Il mio amico Ruggero da quando mi ha visto con tutti 'sti soldi mi sta addosso e comincia a stressarmi. Io ho sbagliato a non metterli via ma lui l’altra mattina mi ha fatto una improvvisata e così si è trovato di fronte al mio tavolo invaso da blocchetti di banconote e da allora è in uno stato di perenne agitazione. Ho detto “amico”, in realtà Ruggero è stato prima di tutto un collega ai tempi della scuola, un ottimo insegnante di matematica, brillante e amato dai suoi allievi. Ci siamo frequentati un po' di più da quando ha preso casa a due isolati a qui, poi però la vita gli ha fatto arrivare una tegola in testa, la moglie lo ha lasciato per un altro uomo, un gambiano, un marcantonio di uno e da allora la sua Annina è diventata “quella troia della mia ex moglie”, oltretutto prima di andarsene gli ha pure svuotato il conto.

Insomma, Ruggero ha cominciato a farmi un po' pena anche perché ha veramente perso la testa e tutta la sua intelligenza fina è andata a farsi benedire e forse anche a causa di questa crescente mancanza di lucidità da qualche giorno ha cominciato a dire e fare cose strane. Settimana scorsa per esempio è passato da me dopo pranzo per portarmi un catalogo di auto cercando di convincermi a comprare un Jaguar coupé di ultima generazione, sapendo benissimo che le auto non mi sono mai interessate, infatti ho ancora la mia vecchia Panda comprata usata dieci anni fa.

È vero che sto pensando a cosa fare con tutti 'sti soldi, ho poche idee e tutte poco chiare. Ogni tanto penso che se Vito dovesse ricomparire sarei contento di dargli indietro tutto il gruzzolo o forse no, direi la metà, sì la metà sarebbe più giusto, in fondo ho fatto la mia parte. Quando Ben mi guarda con i suoi occhi languidi non ho dubbi, devolverò una cifra importante alla Associazione Labrador maltrattati ma anche i pennuti come Nino a questo punto meriterebbero di essere sostenuti ma non credo esista un gruppo specifico che si occupa delle cornacchie. C’è un gruppo di volontari in città che da qualche tempo si prende cura degli uccelli migratori feriti da cacciatori senza scrupoli, sì, credo che farò una donazione anche a loro.

Qualche giorno fa Ruggero è tornato alla carica chiedendomi dei soldi per pagare delle vecchie bollette. L’ho ascoltato a lungo, lui ha attaccato con i suoi dischi, primo fra tutti quello di vittima del gambiano - pensare che le avevo consigliato io di fare danza africana, ma che coglione che sono stato – allora io gli ho ricordato che forse la relazione con Anna era già in bilico facendogli notare che visto da fuori lui dava l’impressione di essersi impigrito ultimamente, sempre attaccato al telefono, oppure dalla madre a pranzo tre volte alla settimana, che insomma nell’opera di sabotaggio della loro storia ci aveva messo anche del suo, ma Ruggero non mi ha risposto, almeno non subito.

Quando ha parlato è passato di palo in frasca dicendomi che su Instagram c’erano dei programmi di investimento in bitcoin super intriganti, se solo io avessi voluto raddoppiare il mio capitale avrei potuto farlo, lui non aveva ancora provato ma conosceva qualcuno che aveva fatto fortuna. Gli ho chiesto da dove venisse tutta questa verve da investitore oculato e lui mi ha risposto non dimenticare che ho studiato matematica per anni. Alla fine gli ho comunicato la mia intenzione di dargli 20.000 euro cash e subito ho visto il suo volto illuminarsi. Ma nello scintillio luminoso dei suoi occhi per un attimo è comparsa anche un’ombra strana ed è stato in quel momento che ho avuto la sensazione di aver sbagliato con lui, non che volessi indietro i miei soldi, no, è solo che ho dubitato che quei soldi avrebbero cambiato le sorti del mio amico.

Due sere dopo fui svegliato da una sua telefonata, la voce era alterata, le frasi sconclusionate, in sottofondo si udiva una musica ritmica a volume alto e risate di ragazze, pensai subito a una festa. Ruggero mi implorò di raggiungerlo, istintivamente dissi no poi qualcosa mi fece cambiare idea, mi rivestii e mi incamminai verso la sua casa. Quando giunsi a destinazione vidi la porta di casa spalancata e un via vai di gente sconosciuta. Notai subito trattarsi di persone di colore. Una Mercedes di grossa cilindrata era parcheggiata sul prato a pochi passi dall’entrata, altre automobili stazionavano nelle vicinanze. Appena entrato vidi Ruggero vestito solo con una camicia bianca semi sdraiato sopra a un divano e circondato da tre ragazze nere seminude che si divertivano a stuzzicarlo e ridevano sguaiatamente e non smettevano di bere e gesticolare brandendo ognuna una bottiglia di vino.

Tutt’intorno regnava un caos indescrivibile, giovani uomini col cappello da baseball e gli occhiali scuri salivano e scendevano dal piano alto dell’abitazione, altri parevano impegnati in diverbi che sfociavano immediatamente in risse, altri ancora ballavano o forse sarebbe stato meglio dire barcollavano fino al punto di urtare contro una poltrona o una libreria per poi rovinare a terra. Rimasi a guardare la scena esterrefatto, mi pareva di essere in un film americano, di quelli ambientati ad Harlem o giù di lì. Quando ecco che dalla calca giunse una voce familiare, era Ruggero che tentava di richiamare la mia attenzione.

