Le notizie delle ultime ore che arrivano dalla Tunisia e che raccontano di una ventina di tentativi di emigrazione clandestina, con destinazione le nostre coste, sventate dalla guardia costiera tunisina, nulla tolgono alle preoccupazioni che deve generare quanto sta accadendo nel Paese nordafricano.

Le decisioni adottate dal presidente Kais Saied qualche settimana fa non sono altro che la conferma di una democrazia fragile, che non ha saputo capitalizzare l'enorme credito internazionale di cui godeva quando, nel 2011, ha detronizzato il dittatore Zine el Abidine Ben Ali, di cui oggi più d'uno in Tunisia ha nostalgia, forse solo per il fatto che, sotto il suo ferreo controllo, il Paese - povero per essere stato depredato di gran parte delle sue ricchezze dalla cricca che pasteggiava a whisky e corruzione ai piedi del trono - godeva di un solo bene, la (apparente) sicurezza.

Oggi c'è ancora chi pensa che il fatto di avere per strada, lungo quelle secondarie così come nelle più trafficate, delle divise fosse l'emblema che tutto era sotto controllo, anche però la libertà di ciascuno.

Per questo quando Saied ha fatto ricorso a tutte le prerogative che la Costituzione del 2014 riconosce al presidente per cercare di porre rimedio al declino del Paese da tutti i punti di vista (da quello della democrazia alla sicurezza, dall'economia alla sanità, dal fallimento della lotta alla corruzione al pericolo latente dell'islamizzazione della Tunisia) la gente è scesa in strada, chi per inneggiare a lui, chi per criticarlo.

Ma almeno la Tunisia è sembrata reagire allo stato di assuefazione che ha solo fatto il gioco di chi se ne vuole impossessare. Così notizie eclatanti come quelle delle ultime ore sembrano solo scalfire il distacco della gente da quel che accade dalle parti del palazzo di Cartagine (sede del presidente) e del Bardo (il Parlamento), in attesa che la situazione si stabilizzi. Sapere che una trentina di deputati sono indagati, sotto il ''nuovo corso'', per casi di truffa (emissione di assegni a vuoto), riciclaggio di denaro e abuso di fiducia sembra non scuotere più di tanto il Paese, che sa benissimo come la partita sia ancora lunga e niente affatto decisa.

Ma in questo quadro c'è da riflettere se le responsabilità di quanto sta accadendo siano da riportare esclusivamente ai tunisini oppure ce ne siano di esterne, magari di Paesi come il nostro che avrebbero dovuto avere tutto l'interesse a che la situazione nel Nord Africa fosse tranquilla, magari anche pacificata, ma comunque tale da non generare per noi timori e preoccupazioni.

Noi invece non ci siamo veramente interessati della Tunisia se non all'esplodere delle proteste, come se avessimo ritenuto di non potere interferire in vicende di un altro Paese - e sin qui tutto giusto - quanto di non fare valere la nostra influenza (con i nostri euro).

Un falso problema perché noi, da tempo (ben prima della caduta di Ben Ali) della Tunisia ci siamo occupati, traducendo il nostro interesse in fatti concreti, come forniture militari o consiglieri per la formazione di quadri militari e della sicurezza.

Ed invece siamo stati spettatori della corsa verso il baratro di un Paese dolce come l'odore dei gelsomini, che invade le strade e si arrampica sui muri delle case, bianche ed abbacinanti sotto il sole a picco, ma che sa essere aspro quando si accorge che le promesse sono rimaste a mezz'aria, inattese perché già false.

La svolta decisionista di Kais Saied, dopo la cacciata del primo ministro, Hicham Mechici, e di altri componenti il suo governo, è la certificazione di un Paese senza una leadership politica degna di tale nome e quindi riconosciuta ed accettata, che vive l'incertezza di una situazione economica sempre precaria e della conseguente crisi sociale che essa ha determinato.

Le decisioni assunte negli ultimi giorni dal presidente della Repubblica e dagli uomini che ha messo ai vertici operativi dello Stato devono essere però guardate alla luce di più considerazioni, la prima delle quali è che Saied non si è certo mosso da solo, mettendo quindi il Paese davanti al fatto compiuto, ma avendo già da prima l'assenso delle forze armate e degli apparati di sicurezza, senza i quali nulla si può fare in Tunisia.

