C’era una volta un’isola selvaggia abitata da una tribù di uomini e donne alti e scuri. Dove fosse situata l’isola era difficile saperlo, forse in un altro tempo, o magari in un’altra galassia. La vita della tribù andava avanti con lentezza seguendo i ritmi delle stagioni e l’alternarsi del buio e della luce, stabilendo ruoli definiti per gli uomini e per le donne. Infatti, tutto ciò che accadeva in quel luogo, ogni evento, ogni situazione, ogni problema doveva necessariamente essere valutato dal Consiglio degli Anziani. Le riunioni si tenevano sotto una grande quercia posta al centro della piazza centrale e le decisioni venivano prese all’ombra della sua ampia chioma rassicurante e avvolgente.

L’esistenza dei membri discreti e silenziosi di quel popolo era scandita dalla regolarità del lavoro quotidiano e dai cicli dei pasti e del sonno. Il tempo si srotolava senza cambiamenti di rilievo: le nascite e le morti, i matrimoni e i riti di passaggio della pubertà e della vecchiaia, facevano parte dell’ingranaggio che cadenzava le ore e i giorni in un calendario di eventi circoscritto e immutabile. Un bel giorno capitò, però, un fatto piuttosto insolito per quel luogo: un fagottino azzurro venne trovato sul far del giorno in un cestino sotto la quercia. Racchiudeva una bimba splendida come una dea, con le labbra rosse come un lampone e la pelle bianca come la luna.

Sogno di Fata
una neonata
dentro una cesta
tutta incartata
occhi di stella
bocca di cuore
nasce la luna
e il sole muore.

Le donne e gli uomini della tribù furono colpiti dalla straordinaria bellezza della neonata e stupiti per la diversità della sua pelle. I capelli scuri lisci e vellutati apparvero anch’essi inusuali rispetto a quelli neri, ricci e crespi degli altri membri della tribù. Si riunì immediatamente l’adunanza dei più saggi che decretò: “Questo è un dono del cielo, un messaggio degli dei per dare un insegnamento alla nostra gente”. La piccola fu chiamata Perla e venne affidata a un gruppo di donne anziane. Perla crebbe sana e robusta accudita come se fosse la figlia di una regina, mentre, di fatto, era un’orfana senza genitori. Il suo aspetto si fece ogni giorno più bello come si addice spesso a un mortale prescelto dalle divinità per una missione speciale.

Come una stella
nata sul mare
piccola Perla
devi brillare
sei una regina
tanto carina
una farfalla
nella mattina.

Perla, però, avrebbe voluto essere una bambina comune, poter correre tra i prati, sottrarsi alla sorveglianza delle donne e godere della vita in piena libertà, non le piacevano affatto le regole imposte dalla tribù. Più diventava grande, poi, più si sentiva prigioniera: trovava un poco di sollievo solo quando era in compagnia dei suoi cuccioli di coniglio. Allora abbracciava il coniglietto di turno e gli ordinava: “Ora trasformati in un cavallo bianco e portami in cielo con le tue ali di seta”.

Sono il coniglio
bianco di giglio
pelle di seta
nella barbetta
occhi di fuoco
come un bel sole
sono il tuo sogno
di un grande amore.

Perla aveva imparato a sognare e riscaldare il suo cuore con la fantasia affidando spesso i suoi segreti alle piante che incrociava per strada: “Cara piantina, aiutami a fuggire da questo posto. Dammi ali d’uccello per volare in un’isola magica. Portami dal principe di un reame lontano”. Aveva poi la sensazione che la pianta le parlasse e che gli uccelli variopinti che volavano intorno le sussurrassero: “Tu sei la nostra amica, la Perla di quest’isola, noi porteremo i tuoi segreti sul soffio del vento e torneremo a liberarti per sempre”.

Così Perla si rasserenava e aspettava fiduciosa che i suoi amici, prima o poi, la conducessero da qualche altra parte, ma il tempo passava e in quell’attesa la bimba divenne una giovane fanciulla. Nonostante il suo stato non mutasse, Perla non si perdeva d’animo e continuava a desiderare di correre negli spazi sconfinati delle spiagge lontane o nella fitta boscaglia che ricopriva l’intera isola. Quando riusciva ad eludere la sorveglianza delle donne del villaggio cercava di arrivare al boschetto di faggi accanto al fiume dove l’aspettava sempre il suo amico Geppo, un cavallo bianco senz’ali che la portava sulla groppa per il boschetto mentre lei accarezzava il suo pelo vellutato. Perla gli domandava sempre: “Chi ti ha mandato qui a salvarmi? Quando potrai portarmi via? Sei il cavallino bianco del principe che mi sposerà?”. E così riempiva la sua esistenza di sogni e popolava la sua immaginazione intensa e ricca di amici e di animaletti magici.