—Amico mio! Amico mio! Vieni a sceglierti un cioccolatino per la notte — e così facendo fece per indicarmi una delle ragazze nere che lo circondavano.

Io non sapevo cosa rispondere ma sentii una gran voglia di scappare da quella bolgia infernale. Proprio nel momento in cui mi voltai per tornare sui miei passi mi si parò davanti un bestione nero dal collo taurino e dalla testa pelata non proprio d’accordo con il mio progetto di fuga. Anzi, per dirla tutta, capii come la mia visita in fondo fosse stata congeniata per trasformarsi in una trappola.

—Ehi amico, un uccellino mi ha detto che a casa hai del contante che ti cresce. Cosa ne pensi se adesso facciamo un salto laggiù e lo contiamo insieme?

Spaventato come mai prima mi era successo nella vita, soprattutto tradito e pieno di rabbia nei confronti di Ruggero mi sono lanciato su di lui con l’intenzione di fargliela pagare ma ancor prima di fare ciò ho afferrato un bottiglia allo scopo di usarla come arma. Ruggero totalmente imbambolato dall’alcol e dalla situazione non ha reagito se non con un ridicolo balletto in giro per la stanza circondato da tutti quei giovinastri di colore che incitavano prima uno poi l’altro lanciandoci suppellettili prese a caso sulle mensole e sui tavoli.

A quel punto mi sentii perduto e con l’ultimo brandello di lucidità mi immaginai di dover entrare in collisione con tutti gli uomini presenti e pensai che da lì a poco sarei morto e questa idea fece crescere la mia rabbia che a quel punto divenne feroce. Udii una voce urlare, dategli una lezione ma non uccidetelo, altrimenti addio cash, è chiaro ragazzi? Mi arrivò preciso un cazzottone nello stomaco e per il dolore mi piegai in avanti, simultaneamente qualcuno altro pensò bene di raddrizzarmi e lo fece con due ginocchiate sul mento e sul naso, cominciai a sanguinare con la faccia che mi si gonfiava come un pallone e un po' piangevo, un po' urlavo, un po' cercavo di proteggermi il volto con le mani pronto a parare i nuovi colpi. Caddi a terra. Mi rialzai.

Mi arrivò un calcio sulla schiena e mi ritrovai per terra. Gli occhi pesti mi limitavano la vista, per questo non capii subito che la scena di fronte stava rapidamente cambiando, continuai a menar fendenti nel vuoto ancora per qualche minuto fino a quando mi sentii afferrare con forza per le braccia e vidi a distanza ravvicinata due poliziotti ma ancora di più mi spaventai davanti a due volontari dell’ambulanza che in un battibaleno mi immobilizzarono sulla barella e fasci di luce blu presero a illuminare il cielo scuro della notte ma ancora a lungo udii voci e urla e non vorrei sbagliarmi anche un paio di colpi di pistola in lontananza.

Mi risvegliai in un letto d’ospedale, nella penombra di una stanza, solo. Non sentivo più il mio corpo ma ciò che era peggio non riuscivo a reagire, ero come paralizzato. Fui preso da una angoscia crescente che solo un rumore di passi e voci di persone interruppe bruscamente. Udii una voce: il nostro professore si sta risvegliando, molto bene. Intravidi seppure in modo offuscato una figura in camice bianco circondata da due donne vestite allo stesso modo.

—Scusate, ma dove mi trovo? Chiesi io con un filo di voce.

—Lei da due giorni è nostro ospite qui al reparto psichiatrico della clinica di villa Mafalda.

—Reparto psichiatrico? Non capisco, perchè sono qui?

—Tutto bene, non si agiti. Ora è in buone mani. Si riposi. Appena tornerà in forma ci racconteremo tutto. Poi, con la sua collaborazione, inizieremo la riabilitazione.

—Continuo a non capire, mi sembra di vivere un incubo.

—Chissà, forse è solo un bel sogno. Vuole che le presenti le mie assistenti? (ridacchia)

—Non riesco a tenere gli occhi aperti. È come se non avessi dormito da cento anni.

—Questo è l’effetto dei tranquillanti. Tutto sotto controllo. Quando è arrivato era molto agitato.

—E queste cinghie? Perchè mi avete legato al letto? Questo non è giusto, come vi siete permessi di…

—Non era possibile fare diversamente, mi creda. Ma ora, si rilassi, su.

—Io ho una cornacchia e un cane che non possono stare da soli.

Una delle infermiere sussurra qualcosa al dottore che subito ordina: —Cristina, mi controlli la flebo, eventualmente aumentiamo il dosaggio di Triazolam e poi vediamo il paziente se risponde alla terapia.

—Io non posso più stare qui... io… devo... io ho una cornacchia.

—È ritornato psicotico (a bassa voce), teniamolo monitorato, vi raccomando sponde del letto alte e se è il caso raddoppiamo le cinghie, come da regolamento.

—Sì dottore, certo dottore, faremo come dice, dottore.

