Per volere di Zeus ogni giorno, per l’eternità, un’aquila dilania il fegato di Prometeo incatenato ad una rupe del Caucaso. Prometeo è colpevole di aver donato agli uomini la tecnica, cioè il potere di ottenere dalla natura cose per cui prima era necessario supplicare gli dei1:

Io, inventai l'attacco di bestie selvatiche al giogo, io le domavo sotto cinghie: dovevano essere loro gli eredi dell'uomo nella fatica pesante, che stronca. Io trassi il cavallo alle stanghe del carro, lo feci tutt'uno alle briglie: fregio stupendo del lusso che spicca e trionfa. Fu mia, solo mia, la scoperta di un mezzo marino - vele come ali - per la gente che corre le onde.

Con la tecnica gli uomini avrebbero conquistato la piena disponibilità del mondo, sottraendolo alle scorribande e ai capricci degli dei2. Gli dei, ormai superflui, potevano tranquillamente essere relegati sul monte Olimpo a tessere inoffensivi intrighi. A ben guardare, l’ira di Zeus era non priva di buone ragioni.

La tecnica, ammonì Prometeo, ammetteva un solo limite: le leggi naturali, che immutabili e potenti governano i cicli della natura, il giorno e la notte, l’alternarsi delle stagioni, le nascite e le morti. Nessuna tecnica, per quanto sofisticata, avrebbe mai potuto domarle.

Duemilacinquecento anni sono passati da quando Eschilo elencò i doni di Prometeo. Nel corso dei secoli l’umanità ha esteso a dismisura il dominio della tecnica. Ogni avanzamento tecnico inevitabilmente determinava l’asservimento di un frammento di mondo, di un ciclo biologico, di una specie vivente. Col risultato che la Terra progressivamente modificava il proprio status: non più Gaia, una complessa entità vivente che l’Homo sapiens abita al pari di tanti altri3, ma risorsa al servizio della specie dominante. Un esempio può chiarire come la tecnica operi la metamorfosi del pianeta4. Agli occhi di un viaggatore disincantato le tranquille acque del Reno suggeriscono pensieri di pace e armonia. Agli occhi dello stesso viaggiatore provvisto di un impianto idroelettrico le stesse acque si disvelano come risorsa di energia elettrica. La metamorfosi è tutta dovuta alla tecnica. È la tecnica che influenza il nostro modo di osservare il mondo. Per un bimbo che ha in mano un martello tutto il mondo è un chiodo. Dategli un fucilino e il mondo si trasforma in bersaglio.

Avendo tra le mani il potere della tecnica non sorprende che l’Homo sapiens si sia convinto che i limiti naturali evocati da Prometeo in realtà non esistevano. Ogni barriera allo sviluppo della capacità tecnica è solo un fastidioso contrattempo, che prima o poi una tecnica superiore abbatterà.

In questo contesto di fiduciosa certezza nella tecnica lo shock della pandemia Covid-19 si abbatte improvviso. È la scoperta sconcertante che il mondo si è ribellato al suo destino di subalternità, che le linee di difesa tecnico-scientifiche non tengono, che l’umanità è costretta a rincorrere le giravolte del virus. Non riusciamo a capacitarci come sia possibile che un virus, l’essere vivente più piccolo e insignificante della Terra, possa mettere in ginocchio l’umanità intera, avendo a disposizione solo le tre azioni che l’evoluzione gli ha consegnato: diffonditi – riproduciti – modificati. È uno sberleffo oltraggioso all’intelligenza degli umani. Vuoi vedere che il virus è la vendetta degli dei dispettosi che millenni fa abbiamo esiliato sul monte Olimpo?

In realtà, recuperando un po’ di memoria, avremmo dovuto già da tempo accorgerci che qualcosa non funzionava nella nostra capacità di controllare il mondo che abitiamo. Troppe volte abbiamo sperimentato l’impossibilità di prevedere alluvioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, crisi finanziarie, epidemie, black-out energetici e informatici. E da alcuni decenni gli scienziati dei sistemi complessi ci avvertono che i sistemi fortemente connessi sono imprevedibili: un piccolo fatto locale può mettere in crisi tutto il sistema. E nessuna capacità di previsione, né attuale né futura, potrà mai conoscere quali conseguenze quel piccolo fatto produrrà, quali percorsi prenderà, quali danni procurerà.

Prometeo si definisce come “colui conosce in anticipo”5. In effetti tra la previsione del futuro e le tecniche vi è un rapporto strettissimo. Ogni tecnica è la promessa della soddisfazione di un desiderio. Premi un pulsante e l’ascensore ti promette che ti porterà al piano desiderato. Dai la carica e l’orologio ti promette di segnalarti il passare del tempo per tutta la giornata. Gira il volante e l’automobile disegnerà la curva desiderata. La tecnica trasforma il mondo, prima capriccioso e ribelle, in un mondo docile e prevedibile. Con la tecnica proviamo l’ebbrezza di conquistare la porzione più enigmatica del mondo: il futuro. La tecnica è una profezia che si autoavvera: promette che accadrà qualcosa e la fa accadere. Alla tecnica chiediamo di costruire un mondo artificiale, a nostra misura, separato e difeso da quella parte di natura che resiste alla domesticazione, al pari di un infedele che con ostinazione rifiuta il messaggio della vera fede.

