Estate. Per qualcuno questo periodo è sinonimo di mare, per qualcuno di montagna, per qualcuno di città. Alcune persone vanno in ferie, altre lavorano come sempre, altre ancora sgobbano più che mai, soprattutto se i turisti rappresentano la loro missione. Per altri, invece, il lavoro ha le sembianze di un miraggio dai contorni sbiaditi, è una chimera, un sogno non ancora realizzato.

Dopo un anno e mezzo di pandemia, le disuguaglianze sociali ed economiche sono aumentate e per tante famiglie la parola ferie è diventata diafana, senza il significato di un tempo, un muro scrostato da graffiare fino a farsi male.

Tra vacanze e pienanze

Alessandro D’Avenia è uno scrittore e insieme un docente che sa parlare ai cuori dei suoi studenti, delle sue studentesse e dei loro genitori. Nella sua rubrica Ultimo banco, pubblicata ogni lunedì dal Corriere della Sera, di recente (7 giugno 2021) ha contrapposto all’idea di vacanze quella di “pienanze”, neologismo, parola inventata che racchiude il concetto di pienezza di senso: tanti vorrei inanellati in sequenza che si mescolano a desideri, azioni, impegno e gioia. Ecco, la “pienanza” è gravida di oggetti ed emozioni, mentre la vacanza è etimologicamente priva di questi. La vacanza è vuota, caratterizzata da vacuità, dall’aggettivo latino vacŭus ‘vuoto’, ‘libero’, derivato del verbo vacāre ‘essere vuoto’. Della stessa famiglia di vacanza è anche la parola vanità. Il vuoto e il vano sono parenti stretti. Sta a noi rendere fertili i tempi in cui sospendiamo temporaneamente le attività di routine per rigenerarci e ricaricare le batterie della nostra esistenza. Sta sempre a noi togliere dalle vacanze la vanità delle vanità, in ogni attimo del nostro riposo, che è atomo e quindi indivisibile, in ogni istante, ‘che sta’, in ogni momento che può diventare movimento se davvero lo vogliamo.

Un campo che ha riposato dà un raccolto più abbondante

In estate, nelle vite di molte persone, si propagano rintocchi di riposo che tintinnano dolci per alleviare le fatiche. Riposare significa prendere noi stessi tra le braccia e avvolgerci del nostro stesso calore umano, per adagiarci piano sulle superfici soffici della tranquillità.

Riposare è, infatti, in primo luogo ri-posare, un posare carico di intensità, un lasciarsi deporre, un affidarsi alla calma, un appoggiarsi a un’assenza lieta.

Nel riposo, posiamo l’ansia, facciamo cessare la frenesia dei passi, mettiamo fine all’impazienza della produttività. Almeno per un po’: sarà proprio il riposo a consentirci di riprendere con maggior carica e con rinnovata energia. “Un campo che ha riposato dà un raccolto più abbondante”, chiosava Ovidio, il poeta di Sulmona che ha raccontato gli amori e le trasformazioni di tutti gli esseri umani. In quel posare noi stessi sulla rena della sosta, ecco, rinveniamo l’eco della pausa, che del riposo e del posare è stretta parente come l’etimologia rivela senza eccessive difficoltà.

La scrittrice olandese Etty Hillesum, ebrea uccisa ad Auschwitz, aveva scritto: “A volte la cosa più importante in un giorno intero è la pausa che prendiamo tra due respiri profondi”. Ecco l’importanza del respiro profondo emerge con potenza, travolgendo le nostre pause e i nostri riposi.

Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni pensiero

Sinonimo di riposo è relax. Questa parola è un prestito dall’inglese ma nelle isole britanniche non è nata dal nulla. Del resto nessuna parola nasce mai dal nulla, si sviluppa sempre da qualcosa. “Tutto si trasforma, nulla perisce”, ammoniva Publio Ovidio Nasone nelle Metamorfosi.

A sua volta l’inglese relax deriva dal francese antico che ha modificato un verbo latino, relaxāre, che voleva dire ‘confortare’, ‘ristorare’, ‘dare sollievo’. Quel verbo usato nella Roma antica ha dato origine a due esiti in italiano: la versione più colta rilassare e quella più popolare rilasciare. Laxāre significava ‘allentare’, ‘slacciare’. Come la cima sulla barca, che viene lascata per dare modo al vento di gonfiare meglio le vele.

Chi lavora nell’informatica, ed è quindi aduso ai rilasci di software, può annodare tra loro le parole con significati diversi e lasciar scarrocciare la navicella del proprio ingegno alla ricerca di un senso personale alle connessioni tra i lemmi. Ogni rilascio possa essere occasione di relax, di rilassamento. Chissà.

Restando in contesto di parlanti inglesi, l’aggettivo lush, che vuol dire ‘rigoglioso’, ‘verde’, ‘lussureggiante’, ha la medesima origine.

“Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto”, leggiamo nell’incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. L’autore italiano, uno dei giganti del Novecento, ci invitava a prendere in mano un libro e a trovare in quelle pagine la pozione magica per rilassarci. In estate, come in ogni stagione, leggere è spesso ragione di conforto, di ristoro e di sollievo.

Divieto di sosta, permesso di sosta

L’estate qualche volta consente una sosta, un momento in cui ci fermiamo in un luogo umbratile o soleggiato. A volte quel luogo siamo noi stessi, con le nostre zone di luce e le nostre zone d’ombra che si alternano sempre nelle esistenze degli esseri umani. Sostare vuol dire arrestarci per un po’, stare fermi, resistere. Il latino stāre significava ‘stare in piedi’, ‘stare saldi’, ‘trovarsi’. Con la particella sub-, ‘sotto’, la comunità dei parlanti ha generato nei secoli d’uso substāre e quindi sostare. Con la particella sotto-, si è formata la parola sottostare. Sostare e sottostare, parole così simili nei meccanismi di costruzione che le hanno prodotte ma così diverse nel significato.

