Dedicato a mio padre,
che se fosse andato in India forse si sarebbe salvato

Si girò di scatto e mi sferrò un pugno in faccia con tale violenza e precisione che riuscii a malapena a stare in piedi. A stento trovai un sostegno al quale aggrapparmi, portando contemporaneamente l’altra mano al volto e più precisamente sulla bocca dove oltre a un gonfiore in crescita esponenziale e a un male fottuto, capii di aver perso i denti, non so quanti denti ma tanti ed erano i denti che proprio quel pomeriggio avevano finito di mettermi a posto dopo mesi di lavoro e trovavo che tutto quello che mi era appena successo non solo era una congiunzione astrale altamente sfigata ma anche una vera ingiustizia, sì perché io per avere quei denti, che in quel momento stavo masticando, avevo sofferto, io per tre anni avevo fatto una vita assurda, sgobbando di brutto, sopportando angherie e ingiustizie di ogni tipo e Dio solo sa come avevo fatto a resistere ma alla fine c’ero riuscito, ce l’avevo fatta.

Ora tutto si era rovesciato, per una stupida occhiata interpretata male da quel maranza alla fermata del bus io che i bus non li prendo mai ma questa sera mi sembrava invece di potermi permettere qualsiasi cosa dopo quell’ultimo intervento, anche volare perché no, perché dopo quella attesa estenuante io mi sentivo libero. Libero e felice.

Tutto era cominciato molto tempo prima all’isola Giglio, eravamo lì in vacanza io e Chiara e gli amici di sempre e quel giorno il risveglio era stato dolce, avevo aperto gli occhi e l’avevo vista nuda accanto me e ricordo quanto avevo gioito per la sua presenza, piacere al quale si era aggiunto anche quel sottile spaesamento che si prova quando si dorme fuori casa, insomma stavo godendo e nel pieno di quel momento di assoluta beatitudine Chiara era uscita con un - Amore, ultimamente hai un alito terribile, ci sono volte in cui sembra veramente che tu abbia mangiato topi morti. Diciamo che il senso dell’umorismo non è mai stato uno dei punti forti di Chiara, il sarcasmo quello invece non le mancava, fatto sta che la sua osservazione non scivolò via lieve come altre volte ma si impigliò in qualche punto oscuro della mia mente e li rimase a lungo tormentandomi e tornando su durante il giorno come un cibo indigesto che si rifiuta di essere digerito.

Quella sera stessa poi, dopo una indimenticabile scorpacciata di sole, di risate e di tuffi nel mare, tornato in camera vidi la mia dolce metà che nel frattempo aveva fatto la doccia e la sua pelle era liscia come l’interno di una conchiglia e si vedeva il segno del costume, insomma la situazione stava piacevolmente prendendo la piega giusta quando ancora una volta lei, nel bel mezzo di un abbraccio aveva detto, scusa Edo non riesco a baciarti, il tuo odore è troppo forte, scusami veramente. Aggiungendo poi un: fatti vedere da uno specialista.

Per una volta fui ragionevole e seguii il suo consiglio, così andai da un dentista e lì ricevetti la prima doccia fredda, la mia bocca risultò essere in condizioni catastrofiche, le ragioni potevano essere le più diverse, sicuramente il mio prolungato disinteresse per la quotidiana pratica di igiene dentale, forse le mie dissennate abitudini alimentari, forse anche una predisposizione ereditaria, tutti questi motivi insieme avevano creato quella situazione, rischiosa anche per la mia salute generale, aveva chiosato con sguardo severo il dentista squadrandomi un ultima volta prima di salutarmi.

— Ma lei che lavoro fa? —mi aveva chiesto congedandomi.
— Il poeta —avevo detto e lui aveva abbassato lo sguardo e sorriso con quell’espressione compassionevole che conoscevo bene, che ritornava puntuale tutte le volte in cui esprimevo candidamente il senso del mio essere al mondo. Una reazione alla quale avevo fatto il callo ma che non per questo smetteva di stupirmi.

— E allora? —mi aveva chiesto Chiara appena tornato a casa.
— Allora ci vogliono i soldi, molti soldi —avevo risposto io, soldi che non avrei saputo dove trovare, pensavo tra me e me sconsolato.
Chiara allora mi aveva guardato con una faccia simile a quella del dentista, con la differenza che lei le mie poesie le aveva lette tutte e le amava veramente e mi aveva sempre sostenuto caldeggiando le mie ricerche e sostenendo le mie scelte e la sua posizione non era per nulla invidiabile poiché si capiva che spesso il suo atteggiamento l’aveva messa in difficoltà. Ma anche quella volta aveva replicato in modo scarno, com’era suo stile, e la risposta era stata sufficiente per smuovermi e spingermi all’azione invece di scegliere la chiusura o la depressione. Mi disse: li troverai.

