studio a cura del CSM, sia pure datato, ha accertato, che nel quinquennio 2011-2016, la percentuale annua dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra (rispetto al numero di quelli effettivamente in servizio nell’una e nell’altra funzione) è la seguente: requirenti: 0,83, giudicanti: 0,21. La tesi delle cosiddette “porte girevoli” viene clamorosamente smentita.

La Costituzione, all’art. 107, comma 4, dispone che “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”. Il termine carriera non appare mai. La separazione delle carriere non comporterebbe più la distinzione per funzioni, l’unica prevista in Costituzione, con conseguente incostituzionalità della proposta referendaria anche sotto questo decisivo profilo.

Anche nell’anno in corso, in occasione di una riunione indetta dalle Camere penali in piazza Cavour a Roma, esponenti di varie forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione, hanno sostenuto con forza la separazione delle carriere come esigenza imprescindibile di garantismo giudiziario, quasi fosse una necessità scontata, senza bisogno di ulteriori approfondimenti. Nulla di originale. I tentativi a parlamentari di introdurre la separazione delle carriere sono stati numerosi, almeno uno per ogni legislatura, sono tutti falliti, almeno sinora.

Altro quesito referendario propone l’abrogazione della Legge Severino, ad evidenziare la preoccupazione della classe politica di dovere incorrere nelle sanzioni penali ed in quelle accessorie in essa previste. Sotto il governo Monti, il ministro della Giustizia Paola Severino fu l’autrice della legge 6 novembre 2012, n. 1890, che prese il suo nome, che, oltre all’aumento delle pene previste per i reati di corruzione e concussione, stabiliva, all’art. 11, la sospensione per due anni dalle cariche amministrative e politiche già a seguito di condanna di primo grado per quei reati, sanzione applicabile anche per reati commessi in data anteriore all’entrata in vigore della legge.

I quesiti residui riguardano la limitazione della custodia cautelare, l’abolizione dell’obbligo della raccolta firme per i magistrati che vogliano candidarsi al CSM, il diritto di voto per i membri non togati nei consigli giudiziari.

In sintesi, le ipotesi di custodia cautelare obbligatoria sono ormai poche e, anche per reati gravi, trova larga applicazione la detenzione domiciliare. Proporre nuove limitazioni senza neppure precisarle non incontrerà certo un largo consenso nell’opinione pubblica.

L’abolizione dell’obbligo della raccolta delle firme (da 25 a 50) vuole impedire la necessità per il candidato a consigliere componente del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), di dovere iscriversi ad una delle correnti dell’ANM. Da questo alla loro abolizione ce ne corre, interpretando esse le svariate tendenze ideologiche, interne alla magistratura, che ebbero la loro più evidente manifestazione tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni ‘70, in concomitanza con le forti esigenze riformatrici di un corpo giudiziario paludato e lontano dai mutamenti sociali e culturali del Paese.

Al momento vi sono svariate proposte di nuovi sistemi elettorali del CSM, tra le quali persino quella, che pare godere una certa fortuna, della nomina dei componenti togati per sorteggio. Soluzione che non può trovare accoglimento, sia perché in contrasto con la Costituzione (art. 104, quarto comma) che prevede solo il metodo elettivo, sia perché in contrasto con il principio rappresentativo dei componenti rispetto alla propria base elettorale, così come avviene per i componenti di nomina parlamentare.

Quanto, infine, alla riforma dei Consigli giudiziari distrettuali, si propone la modifica della loro composizione “ristretta”, competente sulle valutazioni periodiche di professionalità, pareri sulle nomine e proroghe dei titolari di incarichi direttivi, iniziative disciplinari, consentendo la partecipazione al voto dei componenti dei rappresentanti degli avvocati e dei professori universitari. Nessuna obiezione in linea di principio, anche se la categoria accademica non è in grado di avere conoscenze specifiche sulle materie di cui sopra, mentre per gli avvocati vi sono problemi di altra natura sul piano delle incompatibilità e delle motivazioni legate all’andamento di vicende giudiziarie di particolare gravità e complessità. In sede di composizione “allargata” i componenti esterni hanno invece diritto di voto in materia di formazione delle tabelle e organizzazione degli uffici. In ogni caso, la componente esterna è minoritaria rispetto a quella dei magistrati eletti, (il cui numero è composto in proporzione all’ampiezza del distretto) ai quali si aggiungono i componenti di diritto, Presidente della Corte d’Appello che lo presiede, e Procuratore generale.

Il problema, pertanto, di non intaccare l’attuale regolamentazione non è tanto quello dell’autonomia e indipendenza della magistratura, quanto quello della riservatezza di dati sensibili. In alcuni distretti i regolamenti interni, consentono tuttavia che anche nelle materie riservate alla composizione ristretta sia prevista un “diritto di tribuna”, ovvero di mera presenza, senza diritto di voto, di rappresentanti del foro.

Tornando alla procedura referendaria, dopo il controllo dell’Ufficio centrale della Cassazione, (che verifica la regolarità e il numero dei voti raccolti) si dà avvio al giudizio di ammissibilità attribuito alla Corte costituzionale dalla l. costituzionale n. 1/1953: la Corte deve verificare “se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75 Cost. siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell’articolo stesso”. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 16 del 1978 ha stabilito che i requisiti di ammissibilità non riguardino le leggi sottratte espressamente al referendum abrogativo (“leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”), ma anche che le proposte abbiano oggetto unitario e il cui esito positivo non determini un vuoto legislativo, idoneo a paralizzare l'attività di un organo costituzionale. Come è facile rilevare anche dai non addetti ai lavori, si tratta di problemi ad elevato contenuto tecnico-giuridico sui quali il cittadino comune potrebbe avere difficoltà ad esprimere un voto informato e responsabile.