Un’emozione intensa, una visione materica e al tempo stesso onirica che spalanca un paesaggio impastato di luce e di solitudine, una solitudine preziosa e potente che si staglia in un incontro di mondi che mischiano orizzonti di Terra e di Cielo.

È questa la prima, mistica sensazione che mi ha catturato l’anima non appena ho incontrato l’opera di Terry May intitolata The elephant che ho voluto tradurre come “L’elefantessa” dato che quella degli elefanti è una società fortemente matriarcale che custodisce e conserva i tratti ancestrali della sacralità e del potere femminile.

Un cielo blu, di un blu antico, originario, forse strappato alla materia celeste durante un viaggio astrale nei luoghi del mistero che l’Artista frequenta.
Una terra spalmata d’oro, un amalgama prezioso come il fondale di una sacra icona, ma potrebbe anche essere un cielo pesante d’oro poggiato su di un oceano di liquida materia, immobile, senza increspature.

È l’immagine di una condizione del vivere nella quale si fa esperienza dell’essere soli nella vastità del Tutto.

Un’unica, solitaria creatura popola questo magma nel quale luce e oscurità si accolgono reciprocamente, senza giudizio.
È il corpo di questa atavica creatura che unisce, o divide l’Universo, come a dire che ciascuno stabilisce il confine oltre il quale si può spaziare nell’Infinito o restare aggrappati al suolo dell’abitudine.

È l’elefantessa che segna la differenza fra Terra e Cielo, tra basso e alto, che può capovolgere il limite.
Se ne sta immobile, poggiata su una terra di mezzo, forse una zattera, o forse un’arca, in una solitudine assoluta, statuaria, irraggiungibile, scolpita nel Nulla.
Sembra rendere visibile la nostra condizione di individui sospesi, fermi, attoniti, ancora incapaci di scegliere in quale parte del Cosmo trovare rifugio, cercare stabilità, accogliere la vita con la pazienza dei secoli.

È lì, viva, forte e delicata ad un tempo, simbolo e mito di un Femminile Ancestrale che oltrepassa secoli e millenni.
Testimonianza dell’animale totemico del quale percepisco lo spirito. Ne immagino la memoria che ha attraversato sconfinate distese di terre assolate per rispondere alla voce di Madre Natura.

Ne condivido lo sguardo che intuisce oltre gli orizzonti del tempo, che conosce il silenzio e il grido.
Ne sento la dolcezza con la quale accompagna i suoi nati all’acqua della vita.
Ne percepisco la fierezza e la nobile capacità di accogliere e accettare, di comprendere e attendere, di reggere il peso dell’esistenza.

Ne sento la sofferenza in tempi nei quali queste madri antiche e pazienti vengono uccise con una violenza che solo l’Uomo nella sua follia è in grado di sperimentare.

Nell’opera creata da Terry May non c’è traccia di crudeltà.
Ciò che lo sguardo e il cuore percepiscono è un’apollinea misura, una emozionata bellezza, una quiete lontana, una calma senza tempo, senza vento, una lontananza dalla sofferenza, dal dolore, in una immensità che concepisce e accoglie l’esistenza di quel granello di Bene che ci tiene aggrappati alla vita.

Anche noi, come la solitaria elefantessa, possiamo scegliere se volgerci alla Terra o al Cielo, se fermarci e rimanere osservatori o decidere verso quale luogo fare rotta: sta a noi trovare l’equilibrio che è unico e diverso per ciascuno.

Come quello del colibrì nella fiaba africana1, il mio contributo è una piccola goccia di sguardo, quasi senza parole, per condividere il desiderio e la consapevolezza di saperci parte del grande Flusso.

A cura di Save the Words®.

1 Un’antica favola africana racconta del giorno in cui scoppiò un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e scapparono spaventati. Mentre fuggiva veloce come un lampo, il leone vide un colibrì che stava volando nella direzione opposta. “Dove credi di andare? - chiese il re della foresta - C’è un incendio, dobbiamo scappare!”. Il colibrì rispose: “Vado al lago, per raccogliere acqua nel becco da buttare sull’incendio”. Il leone sbottò: “Sei impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio gigantesco con quattro gocce d’acqua?”. Al che il colibrì concluse: “Io faccio la mia parte”. (In Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva, Einaudi, Torino, 2018).