Il Settecento, il secolo cosmopolita per eccellenza, accese in molti animi il desiderio del viaggio di conoscenza e di formazione con uno scopo per lo più educativo; chi intraprendeva questo percorso conosciuto come Grand Tour, desiderava esplorare e comprendere lo spirito di un Paese straniero, conoscerne le leggi, i governi, il popolo. A percorrere in lungo e in largo il nostro Paese furono uomini diversi: facoltosi borghesi, collezionisti raffinati e colti amanti delle belle arti. I rampolli di ogni buona famiglia aristocratica europea, per poter esporre il proprio bagaglio culturale, doveva affrontare il Grand Tour alla riscoperta delle vestigia del mondo classico. Nel XVIII secolo l’Italia divenne meta obbligata nella formazione dei giovani aristocratici, soprattutto provenienti dal Nord Europa. I visitatori, attratti dalle memorie del passato del “Bel Paese”, si recavano a visitare chiese e palazzi. Massima loro aspirazione era possedere opere d’arte o copie da riportare nelle loro terre e mostrare, una volta ritornati tra le brume nordiche. Le scoperte archeologiche alimentavano una vera e propria febbre collezionistica.

Roma rappresentò una meta irrinunciabile in questi viaggi, ma ben presto, con la scoperta di Ercolano (1738) e di Pompei (1748), fu Napoli a determinare il limite meridionale al di là del quale era difficile andare. Tale frontiera fu superata nel momento in cui si riscoprì Paestum. Questa città acquistò il duplice ruolo di proiezione del viaggio a Napoli e prima tappa di quello fino ad allora verso luoghi inaccessibili: il Cilento, la Lucania, la Calabria. Il Meridione, con i suoi paesaggi mediterranei, divenne da questo momento l’interesse principale del Grand Tour.

Diversi sono stati i motivi che hanno tenuto a distanza i viaggiatori da questi posti: la mancanza di strade percorribili, il pericolo della malaria e del brigantaggio, la carenza di carte geografiche, le poche notizie sui luoghi. Il motivo che impedì per lungo tempo di godere delle bellezze mediterranee fu non di natura logistica ma soprattutto di carattere ideologico. È vero che i viaggiatori erano alla ricerca dei luoghi classici della letteratura, ma la classicità da essi cercata quale era? In principio essi guardavano alla latinità poi, con la riscoperta di Paestum e della Magna Grecia, l’orizzonte si allargò; si passò dalla rappresentazione del pittoresco a quella del sublime.

Era l’elemento paesaggistico a calamitare l’attenzione di chi visitava questi siti. L’interesse per i “ruderi” unito ad una nuova “specializzazione” del vedutismo divennero i maggiori ispiratori della raffigurazione. La passione per i viaggi di scoperta paesaggistica, laddove per paesaggio si intendeva quell’alchimia tra natura e artificio umano, crebbe e con essa si formò una nuova figura, quella del pittore-viaggiatore che accompagnava il letterato o l’antiquario che avevano bisogno della sua arte per raffigurare con schizzi ciò che nei loro viaggi d’interesse incontrano.

Gli scritti di questi viaggiatori sono di grande aiuto per costruire un reticolo che leghi i diversi paesaggi di Salerno e della sua provincia e per comprenderne i contenuti più profondi, filtrati dalle componenti culturali di ciascun viaggiatore. Le immagini e le parole spesso hanno occupato analoghi spazi per esprimere la medesima realtà. Rappresentazione e comunicazione, infatti, come insegna Gombrich1 non sono dati fermi e fissati una volta per tutte, ma mutano nel tempo, secondo gli sviluppi di una “storia” da rintracciare e descrivere. “Comunicare per immagini. Immagini per comunicare.”2 Sono, in sintesi, le direttrici da analizzare. Chiarire che cosa si intende con il termine paesaggio è già impresa ardua. Se poi ci si riferisce, in particolare, al paesaggio mediterraneo, che certamente rappresenta una ulteriore apertura, il compito è ancora più difficile. Il paesaggio non è un principio o un concetto che si possa definire, non è un puro elemento di natura e non è neppure una produzione artificiale, è piuttosto un ambito di sedimentazioni spontanee che richiede un paziente lavoro di analisi, una lettura capace di consegnare il patrimonio del passato alle generazioni future. Appare evidente che è più corretto parlare di paesaggi al plurale3, in quanto documenti della vita e della creatività dell’uomo, perché ciascun luogo presenta, caratteristiche specifiche, spesso frutto di una pluralità di interventi che vanno decodificati e ciò avviene in maniera esemplare nella provincia di Salerno.

Ogni paesaggio, più di qualunque altro “luogo”, comunica il sapere specifico di un popolo, esso è orizzonte della contemplazione, ma anche prodotto del fare e dell’agire degli uomini4. Oggetto privilegiato della pittura, il paesaggio mediterraneo ha offerto la possibilità di una duplice lettura: per lungo tempo è stato rappresentazione di forme costanti che lo hanno iscritto nella memoria degli individui e solo lentamente e faticosamente ha consentito una visione più o meno fedele dei luoghi. Esso rappresentò per i viaggiatori del Grand Tour una delle “scoperte” più sorprendenti, che molti di loro, nell’attraversare la nostra penisola alla ricerca degli scenari delle antiche elegie, incontrano nella sua prepotente bellezza. Per lungo tempo questi scenari, diffusi dalla lettura di Virgilio e Orazio, fedeli compagni del viaggio in Italia, sono stati solo luoghi comuni e non una realtà, un referente, più o meno esplicito, ripreso da una letteratura e da una iconografia che vede nel paesaggio mediterraneo solo un immaginario filtrato dall’eredità greco-latina e non un’esistenza concreta.

Note

1 E. Gombrich, L’immagine e l’occhio, Einaudi, Torino 1985.
2 A. Appiano, “Comunicare per immagini. Immagini per comunicare.” Manuale della comunicazione. (a cura di S. Genzini), Carocci, Roma 1999, pp. 259-286.
3 Il paesaggio in senso astratto non esiste, come ha dimostrato G. Simmel, “Filosofia del paesaggio” (1912-1913), Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, il Mulino, Bologna 1985.
4 R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, (1973), Novecento, Palermo 1992.