Ma cosa fare quando il nostro mondo artificiale, innervato da miriadi di tecniche, diventa tanto complesso da risultare imprevedibile? Cosa fare quando la natura ci dimostra con i fatti che non possiamo chiamarci fuori da essa?

Per semplificare, ascoltando e leggendo quanto affermano opinionisti, scienziati, intellettuali e politici, riconosco a grandi spanne tre posizioni: i pessimisti, gli ottimisti e i problematici.

La prima posizione è quella dei pessimisti, la cui proposta è fermarsi e semplificare; se il mondo è eccessivamente connesso e integrato per le nostre capacità di controllo, allora tagliamo le connessioni e rafforziamo i confini. I pessimisti sono nostalgici. Vagheggiano un mondo di prima, in cui i contatti sociali erano strutturati in una gerarchia abbastanza semplice: molti contatti col vicinato, contatti meno frequenti con i concittadini, rari con quelli della propria nazione, episodici con gli stranieri. In quel mondo la stessa gerarchia governava lo scambio delle merci e la rete degli affetti. La gerarchia conferiva alle persone e alle comunità una chiara identità e una certa capacità di controllo sui propri destini individuali e collettivi. Ovviamente, tale posizione è sostenuta per lo più da chi vuole congelare lo stato esistente e vede con terrore la possibilità di rinunciare ai propri privilegi. Purtroppo per i pessimisti la globalizzazione ha una sua inerzia inarrestabile. Qualsiasi resistenza è destinata ad essere travolta. Non si può invertire la direzione del tempo.

La seconda posizione è quella degli ottimisti: sostengono che sia necessario perseverare sulla strada intrapresa, magari con qualche modesto correttivo, continuando a riporre fiducia nella tecno-scienza. Sono fiduciosi che le nuove scienze dell’intelligenza artificiale, della bioingegneria genetica, dei nuovi materiali, e qualche altra diavoleria tecnica ancora sconosciuta, ci caveranno dall’impiccio. È già accaduto nella storia umana. Dopo la grande epidemia di peste del 1348, che ridusse di un terzo la popolazione europea, si ebbe una rinascita rigogliosa, che ha portato a un nuovo umanesimo. Il matrimonio tra scienza e tecnica nel corso dell’Ottocento e Novecento ci ha dato l’elettricità, il telefono, i fertilizzanti e tanto altro, spingendo la popolazione umana verso una crescita vertiginosa. Insomma, per gli ottimisti l’umanità ha già vissuto grandi impasse, ma poi è sempre ripartita. Dunque, di fronte alle avversità bisogna stringere i denti e andare avanti senza scoraggiarsi, perché le crisi sono pause temporanee. Gli ottimisti, purtroppo, trascurano il fatto che le tecniche, così come le abbiamo immaginate, hanno prodotto anche i più formidabili strumenti di morte che l’umanità abbia mai conosciuto, e hanno alimentato processi economici e sociali che hanno alterato profondamente le relazioni tra l’Homo sapiens e l’ambiente del pianeta.

La terza posizione, alla quale mi iscrivo anch’io, è quella dei problematici. Essi sono convinti che la situazione che l’umanità sta vivendo sia una novità assoluta. Per la prima volta il mondo è ammagliato da reti logistiche e digitali dove tutti sono potenzialmente connessi a tutti gli altri in relazioni uno a uno. Presto tutti saranno connessi anche alle cose, e le cose saranno connesse tra loro. Tutti, uomini e cose, potranno dialogare tra loro. Tutto il mondo sarà trasformato in un immenso insieme di ‘agenti’, dotati di una certa capacità di iniziativa e di certa una capacità di azione. In questo mondo iperconnesso tutto sarà in perenne movimento: le persone, le merci, le informazioni, le idee, persino le emozioni. L’iperconnessione amplificherà la frequenza e gli effetti delle crisi locali, generando ondate di fenomeni imprevedibili e distruttivi. E, tuttavia, i problematici sono consapevoli che sarà impossibile uscire fuori dal guscio artificiale che abbiamo costruito per rincorrere l’utopia di una vita tutta immersa nei cicli della natura. Il nostro mondo futuro sarà sempre un mondo artificiale. L’unica possibilità ci rimane, per quanto difficile e ambiziosa, sarà ripensare i presupposti scientifici e tecnici che ci hanno condotto fino a questo punto, e comprendere come progettare una “nuova artificialità” che sappia far proprio la nozione del limite, quel principio che abbiamo smarrito nel corso dei secoli, e che ci viene dolorosamente ricordato di nei tristi giorni della pandemia. Insomma, dobbiamo darci da fare per dare vita a un nuovo Prometeo che finalmente ci insegni ad abitare degnamente Gaia.

Note

1 La citazione è tratta dalla tragedia “Prometeo incatenato”, attribuita ad Eschilo e redatta intorno al 460 a.C.
2 Per una riflessione ampia e puntuale sulla tecnica si veda Galimberti, U. (2002). Psiche e techne: l'uomo nell'età della tecnica. Milano. Feltrinelli Editore.
3 Per approfondire l’ipotesi della Terra come unico sistema vivente si veda: Lovelock, J. (2021). Gaia: nuove idee sull'ecologia. Milano. Bollati Boringhieri.
4 Ho ripreso l’esempio da Heidegger M. (1977), The Question concerning the Technology. New York (NY). Harper & Row,).
5 Si veda Galimberti (2002), op. cit., pag. 66.