Fu quello l’inizio di un periodo tanto fosco quanto esaltante, perché mi ritrovai a fare mestieri che prima di allora credevo esistessero solo nei libri. Iniziai come guardiano notturno in un parcheggio di auto, poi divenni un addetto alle pulizie in una fabbrica chimica. Distrutto, tentai la fortuna come venditore porta a porta di cosmetici di una marca sconosciuta. Infine, seppi che in un circo temporaneamente accampato nella periferia della città una tigre aveva aggredito e ucciso un inserviente senegalese e mi venne l’idea di propormi e infatti fu la mia fortuna perché trovai un lavoro a contatto con gli elefanti, animali che da sempre mi avevano affascinato.

Accettai quest’ultimo lavoro di slancio, mi sottoposi a turni massacranti e mi lasciai facilmente convincere a seguire il Circo nelle sue varie trasferte e questo solo per poter mettere da parte qualche soldo in più, ma a Chiara questa mia idea non piacque per niente e cominciò a discutere e in una tragica sera durante la quale io non riuscii più a trattenere la mia rabbia e la mia frustrazione di fronte alle sue continue rimostranze, sclerai e feci volare in aria il piatto con le lenticchie frullate – da tempo ormai mi ero ridotto a mangiar pappette perché le gengive mi sanguinavano anche solo sfiorandole.

Chiara mi guardò spaventata e mi disse vattene, esci dalla mia vita, non posso stare con un uomo violento ed io allarmatissimo ad urlarle non ti ho mai sfiorata con un dito dimenticandomi quanto la mia voce maschile potesse essere essa stessa violenza ma non ci fu nulla da fare, ci abbracciammo, piangemmo tutta la nostra frustrazione mentre io sulla porta, stremato e triste seppi solo ripetere una parola, tornerò, tornerò con un sorriso nuovo ma lei evidentemente non mi volle credere, forse per questo mi guardò un’ultima volta senza dire nulla e poi chiuse la porta.

Tornai dai miei elefanti, tagliando i ponti con il resto del mondo e furono loro a salvarmi. Solo due anni dopo fui in grado di affrontare la spesa dei denti nuovi ma nel frattempo la situazione della mia bocca non era migliorata infatti il dentista quando mi vide scosse la testa con aria perplessa e disse solo: il poeta. E subito azionò il trapano cosa che fece varie volte nei mesi successivi e con puntigliosità estrema fino a trasformare la mia situazione catastrofica in una più stabile per poi, un anno dopo, ristabilire una sana, anche se artificiale, struttura masticatoria. Tornato povero ma felice abbracciai il dentista più volte prima di salutarlo e lasciai il suo studio con la sensazione di una vera rinascita. Ma la mia gioia durò poco.

Pesto e sanguinante, invece di andare al pronto soccorso corsi da Giacomo il mio migliore amico, il quale subito seppe come accudirmi, senza fare domande, solo preparandomi da mangiare, mettendo su i pezzi di musica giusti e lasciando che un po' di tempo passasse. Dopo una settimana così, Giacomo preparò un buonissimo tè al gelsomino e cominciò a guardarmi più intensamente del solito lasciando che gli raccontassi gli ultimi, drammatici accadimenti. Quando ebbi finito, quasi fosse la cosa più facile da dire in un momento così, mi chiese: perché non te ne vieni con me in India? Non c’è niente altro che tu possa fare qui in Italia a parte disperarti o riprendere a lavorare, ti farebbe bene un periodo di riflessione, magari è la volta buona che cominci a praticare un po' di yoga, dai, pensaci.

Quello che in Italia appariva come un grave handicap fisico scoprii che in India era la normalità. Già all’aeroporto di Delhi mi ritrovai circondato da persone sdentate e quando dico persone intendo di tutte le età e questo fu già da solo un conforto incredibile, assolutamente salvifico per me. Dopo mesi di frustrazioni e angosce per la prima volta non mi sentii più condannato o solo. L’India mi abbracciò accogliendomi con tutta la sua frastornante complessità e io mi abbandonai, lasciandomi avvolgere da essa, senza opporre alcuna resistenza.