Retaggio di quanto faceva Ben Ali (anch'esso ex militare e parricida politico del padre della Tunisia, Bourghiba), inondando di privilegi gli uomini in divisa, a ciascuno dei quali veniva riservata una piccola fetta di potere, che spesso si concretizzava in tecniche di sopravvivenza minima, magari con creste appioppate qui e là alla gente.

L'errore in cui oggi si potrebbe cadere è pensare che ci si trovi di fronte al classico golpe in doppiopetto, un colpo di Stato senza grande resistenza se non da chi - per effetto della cancellazione delle prerogative dello status quo - vede inaridirsi la propria capacità di incidere sulla vita del Paese.

Se questo poteva avere un senso sino ad un paio d'anni fa (con la crisi economica sempre più grave e l'incapacità di fronteggiarla se non chiedendo aiuto all'Europa), oggi questo è impossibile perché sulle ferite lasciate aperte da un calo del potere d'acquisto della moneta locale - il sempre più debole dinaro - si sono sparse le conseguenze della pandemia, che ha trovato terreno fertile in una situazione sanitaria nazionale incapace, endemicamente, di rispondere alle emergenze.

Con gli ospedali pubblici letteralmente in ginocchio e nell'impossibilità di fornire un'assistenza appena sufficiente (oggi manca tutto e le fotografie di medici disperati e in lacrime poco rappresentano la realtà), la frustrazione dei tunisini ha covato per mesi, sino a quando le proteste sono esplose e con esse l'atavica voglia di ribellarsi che la gente si porta dietro e che è sempre in cerca di un pretesto.

Per Ben Ali fu l'incapacità di trovare lavoro per le migliaia di giovani che lui aveva voluto seguissero un percorso accademico degno di tale nome; per i primi governi post-rivoluzione fu la paralizzante conflittualità tra i partiti, che spianò la strada all'integralismo islamico ed al terrorismo jihadista; per gli ultimi esecutivi, la crisi sanitaria e, con essa, il perdurare di quella economica.

Se la Tunisia cadrà ancora di più nel caos, il problema riguarda anche noi, perché le spiagge di Zarzis, Djerba, Sousse e Kerkennah potrebbero ridiventare, piuttosto che spiagge per bagnati, banchine ideali per barconi carichi di disperati.

Senza la polizia e le altre forze di sicurezza a presidiare le strade, la Tunisia può ridiventare in breve quell'avamposto che gli scafisti hanno sempre privilegiato, per ovvi motivi logistici, ma anche perché l'azione di contrasto va a periodi alterni, tra repressione e benevola considerazione. Quando la decisione del presidente Saied è uscita dal palazzo di Cartagine per andare sulle strade, con un dispiegamento di mezzi e uomini, intorno ai palazzi del potere - politico e no - la gente ha avuto reazioni contrastanti. Anche se quelle di plauso - e quindi appoggio - all'iniziativa del presidente sono state nettamente più consistenti rispetto a quelle di contestazione.

Ci sono state già delle scaramucce tra sostenitori di Ennhadha - il partito islamico guidato da Rached Gannouchi - che cercavano di entrare nel parlamento, e la polizia che circondava il palazzo sin dalle primissime ore del mattino, in previsione di disordini.

Ma - al di là di qualche manganellata distribuita nemmeno con tanta violenza e urla e slogan contro il ''colpo di Stato'' - le scene alle quali si è assistito sono sembrate, più che scene di guerriglia urbana o veri e propri tentativi di violare la sacralità della sede del parlamento, solo dei timidi tentativi di saggiare la reazione degli agenti, che sono sembrati molto tranquilli, limitandosi a mostrare i muscoli, più che utilizzarlo con durezza.

Comunque, come sempre accade in eventi come quelli di oggi in Tunisia, le prossime settimane spiegheranno molte cose, anche se probabilmente non tutte.

Ora, quindi, lo scontro diventa essenzialmente politico e solo nelle prossime ore si saprà - in base alle reazioni di altri Paesi dell'area e delle organizzazioni africane - se Saied si è fatto prendere la mano o quel che ha fatto aveva avuto il tacito assenso di alleati e di ex nemici.