Hilde fa parte di quel circolo di poetesse che sempre torno a leggere quando ne ho più bisogno, rileggo le frasi che più mi colpirono nella prima lettura, ne sottolineo altre e scopro altre sfumature. È una continua scoperta, un continuo ritorno, che di base è un non essere mai andati via. Le chiamo “le poetesse del mio cuore” e torno alla loro poesia, immensamente necessaria in qualsiasi momento passato, presente e futuro: amicizie atemporali di poesia. Dice Hilde:
Poesia e amore non hanno in comune soltanto la particolarità del loro tempo fuori dal tempo: entrambi sono senza finalità. Non servono a nessun ‘allo scopo di’, ma esistono per amore di se stessi come tutto ciò che conta veramente.
(Hilde Domin, Frankfurter Poetik- Vorlesungen, traduzione di Silvia Alfonsi)
Tempo fuori dal tempo, e a volte mi chiedo il perché parliamo coniugando i verbi al passato e al futuro. E se invece parlassimo solamente in presente, cambierebbe la nostra percezione della realtà?
Cambiare la parola
lo sguardo
creare la realtà
il sogno della realtà
l'incubo della realtà
la realtà
il suo nocciolo.(Hilde Domin, Il coltello che ricorda, Del Vecchio Editore, 2016, trad. Paola Del Zoppo)
Mi colpisce sempre un discorso su Ted, How language shapes the way we think di Lera Boroditsky: la lingua e quindi le parole hanno un potere infinito.
La lingua è un tema fondamentale per Hilde. È l’imperdibile, così la chiama lei: dopo che tutto è andato perso, la lingua è quella cosa che non può venire a mancare mai. Hilde vive in vari luoghi, scappa, torna, viaggia in contesti linguistici diversi, però la sua lingua rimane il tedesco, la lingua materna, la lingua dell’identità e dell’infanzia. Nella distanza, Hilde si ritrova e torna a casa che è una non casa, una stanza nell’aria, dove la parola vive. È emozionante questo ritorno, la sensazione di arrivo, di appartenenza, in questo caso ad una lingua, che nell’esilio è contraria, è una sensazione di non appartenenza, di non a appartenere a nessun luogo, una sensazione inquietante, la fuga continua e poi la sfida linguistica costante. Si può parlare di un esilio interno ed esterno. A tutto questo, la poesia rimane l’unica salvezza, la scrittura come un respiro, un atto di sopravvivenza:
Per me la lingua è l’imperdibile, dopo che ogni altra cosa era risultata perdibile. L’ultima dimora non sottraibile.
(Hilde Domin, Aber die Hoffnung, traduzione di Silvia Alfonsi)
La poesia doveva trasformare la realtà invivibile. Che si trasformava. Dunque, io scrivo perché scrivo, da quando ho cominciato a scrivere. Ogni altra motivazione è posteriore. È la lingua.
(Hilde Domin, Frankfurter Poetik- Vorlesungen, traduzione di Silvia Alfonsi)
E ricordo, vivendo all’estero, tutte quelle sfide linguistiche, come mi abbiano aiutato a creare il linguaggio che uso ad oggi, una lingua che è a volte ibrida, una lingua-limbo come la chiamo. Nel momento però dell’atto creativo, della scrittura, l’unica lingua con cui mi identifico è l’italiano, la lingua dell’infanzia, la lingua con cui da bambina ho scoperto la parola e i suoni.
Mi arredo una stanza nell’aria tra gli acrobati e gli uccelli il mio letto sul trapezio del sentimento come un nido nel vento sulla punta più alta del ramo.
Mi compro una coperta della lana più fine delle pecore mansuete che al chiaro di luna come nuvole luccicanti passano sulla terra solida.
Chiudo gli occhi e mi avvolgo nel vello dei fidati animali Voglio sentire la sabbia sotto i piccoli zoccoli e sentire lo scatto della serratura che chiude la porta della stalla la sera.
Ma io giaccio in piume di uccelli, cullata lassù nel vuoto. Ho le vertigini. Non mi addormento. La mia mano cerca un appiglio e trova solo una rosa a sostegno.1
La rosa, la lingua. La rosa tedesca.
Hildegard Löwenstein è il suo vero nome. Il nome dalla prima nascita. Ma una seconda nascita si prepara in una Hildegard lettrice di tedesco all’università di Santo Domingo: si ribattezza Hilde Domin in onore di quell’unica isola, la Repubblica Dominicana, che nell’esilio l’accolse, fu protezione ed amore. Esiliata e orfana, dopo la morte della madre, trova una casa al confine del mondo, ma anche e soprattutto nella parola stessa. Un’amica in un club di poesia plasma così un’idea bellissima: Hilde decide di maternizzare le parole.
L’amore per la lingua si ritrova nella poesia: si inizia ad addentrarsi nella lingua straniera leggendo, ci si adegua a forme di scrittura diverse e questo è bellissimo nonché necessario, una necessità profonda, gutturale. Una necessità di coesistere con l’altro, di incontrare l’altro nella parola, di cooperare per creare un legame, perché senza l’altro non c’è ritorno, solo un continuo andare, un andare senza confronto e comunicazione. Un andare senza parola. E penso a quest’idea di incontrarsi incontrando l’altro, non è che la stessa idea dell’amore: la lessi in un libro di bell hooks che riporto in lingua originale:
…the will to extend one’s self for the purpose of nurturing one’s own or another spiritual growth.2
La poesia è amore. E questo mi dà speranza.
Hilde torna in Germania, il suo paese natale, dove la sua poesia diviene impegno civile, è testimonianza di esperienza, testimonianza di esilio, riflessione di un’epoca buia come la Seconda guerra mondiale e gli atti osceni della Shoah. È un messaggio di fratellanza e sincerità quello di Hilde, un messaggio per unire non dividere, persistere non abbandonare, ricordare e non dimenticare.
E penso a tutte quelle volte che abbiamo abbandonato l’altro, dimenticato, lasciato in disparte, per egoismo e mancanza di empatia. Pratichiamo l’empatia, ne abbiamo tutti bisogno, soprattutto con le parole e soprattutto in questo periodo.
Quello che sorprende di più della poesia di Hilde è la sua semplicità. Una scrittura semplice, però, che cela significati intimi, profondi, esperienze vissute, è come aprire una matrioska, fino ad arrivare all’essenza. È un viaggio che nasconde una bellezza autentica, un viaggio che è un continuo ritorno.
Ringrazio Silvia Alfonsi per le traduzioni all’italiano dei frammenti di testo. Ho scoperto altri pensieri di Hilde a cui non avrei avuto accesso, visto che il mio tedesco è nullo. Senza il suo contributo, l’articolo non sarebbe lo stesso. Ringrazio anche un’amica, Claudia González Caparrós, che mi ha introdotto al mondo di Hilde, grazie di cuore a entrambe.
1 Hilde Domin, Con l’avallo delle nuvole, poesia Solo una rosa a sostegno, ed. orig. 1987, traduzione di Ondina Granato, a cura di Paola del Zoppo e Ondina Granato, Del Vecchio Editore, Roma 2011.
2 bell hooks, Harper & Row USA, 2001, pp. 4. Citazione che bell hooks prende da The Road Less Traveled di Scott Peck, 1978.