Il giorno stesso del nostro arrivo ci trovammo in un quartiere periferico estremamente affollato perché Giacomo si era fissato e voleva farmi visitare un antico tempio induista non segnalato sulle guide. In mezzo a un’indicibile massa di persone in movimento, schiacciato tra automobili, biciclette e apecar smarmittati, feci appena in tempo a voltarmi nella direzione del mio amico facendogli intendere di voler raggiungere un banchetto di frittelle posto dall’altra parte della strada quando alle mie spalle sopraggiunse una vecchia vespa dal colore indefinito, con almeno tre persone a bordo, che piombò sulla folla rovesciandosi tra le urla della gente. Il parapiglia che ne seguì si può ben immaginare, con uomini che si picchiavano, poliziotti che urlavano cercando di farsi rispettare, il concerto assordante di clacson delle macchine che cercavano in ogni modo di passare, addirittura mucche cornute immobili in mezzo alla strada.

Istintivamente cercai Giacomo ma non lo trovai. Quando mi resi conto di averlo perduto mi prese il panico, anche perché avevo lasciato a lui il mio zaino e tutti i documenti del viaggio, compresi i soldi. Preda di una angoscia crescente cominciai ad urlare provando a chiamarlo più volte ma presto capii che la mia voce si udiva appena sovrastata dal frastuono della gente e delle auto. Per evitare di venire letteralmente schiacciato decisi di spostarmi senza smettere mai di guardarmi attorno nella speranza sempre più remota di riuscire a intravedere l’unico volto amico in quella massa informe di esseri umani.

Non essendoci lo spazio fisico per camminare lungo la strada decisi di prendere fiato e trovai un posto dove sedermi, una vecchia panchetta di legno di fronte a un negozio di sandali in cuoio. Lì rimasi per un tempo indefinito, tremante e sopraffatto dalle emozioni. Annichilito, chiusi per un attimo gli occhi, forse mi addormentai anche. Il fragore intorno, che con le ore non accennava a diminuire, si trasformò a quel punto in un suono di fondo cupo e indefinibile quasi fosse prodotto da enorme creatura viva.

Quando aprii gli occhi era sera, tutti i negozi intorno a me avevano acceso le loro insegne, all’inquinamento acustico ora si erano aggiunte le luci, migliaia di luci nella strada. Incapace di pensare rimasi ancora una volta rapito dalla vista di quel fiume di persone e mi accorsi anche che in un vicolo tra due case andavano e venivano dei ragazzetti scalzi, vestiti di stracci, più che ragazzi bambini, solo uno pareva più grande degli altri e infatti li comandava. Fu proprio lui a farmi cenno di raggiungerlo prima con un mezzo saluto e un gran sorriso e poi con gesti insistenti. Perso in mezzo a tutta quella folla indifferente alla mia presenza mi colpì la freschezza di quell’invito e all’ennesimo tentativo cedetti e mi inoltrai con la banda di ragazzini in quell’oscuro pertugio.

Dopo una decina di metri, percorsi quasi alla cieca in un passaggio maleodorante e fangoso, mi ritrovai in una specie di grande cantiere edile e lì, a ridosso di un enorme scheletro di casa semi diroccato, rividi quei ragazzini e scoprii così trattarsi di vagabondi senza casa e senza famiglia, o meglio un riparo l’avevano, si trattava di due giganteschi cilindri di calcestruzzo messi uno vicino all’altro a formare una specie di galleria. Fui nuovamente invitato a entrare nel loro nascondiglio e così feci e in un attimo mi trovai circondato da quel vivace gruppetto di infanti che per prima cosa iniziarono a toccarmi e dopo aver acceso una rudimentale lanterna fecero il gesto di offrirmi cibarie varie, resti di alimenti mescolati e avvolti in carta che senza pensarci due volte ingurgitai quasi fossi anch’io un homeless a digiuno da giorni.

Comunicando a gesti perché non c’era altra lingua possibile li ringraziai commosso e fu allora che immaginai di stare lì con loro e ricordo non fu solo per salvarmi il culo ma perché già era cresciuto in me qualcosa di nuovo che scoprii solo nei giorni successivi. E la cosa curiosa fu che loro intuirono immediatamente la mia intenzione e mi lanciarono un telo e alcuni di loro si distesero accanto a me mimando persone che dormono e non sarebbe potuto esistere un gesto più tenero e rassicurante di quello per me in un giorno tanto drammatico. Sorrisi a tutti e per la prima volta mi dimenticai di nascondere la bocca con la mano.