Che ci faccio qui? Mai e poi mai avrei immaginato di finire in una clinica psichiatrica. Dopo il primo momento seguito al ricovero cominciai un interminabile periodo di convalescenza. Io mi sentivo bene, mi sentivo normale, l’ambiente intorno a me mi ricordava puntualmente il contrario e per non cedere alla più profonda disperazione decisi di adattarmi accettando temporaneamente la mia condizione. Non c’era nulla che mi desse una qualche speranza né la possibilità di interazioni con gli altri ospiti. Passavo le mie giornate camminando come zombi insieme agli altri ospiti lungo androni infiniti a smaltire le forti dosi di psicofarmaci che gli infermieri ci somministravano. Quando il tempo lo permetteva si poteva stare in giardino. Là potevo incontrare la signora Lidia, una donna anziana che i parenti avevano fatto ricoverare per avere campo libero e poter arraffare i suoi beni.

La povera Lidia passava il suo tempo urlando al mondo la sua rabbia, ogni giorno c’era la stessa scena, quando non ce la faceva più crollava e allora veniva riportata in camera e fino al giorno successivo non la vedevamo più. Poi c’era l’Aldino, uno che aveva esagerato con gli acidi nel periodo in cui quelle sostanze andavano per la maggiore, ora con i suoi quarant’anni appariva già vecchio, completamente sdentato e con la pelle delle mani e del volto secca e squamosa come un arbusto bruciato dal sole, con lui non sono riuscito mai a spiaccicare che due parole. Le cose non andavano meglio con l’Arturo, uno scrittore, a detta sua uno scrittore famoso, vincitore di premi - io non ne avevo mai sentito parlare- e per questo lui mi martellava con le sue storie e non sembrava accettare l’idea che qualcuno non lo riconoscesse subito o almeno si ricordasse il nome.

Insomma, in totale noi permanenti eravamo quattro, massimo cinque, ma altri andavano e venivano, quelli gravi stavano pochissimo, li sentivamo urlare qualche ora e poi li facevano scomparire, secondo l’Arturo in uno scantinato degli orrori dove ce ne stavano a decine ma io a questa storia non ho mai creduto, bisogna sempre stare un po' attenti a quello che dicono gli scrittori perché da un niente creano un romanzo e poi loro stessi si convincono che sia realtà e questo mix a lungo andare può essere pericoloso.

Ah, dimenticavo, nel mio reparto c’è anche un certo Franz, sì con lui mi piace stare anche se non so praticamente nulla di lui a parte che è goloso di purè di patate e tutte le volte che siamo in giardino spara le bacche in direzione delle infermiere usando una rudimentale cerbottana che regolarmente gli viene requisita ma poi subito ne ricompare una nuova, non si sa come. Caliamo un velo pietoso su tutti quelli che consideravo amici o amiche e che fino ad oggi si sono ben guardati dal venirmi a trovare ma si sa, è molto più semplice andare a trovare qualcuno ricoverato in traumatologia o addirittura in oncologia piuttosto che in psichiatria, perché là c’è il rischio di venir presi da dubbi esistenziali o forse semplicemente presi nel senso di trattenuti come in fondo è successo a me.

—Ho conosciuto tanti come lei —mi fa il medico invitandomi a occupare la poltrona di fronte alla sua scrivania.

—Si accomodi. Eh sì, intellettuali, ricercatori, insegnanti, tutta gente che non si accorge di usare troppo il cervello, magari impegnandolo con letture, immagini, congetture e riflessioni, tutte cose importantissime ci mancherebbe, ma senza risparmiarsi, dimenticandosi che più si invecchia e più diventa difficile

l’elaborazione di un così alto numero di informazioni, e poi arriva il giorno in cui tutto va in tilt e si perde la testa e allora non resta che andare in clinica.

—Io veramente ho sempre fatto una vita tranquilla, da quando sono andato in pensione.

—Vede, anche quello è un momento delicato, sa? Tantissimi crollano proprio quando viene a mancare la routine del proprio lavoro e poi…

—Poi cosa?

—Poi si aggiungono gli imprevisti della vita, le emozioni forti, i licenziamenti, le separazioni, i divorzi, insomma non è facile rimanere in sella.

—Cosa c’entrano i divorzi?

—Stavo giusto rileggendo la sua scheda personale, ha avuto due relazioni importanti, due mogli. Io ne ho una sola e ci sono certi giorni che avverto il rischio di una crisi di nervi (sorride).

—Sono in ottimi rapporti con le mie due ex, se questo la può interessare.

—Buon per lei, ma avremo modo di riparlarne, intanto ho voluto vederla per chiederle come va.

—Mah, direi bene.

—Il sonno com’è?

—Mi faccio certe dormite.

—Ottimo. Direi allora di rivederci nel mio studio tra una decina di giorni, tanto noi ci incontriamo in reparto ogni giorno, comunque se dovesse avere qualunque necessità, senza indugi, si faccia avanti.

—Nel frattempo posso continuare a frequentare l’atelier?

—Ma certamente, ho giusto saputo dalla caposala che lei è un appassionato di arte.

—Sì, è vero. Ho sempre dipinto con gli acquarelli. Mi rilassa.

—Bene. Beh, Katia, la nostra arte-terapeuta è una professionista molto valida.

—È vero, è una persona garbata anche se il mio preferito è Franz. Mi hanno detto che è vostro ospite da lungo tempo, è vero?

—Aha, Franz! Che sagoma quello là. È un cronico. C’è di buono che è sempre attivo, sarà perché è svizzero.

—Svizzero?

