Marco ha 16 anni, è un ragazzino che si rivela problematico, fatica a tollerare le frustrazioni fin da bambino, si arrabbia furiosamente ed è piuttosto introverso. Da lì la richiesta di aiuto in un percorso psicoterapeutico.

Nel raccontare la storia di Marco la madre sottolinea con foga come sia nato velocemente e urlando, dove l’urlare sembra già caratterizzare il bambino perché è un urlo che viene percepito da lei come eccessivo, come rimbombante e stupefacente e che pare essere prodromo del suo caratteraccio con la carica esplosiva che connota le sue reazioni emotive, di qualsiasi colore siano. E di emozioni è sovraccarico perché è come se fosse anche permeabile alle emozioni che lo circondano, pare avere un’antenna speciale che riceve anche i più leggeri e distanti segnali emotivi amplificandoli e facendoli riverberare su di sé.

Marco si procura dei tagli sui fianchi, forse per tagliare via l’imperfezione, o per uscire dall’ovattamento e sentirsi vivo o per rivivere la fenditura originaria.

Racconta anche di episodi dissociativi che gli impediscono un contatto diretto con la realtà, come se fosse isostenibile, troppo pesante, quasi ustionante per lui.

Si descrive piuttosto strano e differente dai coetanei, strano perché oscilla da uno stato emotivo all’altro, passa facilmente dalla euforia alla depressione, sottolinea inoltre come passione costante quella per il canto, passione tormentata perché aspirerebbe alla perfezione della sua prestazione. Vorrebbe raggiungere una certa sonorità e modulazione dei registri vocali come se avesse dei parametri interni molto definiti, ma anche difficili da riprodurre, come se ci fosse in lui uno spartito musicale originario che esige di essere riprodotto, ma che è di difficile contattazione, forse perché è troppo in là nel tempo e troppo dentro come profondità esperienziale per essere raggiunto e catturato.

Questa ricerca ostinata e quasi dolorosa della perfezione nella esecuzione sonora inconsciamente forse potrebbe voler dire pretendere di riprodurre quell’urlo iniziale con cui si è presentato alla vita. Urlo di vittoria per un “ci sono”, “esisto”, “ce l’ho fatta”, “sono nato” o di disperazione per l’impatto doloroso e frustrante con la realtà, o di terrore per essere incorso nelle angosce agoniche che flagellano tutti i neonati, quali la paura di cadere nel vuoto per sempre e di andare in mille pezzi, oppure la manifestazione esplosiva di cariche istintuali troppo forti da poter regolare.

Urlare, dunque, come emissione di respiro pesante, forte, bisognoso di un movimento veloce per attraversare il reale, ma anche come bisogno di presentarsi, di farsi sentire, di mostrare il suo esserci e anche forse combattere con grinta le angosce di morte connesse al movimento della nascita, al cambiamento catastrofico di cui voleva avere il controllo.

Marco descrive in maniera dettagliata il percorso della voce-respiro prima che diventi suono: si propaga dalla bocca, gola, diaframma e a volte il suono dalla sua bocca esce in maniera scorretta, si diffonde, si disperde quasi, invece che andare in una definita direzione ed è questione di come modula il movimento della bocca che apre verso il basso, (emoticon triste?) invece che verso l’alto (emoticon allegro?).

In seguito, parlando della sua passione per la musica, esprimerà dispiacere e rabbia perché una manifestazione personale così intima e ineffabile come il canto venga sporcata dalla commercializzazione e dal profitto, equiparabile ad una vendita di affetti.

La voce, dunque, come una primitiva, importante, insostituibile modalità comunicativa, espressione di sé e dell’altro, onda sonora di relazione e di passione.

Dall’urlo al canto sembra essere la narrazione sonora di Marco e forse la sua possibilità di riparazione.

E quale la narrazione nell’Urlo di Munch?

È un percorso molto doloroso quello che lo ha condotto alla realizzazione del famosissimo quadro.

È la rappresentazione in immagine, proprio come avviene nei sogni, di un dolore di difficile elaborazione, di una serie di lutti non metabolizzati. La morte del padre, della madre e di una sorellina era rimasta come pietrificata dentro Munch senza possibilità di riconoscerla, di soffrirla, di piangerla.