Rimasi con loro alcuni giorni, poi smisi di contarli perché quello che successe in quei vicoli dimenticati fu ben più importante. Divenni subito parte del loro gruppo imparando a conoscere i luoghi dove raccogliere materiale di qualità, come scarpe e oggetti in cuoio o pezzi di metallo di varia natura che portavamo giornalmente in un magazzino pieno di bidoni e container arrugginiti. La mia presenza fu subito notata da alcuni ragazzi più grandi probabilmente abituati a maltrattare e ricattare quelli più piccoli ed ebbe un effetto dissuasivo e per questo motivo mi guadagnai immediatamente un certo prestigio e quando capitava che dall’immondizia saltasse fuori un resto di pollo o una Samosa intatta ero io quello che ora ne aveva diritto.

Suan, il più grande della banda divenne ben presto il mio maestro, mi insegnò a sopravvivere in quel tugurio senza perdermi d’animo, mostrandomi per esempio come rubare i Cham Cham (deliziosi biscotti allo zafferano) sgattaiolando dietro al banco del pakistano, uomo noto nel quartiere per il suo carattere violento, oppure come catturare le scimmie senza farsi mordere o anche come sfuggire ai controlli della polizia e molto altro ancora. Ci furono anche giorni difficili come quello in cui il nostro accampamento di tubi venne assaltato da una banda rivale con lo scopo di rubare il frutto del nostro raccolto – un vero atto di pirateria – e pur essendo riusciti ad evitare un vero corpo a corpo con quei banditi, lo scontro fu duro e ci fu un lancio di sassi e legni che ci causò numerosi feriti.

Un altro giorno invece la città fu investita da un mezzo ciclone con pioggia torrenziale – mai visto nulla di così primordiale e violento – e un vento pazzesco e a causa di ciò per alcuni giorni nessuno poté muoversi dal rifugio e il raccolto fu magro. Ma il mio amico Suan non si fece perdere d’animo e riuscì comunque a catturare un grosso ratto che cucinammo e mangiammo con gusto ed io, succhiando quelle ossa, ebbi per un attimo un pensiero per i miei amici italiani, soprattutto per Chiara, sì, soprattutto per lei e risi dentro di me pensando a quanto aveva sempre avuto da dire sul mio alito e non solo su quello, se mi avesse visto in quel momento!

In generale in quella strana vita che stavo facendo mi ritrovai spesso a sorridere e mi resi conto di essere felice senza possedere nulla o quasi ma questo non era esatto perché io avevo molto, moltissimo, la mia pancia era piena, avevo un tetto sopra la testa, ero circondato dai volti sorridenti de miei nuovi amici. E quanto appariva inutile in quel momento lo stile di vita che avevo lasciato alle spalle, l’ansia di fare, di conquistare, di essere riconosciuto, tensioni pazzesche delle quali ero stato a lungo preda fino a pochi mesi prima. Ero un poeta e vivevo, forse per la prima volta, qualcosa di poeticamente significativo e vero. Altro che pubblicare libri di poesia! La poesia era lì davanti ai miei occhi e anche dentro di me, nel sudore dei miei vestiti anche loro ormai laceri, nell’odore del mio corpo, soprattutto nelle mie mani, sporchissime ma pur sempre belle, instancabili amiche.

Alla sera di quello stesso giorno venne Suan e disse di volermi parlare, anzi di volermi presentare sua sorella e ci misi un po' di tempo a capire cosa volesse veramente finché all’imbrunire – fai attenzione alle pozzanghere perché con la pioggia si riempiono di serpenti – mi disse – raggiungemmo una località denominata GB Road che non sapevo essere la zona a luci rosse della città. Là, in un susseguirsi di baracche e ricoveri trasformati in postriboli, tra risate sovrapposte a ripetuti gemiti striduli camminai tra ali di donne di tutte le età, alcune dallo sguardo sfacciatamente insistente, tutte avvolte in Sari multicolori e con i piedi nudi ingioiellati, una eleganza che faceva a pugni con l’ambiente sordido e visibilmente degradato.