—Sì. O almeno la sua famiglia lo era, mi sembra di ricordare di Zurigo. Infatti come molti zurighesi è un poliglotta. Ma che brutte storie nella sua vita, se penso a quello che ha passato mi sorprende vederlo ancora così sorridente e leggero. Bene allora che vi fate compagnia, caro professore, ora la devo lasciare, buona pittura e le raccomando, massima collaborazione, prenda le sue pastiglie, dipinga e vedrà che presto potrà tornare a casa.

—Farò del mio meglio — risposi e gli strinsi ancora una volta quella sua mano molle e sudoreccia.

Inutile dire che Franz lo svizzero mi divenne in breve tempo amico e in un certo senso fu la mia salvezza. Ci incontravamo due volte alla settimana in atelier, al mattino, non paghi chiedemmo in direzione di poter utilizzare lo spazio anche al di fuori dell’orario consentito e con nostro sommo piacere questo ci fu accordato. Franz era un tipo a dir poco incredibile, parlava almeno sette lingue, discorreva di letteratura e scienza con passione e con proprietà di linguaggio, in occasione di compleanni e festicciole qualcuno ha raccontato di averlo sentito suonare il violino con maestria. Con me condivise lunghe sedute di pittura e anche in quel campo dimostrò di saperci fare.

Ero così sorpreso ed estasiato di avere un compagno di clinica di così alto livello che per lungo tempo mi dimenticai di chiedergli quale fosse il motivo della sua presenza in quel posto, quando gli feci la fatidica domanda Franz mi guardò e con candore mi rispose: il mondo ha deciso che sono fuori tempo, ho passato metà della mia vita dentro i manicomi e là fuori oggi non ho più nessuno che potrebbe accogliermi, per questo motivo la clinica alla fine resta il posto più sicuro e il più comodo per fare i miei esperimenti.

A quali esperimenti si riferisse non mi fu subito chiaro ma una volta Franz si materializzò nella mia camera durante l’ora del riposo pomeridiano e pareva molto agitato e serio tant’è che mi chiese aiuto. La cosa mi allarmò moltissimo infatti feci immediatamente il gesto di alzarmi dal letto per poterlo abbracciare o cercare di confortare ma ecco che nel momento in cui mi sbilanciai verso di lui scomparve in un modo che oserei dire magico non saprei dire altrimenti., pareva essersi volatilizzato. La cosa però che fece crescere a dismisura la mia inquietudine fu quando, nel tentativo di uscire dalla stanza per controllare il corridoio alla ricerca di Franz, scoprii che la porta era chiusa dall’esterno, cosa che succedeva spesso, una misura cautelativa degli infermieri per evitare via vai di pazienti nelle ore di riposo.

Quindi Franz non solo si era volatilizzato ma pareva addirittura che fosse entrato attraversando il muro. Come avesse compiuto quella operazione aggiunse mistero al mistero. Un’aura di prestigio cominciò ad aleggiare intorno a quella strana personalità. Un giorno gli chiesi spiegazioni su quell’episodio e lui con grande compostezza mi sorrise e mi prese in disparte e cominciò a parlarmi sottovoce come se avesse segreti da rivelare, lo guardai e vidi che sorrideva e ciò mi fece inizialmente pensare a uno scherzo ma quando iniziò a raccontarmi di certe sue scoperte fui travolto dalle emozioni.

Tutti noi umani, mi disse, abbiamo facoltà inespresse, facoltà incredibili, ma in potenza, pronte a fiorire e svilupparsi quando i tempi saranno maturi. A lui era successo in passato di udire delle voci, voci interiori s’intende, e ne aveva pure parlato con lo psichiatra e ciò aveva avuto come immediata conseguenza un ricovero coatto e bombe di tranquillanti e psicofarmaci, da allora si era ripromesso che non ne avrebbe mai più parlato con nessuno. Ma le voci dopo pochi mesi erano tornate e con loro uno stato ricorrente come di espansione di coscienza, di lucidità estrema. In quei momenti era stato in grado di prevedere eventi e leggere nel pensiero delle persone con le quali interagiva e questa condizione di possibilità fuori dal comune certamente all’inizio lo avevano spaventato. Successivamente però il suo stato si era come stabilizzato creando in lui una sensazione di onnipotenza mista a responsabilità verso gli altri esseri umani. In quei giorni era riuscito a leggere interi libri in pochi minuti memorizzando diverse lingue straniere con estrema facilità e aveva capito che la mente umana aveva poteri prodigiosi e che tutta la realtà poteva essere plasmata dal pensiero. Ma dovevano crearsi delle condizioni particolari.

Gli chiesi immediatamente quali fossero queste condizioni e lui mi parlò essenzialmente di un calore interno a livello del cuore alla quale faceva seguito una sensazione di luminosità quasi accecante in tutto il corpo, internamente ed esternamente. La sovrapposizione di luce e calore produceva un’onda sonora simile a una melodia struggente che gradualmente permeava il pensiero. Era un momento di commozione indescrivibile in cui tutto diventava possibile, bastava desiderarlo, pensandolo intensamente. Non riuscivo a seguirlo, gli chiesi di spiegarmi meglio ma lui improvvisamente parve stanchissimo, come invecchiato e scosse la testa. Decidemmo di rimandare all’indomani ulteriori rivelazioni. Quella volta al momento del congedo ci guardammo e poi ci stringemmo entrambe le mani come fratelli sorridendo, senza dire una parola.

