Il teatro non sa niente del teatro
Non può spiegarsi né essere spiegato.

(Carmelo Bene, In-vulnerabilità d’Achille: Piergiorgio Giacchè, Incontro con Carmelo Bene)

Carmelo Bene in scena assomiglia alla grandezza
di Dalì se dipingesse sotto i nostri occhi.

(N. Ismailova, Mosca, 29 dicembre 1990)

Perché quest’opera di Bene è così importante? Ne abbiamo accennato in altre occasioni: il ritorno del Mito quale canto, pura voce; dell’eroismo quale assunzione della paradossalità dell’esistere, il superamento del Mito quale mero racconto. Ma appare opera ultima e decisiva anche per comprendere in essenza tutta l’opera di Carmelo tanto che lui stesso la considera testimoniale della sua vita-opera.

Nella Pentesilea-Achilleide-In-vulnerabilità d’Achille la “macchina attoriale” beniana appare ridotta ai mimini di presenza: solo pochi veli da sposa e qualche relitto di manichini bianchi di donne. Quasi non c’è scena. Appare quindi in cruda trasparenza ciò che già c’è in ogni sua opera: la scena è il corpo-voce di Carmelo Bene, il “grande Assente”, come l’Alexandros pascoliano.

Lo stesso Carmelo ammette che in quest’opera non solo svanisce l’Io ma lo stesso “soggetto”. Il corpo è gesto accennato e non concluso. Continuamente vanificato nel suo tentativo di costruire la “sua” donna-visione.

La Voce passa in puro ascolto, passaggio, assoluta presenza effimera, alienità. Come un corpo si percepisce l’estraneità dell’esserci, la desolazione di una vita che non sa viversi. Ha ragione Carmelo, dentro e fuori della sua opera, come sempre: di fronte a questa voce di Achille-Pentesilea compare solo un rispettoso silenzio. Il silenzio musicale dell’Opera richiama un silenzio di meditazione-concentrazione di chi contempla questa voce-gesto.

Come nei Cantico dei cantici non si sa chi parla! Ma là abbiamo almeno un linguaggio, per quanto vago, ambiguo e allusivo. Qui è la fine del linguaggio e l’unica lingua è il corpo-suono. Svanente, irreparabile. L’ “automaticità” di una processualità musicale spersonalizzante appare attraversando Carmelo Bene come corpo in ascolto, in sussulto, velo e oggetto, relitto tra relitto.

E il sogno appare gesto attimo dopo attimo lasciato e sconfessato, permesso e negato. Achille come fallimento degli dei, sollievo di uno Zeus messo in pericolo, agonia degli dei più antichi, come la madre Teti. Parole illeggibili ma cantabili. Come il suo poema ‘l Mal de’ fiori.

L’immortalità giocata di fronte all’eternità. Ma invertite: l’immortalità quale paralisi, quasi perfezione di fronte all’eternità greca della Natura già leopardianamente e sadianamente indifferente; giustapposta all’eternità beffarda e istantanea del destino che nel canto l’eroe continuamente rinvia.

Achille è l’identico ma rispetto a nulla. È scherzo della natura-destino. Singolarità assoluta che stride con una gloria-battaglia-guerra tutta femminile per lui a cui sfugge il femminile.

Ecco allora la cetra, il suono del mare, la tenda, la notte. Immagini femminili, ritornanti, in cui si vela e annulla. Sogno di ritornare nei boschi fanciulli a cui è negato il ritorno. Identico ma singolare. Non sono ammesse repliche. Ecco l’eroe; il paralizzato dentro un sogno altrui.

Canta se stesso che non è più. Canta la propria assenza dalla storia. Ma il canto di altrui vuole che continui la recita replicante “dell’eroe nella storia”. Carmelo solo capisce che la tragedia chiamata Achille sta nella sua perfetta incompletezza e nel non senso della sua esistenza, già scritta.

Per questo il buio è materno e amico, il buio del canto e della maschera greca. Il giorno è disastro, come Von Kleist nella sua Pentesilea evoca. La falsa luce della Storia.

Carmelo parla di sé come Achille quale teatro di un cadavere in scena. La vita non sa che farsi della vita. La coscienza o è serva o è coscienza della morte, del morire. Ne servo e né morire vorrebbe Achille. E allora “muore in voce”, “in versi” svanisce nell’ascolto del suo cantare.