Nel sottostare una persona ubbidisce, soggiace agli ordini altrui, è assoggettata al volere di altre persone. Nel sostare una persona si prende tempo per sé, ubbidisce a sé stessa, soggiace al proprio desiderio di riposo, è assoggettata solo alla propria mente e al proprio corpo.

Al ristorante per un po’ di restauro

D’estate apprezziamo il ristoro, che è conforto, ricreazione e benessere. Possiamo ristorare il nostro corpo e la nostra mente, rimettendoci in forze dopo un periodo di sforzo e di fatica. Il punto di ristoro è collocato al termine di una tappa di attività: non esiste l’una senza l’altro e viceversa. Abbiamo bisogno di consumare energie per apprezzare a pieno il beneficio del ristorarci.

Un modo per ristorarci è andare al ristorante. Sì, il ristorante, sia questo trattoria o locale stellato, è il luogo del ristoro, participio presente di ristorare.

Il ristorare è l’esito popolare del latino restaurāre, che ha dato origine sia al ristoro sia alla restaurazione sia al restauro. Nell’andare al ristorante proviamo la soddisfazione del restaurare un po’ noi stessi: una piccola ristrutturazione, lavori di aggiustamento dell’io, transitorie attività di ripristino.

Restaurare e instaurare sono parole sorelle. Entrambe le possiamo confrontare con una parola del greco antico: staurós, ‘palo’. Il verbo stauróo voleva dire ‘elevo una palizzata’, ‘pianto dei pali’, per segnare un confine, per delimitare un dentro e un fuori, per imprimere una fenditura nella vasta estensione della terra. In inglese to steer significa governare ed è evidente la connessione con l’atto di piantare i pali, di demarcare e definire i limiti.

Anche al ristorante, in un qualche modo, tentiamo di porre dei limiti alla frenesia, al lavoro, alla routine. Arrestiamo lì i passi ritmati della giornata. Piantiamo dei pali e lasciamo al ristoratore il compito di imbandire la nostra tavola.

Ritemprare i corpi, la mente, lo spirito

Con la stagione delle vacanze, ritempriamo i corpi, perché anche le membra hanno bisogno di recuperare vigore; ritempriamo la mente, perché per consentire il pieno abbiamo necessità di vuoto; ritempriamo lo spirito, perché gli esseri umani hanno l’elevazione nel loro destino. Ritempriamo, cioè rinsaldiamo, irrobustiamo, tempriamo di nuovo. Temprare vuol dire rendere più forte, più vigoroso. L’origine della parola è latina: temperāre è il verbo antico da cui ha preso forma il nostro verbo più recente, cioè ‘mescolare nella giusta proporzione’.

Quando temperiamo, compiamo la stessa operazione del mischiare l’acqua con il vino, stabiliamo quindi una misura, diventiamo moderati, facciamo nostro il monito antico scolpito per noi sul tempio dedicato al dio Apollo a Delfi: “Nulla di troppo”. “Temprando col dolce l’acerbo”, scrive Dante del suo pensiero (Paradiso, XVIII, 3), dopo aver incontrato il suo antenato Cacciaguida nel cielo di Marte. E con il suo gerundio prende per mano te e me, facendo a entrambi un invito accorato, di mitigare il dolore asperrimo con le gocce più dolci che il destino ci regala ma anche di mescidare la gioia con la consapevolezza delle alterne fortune della vita. Ritemprare la mente serve anche a questo, del resto: a riportare in equilibrio, a considerare questo e quello, a percepire che questo esiste perché c’è quello e viceversa.

La tempera è un colore che si ottiene da una mescolanza proporzionata di polvere e acqua. Temperare a sua volta è connesso al tempo, in quanto ‘regolazione del tempo’, ‘scansione del tempo’. Il cerchio quindi si chiude. Il tempo del riposo ci tempera, cioè ci regola, riporta noi stessi in una nuova condizione di equilibrio.

Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico dell’antica Roma, scriveva: “Chi vive nella quiete sia più operoso, chi vive nell'operosità deve trovare il tempo di riposare. Segui la natura: lei ti ricorderà che ha fatto il giorno e la notte”.

Ecco, il giorno e la notte, il dolce e l’acerbo, l’equilibrio: nell’essere temperanti troviamo il nostro ritrovarci temprati.

Sospendiamo e restiamo pendenti

Il periodo delle vacanze è anche quello in cui ci prendiamo del tempo per dormire. I pisolini sono i contenuti dei pomeriggi, le pennichelle caratterizzano i dopo pranzo. Sia negli uni che nelle altre cova l’immagine di teste che non riescono a restare dritte e si accasciano sulle spalle. Il verbo pisolare deriva da un aggettivo dell’italiano antico, pesolo, ‘pendente’, nel senso di ‘pendere, cascare dal sonno’.

Con simile origine anche la pennichella, diminutivo di pennica, derivato dal latino volgare pendicāre ‘reclinare il capo’, diminutivo di pendēre, ‘essere appeso, sospeso’.

Al fisico Albert Einstein è stata attribuita questa frase:

L’uomo ozioso non sa godersi il riposo.

L’estate è in definitiva anche questo: rendiamo pendente il piano della nostra vita in modo da farci scorrere sopra ciò che può andare oltre noi. Non diventiamo oziosi, tutt’altro: tratteniamo solo quello che serve davvero.