Ecco, ci siamo, disse improvvisamente Suan dirigendosi verso una tenda turchese che nascondeva l’accesso ad un lungo corridoio illuminato da una fila di piccole lanterne. Al termine di quel passaggio raggiungemmo una scala e grazie a questa salimmo al piano superiore dove trovammo una stanza spoglia con un divano di paglia reso meno misero da un lungo cuscino rosso. Semi sdraiato su quel cuscino vidi un uomo non più giovanissimo, robusto, vestito con un sami crema di elegante fattura e una orchidea tra le mani. Ci scambiammo uno sguardo interrogativo, mentre Suan, evidentemente più a disagio di me per quella presenza adulta, mi salutò frettolosamente e scomparve. L’uomo allora mi fece posto sul divano senza dire una parola e continuando a scrutarmi sospettoso.

Rimanemmo entrambi in silenzio, in ascolto e c’era parecchio da sentire, anche musiche, vari suoni sovrapposti, ogni tanto voci, soprattutto gemiti in crescendo intervallati da silenzi improvvisi. Ad un tratto si spalancò la porta di fronte a noi e ne uscì un uomo anziano tutto un po' scombinato, con il turbante mal messo e l’espressione della faccia sfuggente. Dietro di lui apparvero due donne in miniatura, sorridenti e una di queste venne da me e mi prese in disparte ma solo per dirmi di essere la sorella di Suan e di aspettare che presto sarebbe stata libera e avremmo potuto stare insieme. Quando mi voltai, prima di salutare la donna, colsi lo sguardo allarmato dell’uomo dietro di me che questa volta non sorrise.

—Non ti ho mai visto da queste parti —mi chiese prendendomi in disparte —sei un habitué di questa casa?
—No —risposi —è la prima volta che vengo qui.
—Strano, mi era parso che ci fosse una certa confidenza con Mahika, Sai, lei è la mia preferita.
—Ok —gli ho risposto, lasciando cadere lo sguardo sulle sue mani, grassocce ma dalle unghie finemente curate.
—Lei invece ha l’aria di essere un affezionato frequentatore —osai replicare più nell’imbarazzato tentativo di colmare il silenzio che era calato tra noi che per vera curiosità.

—Si vede? È così, inutile negarlo. Vengo qui almeno una volta alla settimana. Mahika mi ricorda terribilmente mia moglie quando era giovane. L’ho sposata che aveva sedici anni. E come era bella! Purtroppo col tempo si è lasciata andare e ora è grossa e come se non bastasse si lamenta sempre. Ma dimmi un po', tu da dove salti fuori? Mi sembri un po' malmesso, da quanto tempo non ti lavi? Non dirmi che appartieni a una di quelle bande di ragazzini che girano qui intorno vivendo di espedienti.
—È proprio così —risposi, senza nascondere il mio orgoglio. —La mia storia è però alquanto complicata e troppo lunga per essere raccontata qui in pochi minuti. In ogni caso mi chiamo Edo, sono un poeta.

—Un poeta? Ah questa è bella. Dal tuo sorriso malsano avrei detto un drogato. Ne vediamo a migliaia qui in India di giovani europei come te che sognano il Nirvana e poi si perdono. Tutte persone che non hanno mai lavorato.
—Ah, questo non vale per me. Io ho sempre lavorato e fatto mille lavori diversi, ho anche accudito un elefante per alcuni mesi.
—Ma no, un elefante? Interessante. Conosco molto bene quegli animali. Sono nato a Kermala e i miei genitori sono di Bujurat, una zona dell’India conosciuta proprio per gli elefanti. Che animali! Generosissimi ma per niente facili. Buono a sapersi che hai esperienza con gli elefanti. Ma dimmi...ora cosa stai facendo?

—Nulla.
—E dove stai di casa?
—Non ho una casa, vivo in giro con…
—Ah, ma allora avevo ragione, sei uno spiantato.
In quel momento si apre una porta proprio di fronte a noi e se ne esce un ometto dallo sguardo timido e dal passo veloce, infatti subito se ne va, ma non prima di essersi messo a posto la cintura dei pantaloni mentre dietro di lui compaiono due ragazzine vestite con colori sgargianti e con i visi pesantemente truccati.