La fallimentare e vana ricomposizione in forma di donna dei relitti di manichini si rivela il suo contrario: un auto-smembramento. Dionisiaco sparagmòs. A lui è negata ogni illusione di completamento e riconoscimento. Non può specchiarsi neppure in se stesso, ma solo nella marina indistinta femminilità materna.

Poesia dell’incomprensibile. Senza articolo davanti la voleva. L’eroe quale dio mancato, incompreso. Eroe in quanto mostro per l’umano e per il divino. Imbarazzante. Rifiutato, escluso, già cantato in vita, come già morto. Nessuno gli sta vicino. Solo il sognare come balbettare con relitti, macerie.

E meraviglioso mostro è l’Achille Carmelo, acqueo e aereo. Ne appare l’omerica inattualità e paradossalità, la femminilità musicale dall’Achilleide di Stazio e l’epos autodistruttivo di Von Kleist. È tutto un grande enjambement, senza partenze senza ritorni o solo ritorni.

Ci si riconosce solo nell’uscire di scena. Ma non si può farlo in due. Achille immerso in suoni bambini, di carillon. La musica non vuole crescere. Solo passare. Senza pensare. Gioco del gioco.

La scena è l’implodere del sognare sul corpo-maschera, vuoto, escreto. Estensione dell’incantante dis-incanto del muoversi. L’Identico torna solo nella coscienza della recita a cui ci si vuole sottrarre: la vita. Il figlio della materia viva, dei boschi, è condannato a desertificare la recita, a portar morte.

Poesia è giocare con le proprie mancanze. Lasciarle risuonare. Achille è la mancanza di Briseide, di Deidamia, di Ifigenìa, di Pentesilea, di Polissena, di Elena. Millenni di assenze. Distanze siderali. Achille come mancanza di Teti e Teti che fallisce in Achille. Incontro di mancanze. A nessuno assomiglia o può assomigliare Achille. L’unico che conosce la sua morte, e rispetto al quale ogni altra vita sembra recita. E infatti il nostro eroe è sempre costretto a mascherarsi: da fanciullo normale, da femmina, da eroe, da fanciullo ritornato tale. Non cresce. Resta sempre negli Inizi.

Non ha casa. Non è ad-domesticabile. Solo nella solitaria musica e canto, che è Teti-Mare, trova quella dis-articolazione del corpo che il destino in vita vuole negargli. Chi sopporta la propria singolarità? La propria inscalfibilità?

La condanna del Nome la cui eco precede ogni azione e imprigiona l’atto. In una luce bianca abbagliante, s-materializzante, Achille-Carmelo si accudisce, si fa madre a se stesso.

Attorno all’eroe strano o il deserto oppure dei suoi doppi. Pentesilea che cade annuncia la sua morte. Non si può sposare se stessi o un proprio sogno! Achille vorrebbe dimenticarsi, uscir da sé. Ma può farlo, decreta il Fato, solo dentro la recita della storia, che lo disgusta. Credere è cedere, morire.

L’ira del Pelide è l’eccesso di spirito di vita. Spreco e lusso. Ira contro la Grecia. Il massimo dello straniamento. Vincere è la propria fine. Pentesilea come il cavaliere inesistente di Calvino.

Suoni acuti…sembra Battiato. Squilli e trilli che attraversano l’orecchio e le sue capacità. Nulla da accogliere. Lasciarsi attraversare.

Legge il non-testo, legge l’oblìo, la Voce.
Flusso d’immediatezza lontana, assente
Ritmo di punteggiatura i silenzi.

Il Destino è Donna ma senza volto né corpo che si possa convincere.
Altro suo grande merito aver risvegliato l’Achille tutto fuoco
in cui la passione brucia come la battaglia
e il mondo è camicia stretta, tunica di Nesso.
Due meteore non sanno avvicinarsi senza il loro disastro.

Solo la verticalità radicale che è Achille può esserne maschera, in quanto vuota, fatale.

Ecco: è l’ascolto fatto silenzio della musica.

Eroe è colui che non fugge dal deserto
in cui si è capitati.