Russell, nei suoi Principia Mathematica, scriveva che l’idea del nulla è «un concetto denotante che non denota nulla», cioè, un significante cui non risponde alcun significato reale né, a nostro avviso, ideale, poiché non siamo neanche in grado di pensare il nulla assoluto. E allora perché molti filosofi si arrovellano rovinosamente il cervello per tentare di dare un sostrato reale a ciò che è pura negazione del reale? Ne abbiamo parlato con Giacomo Maria Prati, autore del libro Il Nulla dopo il Nulla. Sfumature di un enigma paradossale (Arca Edizioni, 2025).

Coerentemente con la constatazione logica di Russell, tu parli di «tredici amici del Nulla quali espressioni di una segnaletica di prossimità, almeno virtuale», che molti usano per dare un sostrato al Nulla e poterlo pensare, meditare, contemplare. Poi li citi uno per uno: il vuoto, lo zero, l’assenza, il silenzio, il deserto, la notte (il nero), la luce (il bianco), l’oblio o il non pensare, utopia (ucronia), abisso, inferi, il punto, l’universo. «Ma questi amici – come giustamente ti domandi - aiutano a comprendere il Nulla o facilitano piuttosto l’andare fuori tema, il sviarlo, l’addomesticarlo, l’allegorizzarlo?». Se il Nulla assoluto è inconcepibile - non possiamo pensarlo perché se fosse davvero assoluto non potremmo neanche pensare per il fatto che non saremmo – l’unico modo per parlarne è “addomesticarlo”, adattarlo alle nostre concezioni incentrate sull’essere, renderlo reale, ipostatizzarlo. Ma è possibile trattare il nulla, cioè, il non essere, alla stessa stregua dell’essere? Come è possibile ridurre il non essere ad una sottocategoria dell’essere in grado, inoltre, di contrastare quest’ultimo?

Ho affrontato questo tema proprio per la sua alta carica di paradossalità. Siamo come di fronte ad un cortocircuito logico, una sorta di sfida intellettuale provocante e stimolante. Come tu dici benissimo, la mia difesa paradossale della "purezza del Nulla" contrasta proprio i numerosi casi di entificazione di questo concetto o di uso metaforico dello stesso. Da una parte cerco di sottolineare i "carismi" del Nulla, tutti negativi e respingenti, dall'altra mostro come la maggior parte dei "pensatori sul Nulla" o lo usano appunto in senso strumentale o, recentemente, fanno del "nichilismo" una sorta di retorica esistenziale, che in realtà non centra alcunché con il nostro estremo concetto.

Nel tuo libro, scrivi: «Se il Nulla appare idea-limite-estremo e in quanto tale si rivela non declinabile, non storicizzabile né articolabile (ma il linguaggio è articolazione) allora tutti i fugaci avvicinamenti al suo concetto avvistabili nei secoli tra teologia, filosofia e arti assumono la consistenza apparente di fughe, passioni clandestine, trasgressioni, tentativi, sfide virtuosistiche, paradossi, giochi». Perché questi fugaci avvicinamenti, queste passioni clandestine per “qualcosa” che in fin dei conti è non-essere? Che cosa spinge molti ad arrovellarsi il cervello sul Nulla? Perché il Nulla è così importante, quasi essenziale per molti filosofi?

La tua domanda è pertinente e azzeccata e neppure il mio saggio dà una risposta in questo. Azzardo ora: forse è proprio una certa mentalità umana che ragiona in senso rigidamente dualista, quasi manichea, che nell'antichità è stata spinta a pensare questo "quid" come fosse l'altro lato dell'Essere, quasi un "anti-essere". Può sembrare paradossale ma come sai in tutti i più antichi pensatori greci ragionavano in senso di opposizioni dialettiche; non solo Eraclito ma anche Empedocle e Parmenide, ad esempio.

È possibile pensare che dietro questa tendenza a ipostatizzare il Nulla si nasconda il perverso disegno di nullificare l’Essere per eccellenza per far spazio all’Io che si fa Dio? Tentare, cioè, di liberarsi dell’Essere assoluto e sussistente (“Ego sum qui sum”), un Essere troppo ingombrante, per deificare il proprio Ego?

Ho accennato nel mio saggio a questa possibilità, che emerge specialmente nel moderno e recente esistenzialismo; già da Stirner in poi. Il Nulla quale escamotage dell'Io e dell'Ego per fare deserto attorno a sé stessi e pensare di auto-porsi quale sovranità totale. È possibile che quale istanza psichica profonda fosse presente questo approccio, magari inconsapevole, anche in pensatori più antichi.

Definire il nulla come qualcosa, vuol dire optare per la coincidentia oppositorum, un criterio che cozza contro il principio di non contraddizione, su cui poggia tutta la filosofia e, soprattutto, il metodo scientifico. La coincidenza degli opposti, oltre che ontologizzare il Nulla, porta inesorabilmente alla distruzione della conoscenza razionale, lasciando spazio solo all’intuizione divina, una forma di conoscenza iniziatica, esclusiva, per pochi illuminati. Qui non c’è più spazio per la verità intesa in senso oggettivo, ma solo per una “verità” soggettiva, che si impone sui più con la forza. Credi possa esserci qualche relazione tra tale forma di pensiero e i regimi totalitari?

Può essere. Diciamo che il Nulla appare speculativamente all'interno della teologia cattolica medioevale e vi appare in forma sottile, subdola, seducente. Appare come un pensiero implicitamente ma intimamente connesso con la mentalità più profonda dello gnosticismo sia nella sua versione manichea che nelle sue forme più mistiche, che anticipano la teologia negativa occidentale. Dopo Hegel e dopo Nietzsche possiamo dire che il Nulla assume un ruolo culturale più ampio (anche se spesso citato a sproposito) come a tentare di sostituire il ruolo di un Dio ideologicamente rimosso dalle élite intellettuali. Hegel ha la grossa colpa di confondere l'idea del Nulla con il valore dialettico della negazione. Errore in cui cade anche Emanuele Severino che crea tutta una sua retorica e una sua sofistica su tale ambiguità e confusione. Teorie che è facile de-mitizzare e smontare proprio rinviando al concetto di Nulla in tutta la sua paradossalità e radicalità. Certamente il Nulla possiede una radicalità totalizzante propria delle dottrine ideologiche per come si sono imposte nella storia degli ultimi due secoli.