—Mahika!
—Buongiorno Sajjan!
L’uomo si alza di scatto dal divano, si gira verso di me e mi dice ancora una volta: — Lei è la mia preferita, scusami ma ora ti devo lasciare —e detto ciò fruga nella tasca e tira fuori un piccolo biglietto dorato e me lo porge. —Ecco, questo è il mio indirizzo, vienimi a trovare, forse ho qualcosa che fa per te.
Poi si avvicina alla ragazza, l’abbraccia e senza salutare scompare con lei dietro una tenda. Nel frattempo l’altra ragazza mi fa cenno di entrare ma io rispondo: —No, no, grazie —e lei rimane per un po' come interdetta, insiste ancora un paio di volte e poi, dopo avermi sorriso, richiude la porta.

La porta verrà riaperta dopo un lasso di tempo indefinito, credo di essermi anche assopito per un po', non prima di essere rimasto ad ascoltare le voci e i suoni che mi circondavano, poi, complice il caldo, avevo chiuso gli occhi appoggiando indietro la testa ed ero scivolato in un sonno leggero.

—Sei ancora qui? —mi ha chiesto l’uomo, spintonandomi con gesti vigorosi.
—Sì.
—Cosa stai aspettando?
—Vorrei incontrare Mahika.
—Ah, ma allora il mio poeta non disdegna i piaceri del mondo.
—Ehm… non è esattamente quello che pensi tu.
—Non devi vergognarti con me, non c’è mica niente di male ad essere qui. Ma hai ragione, non sono affari miei. Piuttosto volevo dirti che ho ripensato alla nostra breve conversazione di prima e tu mi piaci. Forse posso veramente fare qualcosa per te, anzi ti voglio dimostrare subito il mio apprezzamento, consideralo un segno della mia fiducia.

E detto ciò ritorna a frugarsi nella tasca e ne esce con un rotolo di banconote tutte stropicciate e consunte e me lo porge, ma dopo aver incrociato il mio sguardo subito corregge il tiro e mi fa:
—Conto sulla tua riservatezza, quando incontrerai mia moglie intendo dire.
Quelle sono state le sue ultime parole poi l’ho visto scostare la tenda all’entrata del vestibolo lasciando filtrare per un istante un fascio di luci colorate proveniente dalla strada.
Rimasi immobile con i soldi in mano. Quando mi voltai c’era Mahika accanto a me, si era fatta vicina e cercava di prendermi la mano invitandomi ad entrare.
—Vuoi fare l’amore con me, ragazzo mio?
—No, grazie —risposi senza esitazioni. —E tu? —aggiunsi io, stringendo i soldi nella mano come un bambino, vorresti uscire a cena con me questa sera?

Cosa stavo cercando? Fu la domanda che mi rimbalzò a lungo nella testa quella sera mentre osservavo le piccole mani di Mahika raccogliere con grazia bocconi di pollo allo zenzero e riso e metterli in bocca, la stessa bocca che poche ore prima aveva baciato quel grassone di Sajjan e certamente non solo lui. Mahika mi aveva portato in un luogo esclusivo, una specie di mensa abusiva molto casalinga ad uso delle donne del quartiere ma forse sarebbe più giusto dire delle prostitute perché quello pareva il mestiere più diffuso. Mi guardai intorno, ero l’unico uomo. L’atmosfera in compenso era gaia, sembrava di essere in una gita scolastica di un collegio femminile.

Scoprii dalla viva voce di Mahika che Suan era il più grande di cinque fratelli e lei, in quanto sorella maggiore, lavorava per sostenerli tutti. Nascere in quel quartiere non permetteva di avere sogni, emanciparsi, studiare, migliorare le proprie condizioni socio-economiche erano da sempre delle chimere per tutti. Alcune sue amiche lavoravano in una filatura ricavata da uno scantinato, anche lei avrebbe voluto fare qualcosa di simile ma con quella grande famiglia da mantenere non poteva permetterselo. Dei genitori non mi parlò mai ma io sapevo già da Suan che erano scomparsi, probabilmente morti.

—Hai mai mangiato la banana fritta? —mi chiese Mahika, interrompendo bruscamente il flusso dei miei pensieri.
—E tu, Edo, mi racconti cosa sei venuto a fare in India?
—Ero disperato —risposi, sentendo di aver scelto per la prima volta la parola più onesta per descrivere la mia condizione. —Avevo perso tutto —aggiunsi e tornai subito a immergermi nella luminosità irraggiungibile delle pupille scure di Mahika.
—Sono sicura che Sajjan ti aiuterà.
—Chissà…
—Che cosa ti piace fare?
—Scrivere poesie.
—Che bello! Veniva da me una volta un uomo. Anche lui era un poeta. Era un tipo strano ma non era cattivo. Mi chiedeva di spogliarmi e poi restava a guardarmi per ore sorridendo. Una volta mi ha scritto sul corpo con una piuma. Gli volevo bene. Anche Sajjan ha uno spirito da poeta anche se non lo può mostrare. Vai a trovarlo, ti aiuterà.