Si era verificata in lui l’impossibilità a separarsi davvero da queste tre persone infinitamente care, imperdibili, irrinunciabili, tanto che, non potendone riconoscere a livelli profondi la scomparsa, erano state come incorporate dentro di lui, come inghiottite per mantenerle sempre in stretto contatto, creando una sorta di abitacolo interno che ne permettesse l’esistenza per sempre o, per lo meno, per tutto il tempo della sua vita.

Finchè nel 1890, pochi mesi dopo la morte del padre:

Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo –il sole stava tramontando- le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando.

Munch dovette sperimentarsi per sette anni prima di riuscire a far urlare anche la sua opera, prima di poter trasmettere e sciogliere tutto quel grumo di angoscia che si era incistato dentro di lui in maniera così radicata da non permettere la sua risoluzione, come se il pittore e quel grumo di sangue-dolore fossero un tutt’uno.

Freud crea un legame tra la memoria, il grido e il dolore. Quello di Munch è un dolore annichilente e assordante, tanto che nel quadro il personaggio che emette l’urlo ha anche le mani alle orecchie, come per ripararsi da quel rumore trafiggente, e sembrano chiudere al suono, ma allo stesso tempo lo sottolineano, lo rivelano. In realtà è un gesto che fa percepire la sonorità del grido, l’intensità del volume e, paradossalmente, funge da catalizzatore di attenzione su quella fascia sonora che esce disperata e violenta dalla bocca/voragine del protagonista.

Quel gesto è il gesto di tutti noi, è il nostro gesto, non vogliamo sentire il dolore, vogliamo proteggerci, non vogliamo esserne contagiati.

Munch con L’urlo ha creato l’icona dell’angoscia e della sofferenza universale che ci accomuna tutti nell’impatto col dolore della realtà, alla nascita, e col dolore dell’ignoto, alla morte. E il personaggio che urla può adombrare la forma di un embrione o di un teschio dove la carne è stata erosa dalla tempesta del vivere, dunque tutta la storia dell’uomo è condensata lì. La solitudine nel vivere i due eventi che scandiscono il tempo della vita spaventa e fa urlare, urlo come espressione del caos che nel suo etimo indica il fendersi, l’aprirsi della terra, ma sta anche per lo spalancarsi della bocca per il terrore puro della percezione della realtà, dell’impatto con la dolorosità del reale.

L’onda sonora dell’urlo riempie di sangue il paesaggio di Munch realizzando una congiunzione spazio-temporale, dando così una rappresentazione realistica al dolore dell’umanità, dolore straziante come solo la Crocifissione fino ad allora aveva fatto.

Una, tra le tante, che sa umanizzare e urlare la morte, è una Crocifissione di Giulio Ruffini, dove il corpo accasciato del Cristo racconta il suo disfacimento per essersi voluto assumere il peso sconquassante dei mali del mondo. Qui si ode un urlo muto, ma devastante e assordante in egual misura, è un urlo che fuoriesce dagli occhi spalancati, morti, straziati, incastonati in un volto che ha perso il suo posto, che si ritrova ritorto e abbandonato sul ventre, come disorientato e confuso perché non sa più dov’è, non si ritrova, non capisce, ma segue inerme il cedimento muscolare delle spalle che, sfasciate, ricadono senza volontà in una sorta di vuoto, voragine angosciosa. È raro trovare in altre crocifissioni un corpo umano così presente, così imbarazzante, così perturbante. Corpo stravolto. Angoscia. È dolorosamente quasi osceno, come può essere oscena la morte, proprio nel senso etimologico dell’essere fuori dalla scena, fuori dalla storia, fuori dal contenitore-vita.

Voragine di solitudine. Questo urlo del Cristo, questo corpo dissacrato arriva quasi a disturbarci, e proprio come l’urlo di Munch, riesce a creare un rumore fastidioso che ci distoglie dal normale ovattamento che ci protegge dall’impatto con le brutture e, come un brusco e irrispettoso richiamo, ci rimette in un contatto vivo e dolente con un lacerante guizzo di verità.