Impossibile trovare un’evoluzione del ritratto nella storia dell’arte perché sempre gli artisti hanno elaborato una loro personale idea dell’uomo, mediandola spesso con le aspettative della committenza.

Nel canone teorico scritto da William Hogarth, pittore del XVIII secolo, dal titolo Analisi della bellezza, una frase, che il volto umano sia “indicatore della mente” ha segnato l’inizio di un nuovo cammino nella ritrattistica.

Nei secoli essa si è dovuta però sempre misurare fra la ricerca della somiglianza e la volontà di rendere vivo il modello. Un grande aiuto alla vitalità del soggetto dipinto la dà sicuramente la luce, come ci mostrano gli impressionisti.

Siamo andati a intervistare al suo studio Silvia Cheli, una valentissima artista di oggi, specializzata in ritratti, che soprattutto in un impressionista, Giovanni Boldini, formatosi a Firenze, si riconosce nel suo stile pittorico.

La voce per telefono è gentile, dà i dettagli dell'indirizzo come se fosse facile. Invece poi giro a vuoto per un po', i civici 1 di via San Carlo sono due, in un paesaggio straordinario, collina fiorentina, pericoloso però da gustare per la velocità da Formula Uno con cui sfrecciano le macchine. Complice il cellulare, Silvia Cheli mi viene incontro al cancello del suo regno, un parco solenne, silenzioso, che conduce allo studio, rinchiuso nella torre del castello stile eclettico, come piaceva alla Firenze ottocentesca. L’artista è una donna minuta, graziosa ed elegante, un intreccio di dolcezza e grande determinazione.

Ecco, entriamo nello studio, e si capisce immediatamente quanta importanza Silvia dia alla luce. Infatti conosce le ore del giorno in cui può lavorare in luce piena e quando può farlo invece in trasparenza. Nello studio una gran varietà di quadri, differenti per dimensione e stile. Ritratti a pastello o sanguigna e quadri ad olio. Per questi ultimi i substrati possono essere lino, tela o carta da pacchi. La sua arte del dipingere soprattutto si avvale di una particolare capacità di ricamare con la luce. E oggi la sua ricerca continua anche nel campo della scultura, dove si cimenta nel fare soprattutto delle teste. Sono piena di domande.

Da dove nasce la passione per il ritratto?

Sono andata fin da piccola a lezione di disegno e pittura, e la cosa mi piaceva molto. Da grande mi sono sfidata per trasformare questa passione in una professione di sussistenza come ritrattista. È stato un percorso non lineare, perché nessuno riteneva possibile, io per prima, basare una professione sull'abilità grafico pittorica. E così ho intrapreso studi universitari di Psicologia in Francia, conclusi con una laurea in Ssicologia Sociale. Questo bagaglio culturale, lungi da allontanarmi dalla passione primaria, l'ha fortificata perchè è aumentata la mia istintiva capacità di cogliere la personalità del soggetto, così importante per la riuscita del ritratto.

Quali le motivazioni oggi per farsi fare un ritratto?

C'è una varietà di esigenze che spingono a farsi ritrarre. Alcune coppie, soprattutto in passato, volevano apparire, su esempio dei notabili di tutte le epoche, come personaggi storici in due distinti quadri da appendere alle pareti del salotto di rappresentanza. Un retaggio di tempi in cui non esisteva ancora la fotografia. Oggi viene da me chi ha la voglia e, perché no, il coraggio di conoscersi, senza porre ostacoli, perché il ritratto prende forma dal temperamento del committente e dalla scelta che induce in me della materia, della luce e dei colori per realizzarlo. Ogni persona che sceglie di farsi ritrarre si fa personaggio. E acquista un elemento in più per apprezzare una delle infinite sfaccettature della sua personalità.

Può descrivere il suo metodo di lavoro?

C'è un evento creativo, che è istantaneo, ma, una volta impostato un quadro, ci vuole un grande lavoro per completarlo, e pertanto mi sono autoimposta un ritmo di lavoro da impiegata, tutte le mattine con regolarità.

Le riesce sempre creare l'intesa con tutti quelli che l'avvicinano per farsi ritrarre?

Non ci crederà, ma quando non si crea al primo incontro, quelli successivi per una ragione o per l'altra non si realizzano. E la cosa va a morire senza imbarazzi per nessuno.

Quanta pazienza deve avere la persona che si vuole far ritrarre?

No no, non costringo nessuno a stare in posa. La prima parte del mio lavoro è fatta di scatti. Niente di digitale, uso una macchina con la pellicola, che permette il dialogo con la persona mentre scatto. Mi aiuta a capirla. Proprio per esprimerne la personalità, cambio i materiali di cui mi servo a seconda del committente.

Effettivamente intorno a noi ci sono ritratti che, per la capacità introspettiva, descrivono un aspetto della psiche del soggetto. Materiali e colori sono dettati dunque da un connubio fra Arte e Psicologia, non disgiunte da personalissime risonanze dell'artista in rapporto con la persona.

C'è differenza fra ritrarre un bambino o un adulto?

Tecnicamente per i bambini piccoli la dimensione della testa è obbligata. Per loro, come materiali, uso soprattutto pastelli su carta da pacchi. Sono spesso le nonne che regalano il ritratto ai nipoti, ben sapendo che farà loro tanto piacere ritrovarsi da grandi un documento per ricordare meglio come vivevano la cosiddetta “età favolosa”.

Per gli adulti non si può fare un discorso univoco. C'è poi il cliente che desidera un gruppo di famiglia: uno o entrambi i genitori con i figli. In tal caso la psicosociologia mi aiuta ancor più a rendere possibile la complicata sintesi di caratteri e di ambiente necessaria a descrivere una famiglia intera.

A chi appartiene l'opera finita, visto che per un ritratto l'artista può appellarsi ai diritti d'autore ma chi lo acquista può anche pretendere la privacy?

Mentre per le foto c'è una legislazione esaustiva, che permette all'acquirente del quadro di poter acquistare anche le foto che ho scattato per costruire il suo ritratto, l'etica professionale mi guida nella gestione dell'opera che gli ho venduto, nel senso che, se intendo pubblicizzarla, lo farò solo se ottengo l'assenso della persona ritratta. Come esempi del mio lavoro ricorro di solito ai ritratti che ho fatto ai miei tre figli. Comunque, dopo l'invenzione della fotografia, all'arte del ritratto non si chiede più una mera funzione descrittiva. Quello che appaga è mettere in luce qualcosa di latente, che sia ad un tempo sorprendente ed accettabile. Qualcosa quindi che non mette in pericolo la privacy.

Silvia Cheli segue nel suo lavoro una modalità cui si assiste anche nel mondo dell’alta moda, in Italia il ritorno al “fatto a mano” con calma, passione, interesse. In contrasto con la tecnologia e la fretta a tutti i costi.

E quindi, per coloro che privilegiano la tecnologia, molto apprezzabile e semplificatrice del quotidiano, questa artista è un monito a mantenerne esenti quegli ambiti da cui gli automatismi vanno esclusi. Come, ad esempio, fare un ritratto, perché comporta la creazione di un'intesa, rapporto umano che resta gustosamente imprevedibile e quindi con la tecnologia ha ben poco da spartire.