La casa del signor Sajjan si distingueva nettamente dalle altre ed era riconoscibile già da lontano a causa di una torretta stile minareto dipinta in rosso sgargiante. Tutta la proprietà era cintata da un alto muro in mattoni oltre i quali svettavano le cime di alberi che già dall’esterno si capiva essere più che secolari. Mi ero preparato meglio che potevo per quell’appuntamento. Saud era stato caro come sempre e nei giorni precedenti si era prodigato in tutti i modi per procurarmi del sapone, una camicia della mia taglia – temo l’abbia rubata ma questo non ho osato chiederglielo – ma soprattutto un posto dove lavarmi che non fosse uno dei tanti canali che tagliano la zona di baracche dove noi avevamo il nostro rifugio, troppo sporco e rischioso per la presenza dei serpenti.

Scalzo ma decorosamente vestito mi sono così presentato davanti al grosso portone d’entrata, ho suonato la piccola campana posta in una nicchia del muro e ho atteso. Dopo qualche minuto la porta si è dischiusa ed è apparso un uomo vestito di bianco che molto educatamente mi ha chiesto chi fossi. Saputo il mio nome mi ha fatto entrare senza esitare e notando il mio stupore di fronte alla bellezza del giardino interno non ha saputo trattenere una risata. Pareva una giungla tropicale, con banani giganteschi, palme e alberi dalla chioma fitta e scura avvolti da piante rampicanti che si sviluppavano in ogni direzione. E come se ciò non fosse bastato subito a sinistra c’era una grande gabbia con dentro due tigri vere che si muovevano avanti e indietro trasmettendo un senso di selvatichezza inquietante, e poco oltre un’immensa voliera piena di pappagalli colorati e festosi.

Il signor Sajjan mi venne incontro a braccia aperte mostrando un affetto che non ero ancora pronto a ricevere. Poi mi fece entrare in casa dove ci venne incontro la moglie che lui chiamava Arya, da lì ho dedotto fosse il suo nome, ma lei non si fermò con noi che pochi minuti perché subito scomparì in un’altra stanza. Entrammo in un ampio salone con divani e poltrone e una grande statua d’oro di una danzatrice linguacciuta con sei braccia e teschi a mo’ di collana. Ovunque regnava una grande aria di pulito e di freschezza anche grazie al riflesso dei grandi alberi del giardino.

Sajjan mi fece fare un giro della casa, partendo dalle cucine – dove conobbi Kabir e Arjun, rispettivamente cuoco e cameriere – fino alle camere al piano superiore. E ancora prima che potessi chiedere a cosa servissero tutte quelle stanze Sajjan mi confidò di aver costruito una grande casa perché con Arya sognava una grande famiglia e una infinità di figli che poi non sono arrivati. Nello sguardo di Sajjan, che improvvisamente si era fatto sfuggente, vidi calare un velo di malinconia. Quando tornammo nel salone d’entrata qualcuno aveva apparecchiato in modo impeccabile un piccolo tavolo con una teiera e diverse tazze e una ciotola con biscottini dall’aria intrigante.

—Se tu volessi lavorare per me qui posto c’è —mi disse a quel punto Sajjan, dopo aver sorseggiato il suo tè. —Voglio però vedere come ti comporti e come ti muovi, intendo dire, non solo nel lavoro ma anche con le altre persone. Il lavoro non manca qui. Si inizia a lavorare alle 5, ci sono le foglie da raccogliere nella piscina. Alle 6 amo iniziare la giornata con un bagno fresco. L’acqua mi rigenera. Poi c’è sempre da controllare l’argenteria di casa, pulire i bagni, aspirare i tappeti. Delle tigri non ti devi occupare, a quello pensano i ragazzi che fanno il giardino. Come vedi il lavoro c’è.
—E la paga com’è? —chiesi io un po' spudoratamente, dopo aver ripetuto la domanda almeno dieci volte dentro di me.
—Caro mio, la paga all’inizio non c’è. Puoi contare sul vitto giornaliero e una stuoia nel retro cucina insieme agli altri. Poi in futuro vedremo.

(segue)