Il giorno seguente nel nostro reparto ci fu una mezza rivolta, cose che succedono aveva commentato un infermiere anziano, ma era stato per tutti un grande stress, tutti gli ospiti urlavano, volavano oggetti di ogni tipo, vennero chiamati in forze infermieri da altri reparti e ci volle qualche ora prima che l’ordine venisse ristabilito. Io e Franz ai primi segnali di casino ci siamo rifugiati nell’atelier e chissà, forse come reazione allo stress, ci siamo messi a dipingere grandi figure in verde usando per la prima volta colore denso quando normalmente tutto era acquoso e gocciolante. Più tardi, con le mani tutte colorate siamo andati a cercare del cibo nel salone della mensa ma la cucina era già chiusa. Avevo una fame da lupo eppure il cibo in quel momento non era la mia priorità, più importante era quel tempo ricco che stavo vivendo con Franz, esperienza che non avrei voluto condividere con nessun altro.

—Vorrei essere come te — gli dissi più tardi, prima di accomiatarmi per il tradizionale pisolino pomeridiano.

—In che senso? — mi chiese Franz, pulendosi i denti con uno stuzzicadenti.

—Nel senso che vorrei sentire quello che senti tu, accedere a quegli spazi della coscienza che sono preclusi ai più, vivere la vita nella sua vera pienezza.

Lui mi guardò, con lo stesso stuzzicadenti di prima iniziò a passarsi le unghie delle mani e poi mi disse: — Tu sei già pronto, solo devi ripulire il tuo corpo fisico, interrompendo l’assunzione di farmaci. Anche in questo senso tu puoi fare come faccio io. Io non prendo pasticche già da anni, i medici mi ritengono un ligio paziente ed io li lascio fare, lascio che facciano i loro monitoraggi, i loro calcoli e le loro proiezioni.

—Credevo che la mia, la nostra, guarigione dipendesse completamente da quei farmaci.

—Non crederai alle loro storielle, vero? Io i pasticconi tranquillizzanti ho cominciato a metterli nei vasi delle piante, all’inizio era solo un esperimento poi ho notato che degli effetti c’erano e così ho insistito.

Sorrisi.

—Se vieni in giardino ti mostro qualcosa.

Così dicendo mi fece cenno con la mano e insieme ci dirigemmo verso l’uscita posteriore del reparto dal quale si poteva accedere alla zona verde.

—Ti piace la mia Rosa Litiata? E questa Peonia Mirtazan non la trovi bellissima?

In quel giardino, di fronte al genio irriverente del mio amico capii quanto la libertà fosse a portata di mano. E presi una decisione irrevocabile: sarei uscito da quel posto al più presto e avrei portato Franz via con me.

—Mi faccia capire, caro professore, questa sua idea di fare una donazione in favore del nostro reparto.

—Beh, dottore, come cercavo di spiegarle un attimo fa sono convinto che il tempo della mia permanenza qui in clinica si debba considerare concluso, insomma per farla breve, vorrei andare a casa.

—Mah, questo forse è un po’ prematuro dirlo anche se i suoi progressi sono evidenti, parlando anche con i colleghi siamo tutti concordi nel riconoscere che mai come oggi una completa guarigione è a portata di mano, ma da lì ad affermare che possa tornare a casa domani e condurre una vita normale, beh ce ne passa. Tornando a noi, stavo leggendo la lettera con la sua proposta, 50.000 euro è una cifra importante e…

—Voglio andare a casa, questa è l’unica cosa che mi interessa in questo momento, i soldi non sono un problema per me, posso averne quanti ne voglio.

—Mi fa piacere per lei che si senta così ricco, mi piace meno questa euforia con tratti megalomani che percepisco nelle sue parole. Quando ha fatto gli ultimi esami? Ha già concluso l’ultimo ciclo di terapie? Mi faccia un attimo guardare la sua ultima scheda.

—Mi scusi se insisto dottore, confido nella sua comprensione e a questo punto anche nella sua discrezione, mi permetto di offrirle 50.000 euro cash che troverà in questa cartelletta verde insieme agli ultimi referti medici che mi riguardano. Ecco, la prenda, le chiedo solo di firmare il modulo di dimissioni per me e per Franz.

—Franz Levine? Ah, questa poi! Sembrate Crik e Crok voi due. E poi chi si prenderà cura di lui? Ci penserà lei? Mi sembra evidente che il suo amico non è in grado di vivere autonomamente e lei viene fresco fresco a farmi le sue proposte. In ogni caso non posso prendere io una decisione simile, devo chiedere al direttore sanitario, al dottor Negroli e…

—Gli faccia avere quest’altra busta, sono sicuro che anche con lui non sarà difficile trovare un accordo. Per quanto riguarda quel mattacchione di Franz farò in modo di dispensare la clinica da qualsiasi responsabilità con una richiesta formale di adozione.

—Adozione? Ma cos’è uno scherzo? Lei è proprio pazzo, me lo lasci dire. E poi cosa fa se lo porta a casa? Io di teste bacate nella mia vita ne ho viste tante ma una come la sua non mi era mai capitata.

—Bene, ho capito, allora mi riprendo le buste.
—Ma no, ora non sia precipitoso, la sua offerta di donazione alla nostra clinica ci fa onore, penso di poter parlare anche a nome del direttore, ci conosciamo da anni, siamo più che colleghi, siamo amici. Mi lasci fare due conti, sa com’è, per ogni ospite qui riceviamo un contributo dalla regione e perderne due in un botto non è poco, ma le ripeto credo che si possa fare, anzi ne sono certo, oggi pomeriggio ne parlo con Marco ehm, volevo dire con il dott. Negroli. Certo che lei…

—Certo che lei?