Sogno e magia
sono miei amici
di fantasia
caldi e felici
ogni giornata
io mi diverto
erba fatata
io me la invento.

Del resto la vita non era facile nel villaggio. Uomini e donne erano sottoposti alla dura fatica quotidiana per procurarsi il cibo. Nessuno era esentato, nemmeno i più giovani e spesso le donne più robuste dovevano portare in spalla pesanti carichi soprattutto se non potevano permettersi muli e asinelli. Un bel giorno, però, giunse al villaggio uno straniero con una cesta di spezie per le donne della tribù. Mentre esponeva la qualità della sua mercanzia a un gruppo di anziane, vide Perla che passava con il suo mantello scarlatto e una cesta di frutta sulla testa. La chioma fluente e scintillante le cadeva delicatamente sulle spalle e dalla fascia verde con cui raccoglieva la sua capigliatura spuntava il suo sguardo misterioso. Il forestiero rimase accecato da tanta selvaggia eleganza e dai movimenti di quel corpo aggraziato e di perfetta proporzione. Lei fu colpita da quell’uomo alto con i capelli lunghi color del sole e lo guardò senza vergogna. Lui si avvicinò timidamente e le disse: “Io sono il principe che hai sempre sognato. Mi sono travestito da mercante solo per poterti incontrare, se verrai nel mio castello, sarai ricca e rispettata. Ti donerò rubini e smeraldi e vestiti fatti di stoffe pregiate. Sarai la mia sposa e la regina della mia gente”. Perla lo seguì senza esitazione e credette a tutte le sue promesse. Lui la portò in una capanna del bosco e quando furono soli la baciò.

Giovani in fiore
bacio d’amore
cuori vicini
come rubini
rosa di maggio
vince il coraggio
senza ragione
è un’illusione.

Una donna che non si fidava di quell’uomo li seguì e quando vide quella scena corse subito ad avvisare la sua gente. La follia d’amore aveva acceso un fuoco: i due giovani non avevano rispettato le regole del sistema e sarebbero stati giudicati. Il Consiglio degli Anziani fu riunito e presto venne emesso il verdetto. L’uomo fu cacciato dall’isola con il divieto di non rimetterci mai più piede e la fanciulla fu legata, imbavagliata e buttata in fondo al mare nella baia degli scheletri, dove nessuno si avventurava mai. C’era la credenza, infatti, che chiunque si recasse in quella baia sarebbe stato catturato dalle piratasse del mare e tutti avevano un gran terrore di fare questa orrenda fine. Per questo motivo passò tanto tempo prima che la baia vedesse anima viva.

Perla sei stata
pelle di fata
occhi di notte
senza più note
ti han buttata
in fondo al mare
precipitata
senza fiatare.

Ma un giovane che non sapeva nulla di questa terrificante leggenda, un bel giorno giunse nella baia con il suo caicco e, sentendosi attratto da qualcosa di misterioso, gettò l’ancora e si fermò. Era convinto che la baia fosse incantata, che i riflessi argentati della luna sulla scogliera raccontassero di un antico e affascinante segreto, che quel luogo magico dovesse per forza essere colmo di pesce fresco e di qualche prezioso tesoro. Si riposò per qualche ora e prima del sorgere del nuovo giorno buttò la sua rete. Mentre aspettava che qualche pesce abboccasse cantò una canzone d’amore e subito si accorse che nella rete era caduto qualche grosso pesce.

O dolce mare
fammi sognare
una fanciulla
voglio trovare
dolce e gioiosa
splendida e vera
sarà mia sposa
per la vita intera.

Dai forti strattoni che sentiva immaginò un sostanzioso bottino di cui nutrirsi e – perché no - anche vantarsi, ma, quando tirò su quel pesce pesante, la rete gli scivolò dalle mani per il terrore. Uno scheletro di donna con le orbite rosse di coralli gli parve aggrapparsi alla sua barca. Quella visione orrenda lo fece tremare di paura e il suo cuore iniziò a battere forte forte. Non sapeva reagire a quello che vedeva e non riusciva a difendersi dal pericolo che emergeva dal mare. Così cercò di mettersi in salvo ma senza tanta lucidità. Tanto lui scappava verso riva, tanto lo scheletro si aggrovigliava in tutte le sue lenze. Quando toccò terra, il pescatore vide una baracca sulla spiaggia che sembrava disabitata.

Con la speranza di trovare una via di scampo si precipitò dentro. L’interno della baracca era pieno di ogni genere di cibo e bevanda e di un comodo giaciglio dove rifugiarsi. Convinto di essersi allontanato dalla tremenda allucinazione avuta in mare – magari per aver preso troppo sole – si rannicchiò dentro al letto e si rilassò un poco. Quando stava per crollare in un sonno profondo sentì un pianto disperato e una vocina che diceva: “Ho tanta fame!”. Alzò il capo per capire chi avesse parlato e si tirò su terrorizzato. Lo scheletro era lì accanto a lui e lo guardava dalle orbite vuote del teschio. Non si era accorto che quell’ossatura era avvolta alle sue lenze che erano irrimediabilmente legate a lui. Quando fu nello scuro di quella dimora in un primo momento ebbe un brivido al pensiero di essere insieme a quello spirito, ma nella calma dell’abitazione il pescatore si sentì sicuro e accese la luce per guardare meglio.

Nella paura
non puoi vedere
quello che il cuore
di certo vede
se guardi bene
con l’altro occhio
nelle tue vene
arriva un soffio.

Forse l’effetto del fuoco rese lo spettacolo meno spaventoso tanto che nacque in lui una sorta di tenerezza per quello spettro. Allora timidamente chiese: “Chi sei? Perché mi segui?”. “Io sono Perla, la figlia della grande quercia. Un tempo ero una regina ma i miei sudditi mi hanno gettata in fondo al mare dopo avermi legato e imbavagliato. Ti prego, abbi compassione di me e liberami”, rispose lo scheletro. Allora il pescatore si fece coraggio e si avvicinò alla donna senza più timore e con tutta la sapienza delle sue mani la liberò dalle lenze e dalle funi che la legavano. Sciolse ogni nodo e ogni groviglio con pazienza e serenità. Poiché la donna aveva una fame spaventosa, lui le porse un’enorme pagnotta che giaceva su una grande cesta. “Grazie buon uomo, sono secoli che non mangio”, sussurrò Perla con la voce rotta dall’emozione, quindi prese il pane quasi con vergogna e lo divorò fino a esaurire la sua antica fame. Poi, però, per paura di intimorire il giovane, se ne stette immobile nel suo cantuccio. Il pescatore a questo punto fu vinto da un grande sonno, forse affaticato per aver sciolto il groviglio di fili. Durante il sonno fece un sogno commovente e una grande lacrima sgorgò dai suoi begli occhi.

Sogna ragazzo
un suo sorriso
forse sei pazzo
già del suo viso
non puoi guardare
la sua bellezza
ma puoi vedere
la sua interezza.

La donna aveva una sete insaziabile e si dissetò abbeverandosi da quella lacrima. Bevve come se stesse attingendo da un pozzo profondo e placò tutta la sua sete. Poi, prese il cuore dell’uomo e lo strinse fra le mani. Come se un incantesimo fosse stato spezzato il suo corpo in un attimo si ricoprì di nuovo di carne. La donna rimise il cuore nel petto del pescatore e lo strinse nel suo abbraccio. Quando la mattina si risvegliarono l’uomo si trovò accanto la donna più graziosa che avesse mai visto. Aveva i capelli nerissimi come schegge d’ossidiana e la pelle candida come un giglio. Le loro mani si unirono e un grande amore sbocciò nei loro cuori vicini. Il pescatore disse a Perla: “Tu sarai la mia sposa e sarai regina di questo focolare”. La donna non lasciò mai più quella baracca e una nuova vita ebbe luogo in quel posto per lungo tempo isolato e solitario. Da quell’unione nacquero cinque splendide fanciulle tutte di pelle bianca e vellutata come la loro madre, ma i capelli arricciati come le altre donne dell’isola.

Splendide ninfe
come dei cigni
anime dolci
come germogli
mani di seta
volto velato
nella casetta
d’oro perlato.

La nuova famiglia fu sempre nutrita dalle creature del mare e nessuna delle bimbe soffrì mai la fame. Divennero tutte splendide creature e la loro voce e il loro bel canto riempì di gioia e allegria tutta la baia. Nel villaggio si finse di non sapere che quella donna era la stessa fanciulla che fu buttata in mare molti secoli prima e piano piano la gente che lo abitava tornò a frequentare quel lembo di mare e a specchiarsi nello spazio magico e senza tempo di quella incantevole baia. La leggenda della donna scheletro veniva raccontata a tutti i bambini del villaggio un po’ per spaventarli quando non volevano stare buoni, un po’ per stimolare la loro curiosità nei confronti di un mondo sommerso e misterioso.

Bimbo bimbetto
gaio e giocoso
forse furbetto
certo curioso
l’orbita vuota
non ti spaventi
guarda nel fondo
senti i lamenti.

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