—Lei è fortissimo, caro professore, l’ho capito fin dal primo momento in cui l’ho vista arrivare qui da noi in clinica.

Eccoci, finalmente liberi, io e Franz, da non credere. E come se questa gioia immensa non bastasse siamo casa, nella pace del giardino, con Ben che dal momento che ci ha visti non ha smesso di abbaiare e guaire e Nino che già ripete versi e versetti di Franz, si può già dire che siamo una famiglia. Come sta Franz? Benino direi, anche se è difficile immaginare come ci si possa sentire veramente dopo quindici anni passati in clinica. I primi giorni sono stati surreali, Franz aveva tutti gli automatismi della routine giornaliera, voleva mangiare agli stessi orari, molto spesso lo trovavo seduto in poltrona a guardare nel vuoto. Da parte mia ci sono momenti in cui temo di aver fatto un errore con lui, ho paura di avergli fatto violenza strappandolo dal guscio protettivo della clinica.

Ma con un po' di pazienza... Nel frattempo ho visto che Franz ha incominciato a cucinare – ignoravo che avesse questo talento – soprattutto torte e biscotti, la casa si è riempita di buoni profumi – mio nonno aveva una piccola pasticceria vicino a Sils Maria in Engadina mi ha rivelato un giorno– capitava d’estate di aiutarlo, è stato lì che ho imparato molti segreti. La presenza di Franz in casa non passò inosservata alla cerchia dei miei amici – ai quali nel frattempo avevo perdonato la lunga latitanza – e anche a loro Franz, con discrezione devo dire, mostrò i suoi super-poteri leggendo libri a distanza, materializzando oggetti ma soprattutto mettendo a disposizione di tutti la sua infallibile capacità diagnostica.

Al mio amico Franco, che è sempre stato un salutista con una vita passata a mangiare da crudista, praticare yoga e partecipare a retreat ascetici, Franz trovò un tumore al pancreas grosso come una palla da tennis della cui esistenza nessuno aveva fino a li saputo nulla. E la pronta operazione che ne seguì, grazie a quella diagnosi precoce, gli salvò la vita. Franz era fortissimo anche nelle premonizioni, alla Gianna, altra amica mia storica, della quale nulla sapeva Franz, disse non prendere l’aereo che hai prenotato per il Cairo l’estate che viene e lei, forse anche solo perché spaventata dal suo sguardo non meno che dalla perentorietà di quell’ammonimento, seguì il suo consiglio e poi si seppe che quell’aereo era precipitato subito dopo il decollo e molti passeggeri avevano perso la vita.

Quindi grazie a Franz si creò a casa, spontaneamente, un cenacolino di persone che due o tre volte alla settimana si davano appuntamento per chiacchierare, condividere una buona torta o ascoltare le ultime storie del mio amico. Molti nel quartiere notarono il via vai di persone al numero 46, solo la fruttivendola dell’angolo parve non gradire questa mia ritrovata vitalità e dopo mesi di musi lunghi e borbottii sommessi un giorno se ne uscì con una frase stizzita: pensavo fosse morto invece ha solo cambiato sponda, bravo professore!

Di una, tra le sue innumerevoli facoltà paranormali Franz parlava poco, si trattava del cosiddetto teletrasporto, nel suo caso non solo in altri luoghi ma addirittura in altre epoche. Una volta, durante il periodo in clinica, Franz mi mostrò delle monete antiche, presumibilmente romane, pezzi incredibili dal valore inestimabile, ognuna con il profilo dell’imperatore Augusto, mi disse di averle portate con sé di ritorno da uno dei suoi viaggi. Naturalmente pensai subito a qualcosa di archeologico e al periodo precedente ai ricoveri ospedalieri ma Franz giurò di averle trovate a Roma durante una passeggiata nel passato, dicendomi anche che non era sua intenzione turbarmi con questi racconti, infatti la cosa finì lì.

Un’altra volta successe a casa, lo trovai intento a lucidare un piccolo vaso nero con figure rosse di delfini e guerrieri, uno di quelli che siamo abituati a trovare nei musei. Lui si girò e mi sorrise e ci capimmo. Un’altra volta, una sera d’estate che eravamo andati a mangiare un gelato per avere un po' di refrigerio, lui mi guardò e mi chiese: —Ma tu se potessi, in che epoca ti piacerebbe ritornare? Preso alla sprovvista da quella proposta, emozionato ma ancor di più preoccupato per una possibilità che sapevo non solo teorica risposi goffamente qualcosa che ora non ricordo, quello che ricordo è che immaginai un futuro, sì, la mia curiosità si volse dalla parte opposta, così, se avessi potuto scegliere, dissi, avrei voluto visitare un luogo conosciuto ma nel futuro, anche solo tra cinquant’anni mi basterebbe, aggiunsi cercando di controllare il battito del cuore che sembrava impazzito. Franz che evidentemente stava pensando a mille cose contemporaneamente – cosa avrei dato per conoscere i suoi pensieri – mi sorrise e poi mi chiese: vorresti provarlo anche se sapessi di non poter mai più tornare indietro?

Sembrava uno scherzo, successe veramente.
Alla fine dell’estate decidemmo di fare una delle nostre passeggiate notturne nel bosco fuori città, era stato Franz a farmi conoscere il piacere di attraversare la notte senza dormire, ore assolutamente magiche durante le quali tutto il mondo, normalmente frenetico, sembra acquietarsi. Se poi nel cielo ci sono le stelle allora si aggiunge splendore a splendore.

—Conosci l’ora blu? —mi aveva chiesto Franz, sorseggiando del tè caldo.

—Non saprei — avevo risposto, cercando di ricordare quando e dove avevo già provato l’esperienza del confine tra la notte e il giorno.

Camminammo al limite di un bosco scuro mentre alle nostre spalle l’oscurità si stemperava permettendoci di riconoscere le forme degli alberi e l’andamento geometrico della terra nei campi.

—Allora sei pronto?

—Pronto per cosa?

—Per andare in Sardegna!

—In che senso scusa?

—Dai, lo so che è quello il tuo desiderio. Sardegna nel 2078, non me l’hai detto solo perché non osi ma io so che l’hai pensato almeno cento volte.

—Franz! È vero. Mi piacerebbe fare questa esperienza ma… mi dispiace perderti.

—Oh no! Noi non ci perderemo mai!

—Sì, però, se è come hai detto, io non potrò più tornare da te.

—Consideralo il mio regalo. Tu in fondo mi hai salvato la vita.

—Ma no, è solo che non potevo più sopportare di vederti in quella prigione, è così bello vederti così come ora.

—Ascolta, sentirai un primo uccello cantare, quello è il segno che il giorno sta per cominciare. Poi arriveranno tutti gli altri, sentirai che meraviglia, un vero coro celestiale. Respira, continua a respirare e chiudi gli occhi, vedrai, il passaggio sarà impercettibile. Io resto qui con te fino all’ultimo istante. Ecco li senti? Hanno cominciato… è il momento!

Mi ritrovai per terra in mezzo a un uliveto. A poche centinaia di metri davanti a me c’era una pineta fitta e dal punto in cui stavo, leggermente sopraelevato, riuscivo a scorgere uno spicchio di blu intenso, il mare: in quel momento pensai ecco, sono in Sardegna. Per la commozione ma anche per il crollo della tensione caddi in un sonno profondo. Fui svegliato da un campanellìo intenso e mi ritrovai circondato da decine di capre e in mezzo a queste ultime vidi anche vari bambini di colore schiamazzanti che si inseguivano armeggiavano lunghi bastoni. Appena mi videro esclamarono qualcosa di incomprensibile e si allontanarono. Provai a seguirli ma loro erano già lontani, a quel punto vidi che c’era un villaggetto di case bianche e altra gente e degli asini. Mi incamminai con una sensazione mista di piacere e inquietudine, la gioia di essere finalmente tornato sull’isola amata e l’incertezza per ciò che sarebbe stato di me, in fondo che ne sapevo, non potevo neppure lontanamente immaginare come sarebbe stata la Sardegna del futuro... e poi quale futuro? Quale epoca? Erano domande alle quali speravo di poter dare al più presto una risposta.

Giunto nei pressi delle prime case realizzai ben presto che tutte le persone intorno a me erano scure, anzi scurissime, parevano veramente più africane che sarde. Inutilmente cercai di parlare con loro, la loro lingua era incomprensibile. Mi venne offerta dell’acqua, l’accettai subito. Un uomo molto magro e con un grosso cappello di paglia sulla testa mi offrii del pane sottile ma già secco. Tutti vestivano semplicemente, nessuno portava scarpe, i vecchi erano coperti con vesti lunghe di cotone scuro così le donne, che intravvidi dietro le tende delle case, coperte con il velo al modo degli islamici. Venne la sera e nella luce del crepuscolo mi parve di riconoscere un promontorio con una torre e per questo mi spostai e camminai fino a quando tutto intorno fu buio, solo qualche luce rada qua e là stava a indicare la presenza umana.

Dormii in una caletta al riparo dal vento dopo avere mangiato fichi raccolti come avrebbe fatto un cieco, seguendo il profumo dolciastro delle foglie e setacciando i rami con le mani. Mi svegliai prima dell’alba, il cielo aveva il colore di una pesca, mi ritrovai circondato da piante di corbezzolo, di mirto e di lentischio, se quella terra non era Sardegna le assomigliava molto, pensai. Camminando lungo la strada sterrata che seguiva il profilo della costa incontrai un uomo con il suo asino. Aveva con sé una bisaccia dai colori vivaci dalla quale trasse dell’uva nera dagli acini allungati. Chiesi anche a lui dove mi trovassi, soprattutto se quella fosse la Sardegna, mi rispose in una lingua sconosciuta, annuendo e sorridendo diverse volte, alla fine non facendo altro che aumentare il mio disorientamento. Anche lui era alto e la sua pelle era scura come il cuoio.

Non c’erano automobili! Ecco cosa mancava in quella terra mezza disabitata. Possibile che la Sardegna si fosse ridotta così? E poi l’assenza delle auto era molto strana, no, quella non poteva essere Sardegna. Quando finalmente mi convinsi vidi un cartello stradale tutto sforacchiato da proiettili con la scritta CABRAS e quasi mi venne da piangere. Proprio in quell’istante in lontananza apparve la scia polverosa di un’auto in arrivo, lo scenario in pochi secondi era cambiato. Mi piazzai in mezzo alla strada e attesi commosso l’arrivo dei miei salvatori. Ci siamo, pensai, emozionato come un bambino. Si fermò un pick-up dal quale scesero due uomini neri vestiti in mimetica e con un basco verde in testa. Entrambi avevano una mitraglietta a tracolla e quando mi videro cominciarono a urlare. Alzai istintivamente entrambe le braccia in alto e urlai alcune frasi sconnesse, il mio nome, pace, italiano, sardegna…

I due militari – notai sulle loro giacche dei distintivi con una testa di leone e delle stelle d’oro - mi fecero inginocchiare, uno dei due mi urlò una serie incomprensibile di parole, allora urlai anch’io, mi arrivò un colpo sulla testa, caddi a terra, mi perquisirono, alla vista dei miei documenti si misero a ridere e di colpo tutta la tensione cadde. Mi fecero salire sul loro mezzo e mi ritrovai seduto tra loro due. Non so chi ma qualcuno accese la radio e la scena si animò di ritmi africani e i due giovani soldati cantarono per tutto il tempo fino a quando giungemmo in un paese apparentemente disabitato. Là in mezzo alla piazza principale vidi una quercia ombrosa e una panchina e sulla panchina c’era un anziano, un uomo con la sua coppola e la sua giacchetta, finalmente un sardo pensai dentro di me. I due militari mi scortarono fino a lui, mi salutarono e poi scomparvero.

Rimasi in piedi davanti a lui, senza dire nulla. Quando alzò lo sguardo su di me vidi qualcosa che non potrò dimenticare, c’erano moltissimi paesaggi diversi in quegli occhi, vidi stagni e filari di aranceti, vidi acque turchesi, vidi cavalli ma anche fuochi e non si trattava di piccoli fuochi ma di incendi. L’uomo mi sorrise e con voce sottile disse di chiamarsi Efisio, affermando anche di essere l’ultimo sardo presente sull’isola.

—In che senso scusi? — chiesi incuriosito.

—Nel senso che la carestia degli ultimi vent’anni ha portato ad un lento ma inesorabile spopolamento e…

—Ma che anno è? — chiesi con voce tremante.

—Oggi è il 15 giugno del 2078, la mia memoria è ancora buona, sia ringraziato il cielo.

—2078! Carestia? Di quale carestia parli?

—Ah, ormai sono passati più di trent’anni, nessuno ci credeva ma poi le estati hanno cominciato a essere bollenti e duravano sempre di più, fino a novembre, l’acqua all’inizio ha cominciato a scarseggiare poi è finita del tutto, in quelle condizioni la vita è diventata impossibile.

—E dove sono andati tutti gli abitanti dell’isola?

—Principalmente nel nord Europa, soprattutto Norvegia e Islanda, solo a quelle latitudini si poteva immaginare di sopravvivere.

—Ho visto diversi africani qui... devo immaginare che...

—Hai capito bene. Sono venuti loro, sono loro i nuovi sardi. Moltissimi sono venuti dal Senegal e dal Mali, là erano già pastori, non è stato un grande cambiamento venire a fare lo stesso mestiere quassù. E poi a quella gente basta un pozzo e sono già contenti. Ma l’isola è aridissima, le pecore le vedi sono pelle e ossa. Nella parte nord dell’isola è stato fondato il principato del Marocco, là pare facciano un’altra vita anche se con leggi dure e crudeli. Gli africani che stanno qua si guardano bene dallo spingersi lassù, hanno paura. C’è il rischio di diventare schiavi.

—Mi scusi la domanda Efisio, ma lei perché è rimasto?

La risposta a quella domanda non fu immediata. Giunse nelle settimane successive insieme a tutte le altre risposte alle mie domande. Efisio non volle mai sapere come mai fossi arrivato a Cabras in quel momento drammatico della storia dell’isola, né quale vita avessi fatto prima di giungere davanti alla sua panchina. A Efisio parve interessare fondamentalmente una cosa sola e me lo confidò anche, si chiamava amicizia e per tutto il tempo in cui rimanemmo vicini non fece altro che esprimere la sua gratitudine per la mia presenza, perché essa aveva portato nella sua vita, ancora una volta, l’emozione dell’incontro, - non ho nulla contro sti neri, sia chiaro – mi disse, è brava gente, ma loro cultura è diversa, come la loro lingua, impossibile capirsi, con te invece posso essere me stesso.

Vissi con lui i suoi ultimi anni, mi ospitò nella sua casa in calce dove c’era un pozzo che non l’aveva mai tradito e nel vestibolo della sua cucina pure un forno per cuocere il pane. La sua casa aveva ancora l’impianto delle case antiche con il giardino interno e si sviluppava tutto sullo stesso piano. Efisio era molto orgoglioso della sua casa, lui piccolo di statura in tutto quello spazio si sentiva un re. Lo seppellii sotto una quercia, avvolto in uno di quei tessuti decorati e preziosi che i sardi si tramandavano di generazione in generazione e che Efisio aveva gelosamente tenuto appeso sopra al suo letto. La separazione da lui non fu difficile. Il mio cuore era così colmo di gratitudine che temetti per un attimo che potesse esplodere. La vita era stata generosa con me, come ultimo amico avevo avuto addirittura un re, l’ultimo re di Sardegna.

Note

Conoscenza, seconda parte del racconto.